Il Pane di Altamura, i poeti del forno e del grano

“Non consiglio di fare il pane, può diventare una passione pericolosa, come la poesia. Il pane è una vocazione piuttosto malinconica, che richiede principalmente tempo libero per l’anima. Il poeta e il panettiere sono fratelli, nel fondamentale compito di nutrire l’umanità” (1)

La SS 96 si lascia alle spalle, a nord, l’elegante città di Bari e i grossi centri che vi stanno intorno e procede verso sud-ovest in lievissima salita attraverso immensi oliveti e campi che in gennaio appaiono incolti e sassosi, appena macchiati da qualche gregge di pecore al pascolo. Benvenuti nell’Alta Murgia, terra arida ma generosa, uno dei “granai” storici d’Italia; i suoi campi, bianchi di sassi in inverno, si fanno verdi di grano giovane in primavera e gialli dorati in estate: l’oro del grano duro migliore d’Italia… come si dice qui. Sulla cima larga e piatta di un colle dal vasto panorama sta la città di Altamura, coi resti delle sua mura megalitiche preistoriche (Altus Murus) e il centro storico bianco come si conviene a una città di Puglia, chiaro di pietra calcarea di Trani e di Gravina: palazzi, chiese e i claustri racchiusi in se stessi con piccoli cortili stretti fra le case, una tipologia urbana che sa di Grecia ma anche un po’ di Maghreb e di Mediterraneo Orientale. Dici Altamura e pensi al pane… La storia di Altamura è strettamente legata al pane, alimento fondamentale per tutti i popoli che vivono intorno alle rive del Mediterraneo e che hanno nella “Mezzaluna Fertile” del Vicino Oriente la terra d’origine della loro agricoltura e della loro cultura (questa legata a quella non solo per etimologia).

La struttura urbanistica storica delle campagne altomurgiane consiste di grossi centri urbani con  migliaia di abitanti posti al centro di grandi estensioni di campi coltivati, e di masserie isolate nella campagna che – olim – ospitavano anche più di cento persone. Che vivessero nei “paesoni” o nelle masserie, i contadini che dovevano percorrere lunghe distanze giornaliere per recarsi al lavoro avevano bisogno di cibi facilmente trasportabili e ben conservabili, e il pane era il principale alimento fornito di questi requisiti. Pani grandi, quindi, e con una struttura che impedisse il rapido deterioramento, né troppo duro né ammuffito in fretta. Non sarà bastato un solo giorno per “inventare” il pane di grano duro di Altamura, ma il prodotto nato in un impreciso momento storico dall’ingegno di uno, dieci, cento anonimi fornai è stato indubbiamente un’invenzione geniale e di imperituro successo.

Tutto ha inizio dal grano duro(2): delle molte varietà autoctone di grano duro dell’Alta Murgia barese, l’unica che ancora venga coltivata diffusamente – ci sono una ventina di produttori – è il Simeto; la sua semola rimacinata viene mescolata con lievito madre naturale a pasta acida – giammai usare il banale lievito di birra! – e con acqua tiepida e sale marino.

Quando l’impasto è omogeneo si lascia lievitare per due o tre ore, coperto da un panno di cotone. Poi si riprende a lavorare la massa, modellandola secondo il peso desiderato. Storicamente si facevano forme di cinque chili, in grado di durare fino a quindici giorni; oggi le forme standard pesano un chilo: gli usi, i gusti e le dimensioni delle famiglie sono cambiati parecchio…peraltro più la forma è grande, più si conserva a lungo. Un’altra ora di lievitazione, poi si pratica un’incisione circolare intorno all’impasto e gli si dà una di quelle forme curiose che caratterizzano a prima vista il vero pane di Altamura: le più tipiche sono quella del “pane accavallato” (in dialetto suona u Sckuanète), in cui una parte dell’impasto viene ripiegato su se stesso, e quella del “pane morbido” (u Puène muedde), anticamente preferito dai contadini e dai pastori.

Se il grano duro è il primo elemento fondamentale per fare un buon pane e il lievito madre è il secondo, il forno è il terzo: i forni tradizionali in pietra sono ancora oggi un elemento urbanistico importante ad Altamura; possono essere costruiti in tufo o in “màzzaro” (pietra di Gravina), un marmo locale  refrattario; hanno cappe molto alte, bocche capaci di ospitare anche più di 300 chili di pane – un tempo si facevano infornate anche di 550 chili – e le pale per l’infornata hanno necessariamente manici lunghissimi di non facilissima manovrabilità; sono forni a legna a combustione diretta alimentati tradizionalmente soltanto con legna di quercia. Storicamente, i forni erano di quartiere o di masseria: ogni quartiere ne aveva uno e naturalmente ogni masseria doveva essere autosufficiente in tutto.

Spiego al mio amico genovese Ganni Dall’Aglio, che di buzzo buono è sceso fin qui per redigere articoli, raccogliere informazioni per raccontare la murgia, Alta, Bassa Carsica e Materana per “La casana” di Genova, che nelle città IN REALTA’ il panificio non esisteva;

è stato la diretta conseguenza del lavoro del  fornaio trasportatore (u carreisceapèi’n_il trasportapane) che usciva per il quartiere con un lungo asse di legno e andava a raccogliere le forme impastate della massaie da portare al forno; si facevano da due a sei cotture al giorno in funzione della temperatura dell’ambiente esterno, che influisce sulla temperatura interna del forno; con le massaie si programmavano gli orari “primo forno (circa alle 5), secondo forno (intorno alle 8)…”. Il fornaio veniva poi pagato in natura, generalmente con un pezzo di pasta cruda di circa 300 grammi (u c’cìj ora detto ciccio).

Pensiamo teneramente un po tutti che forse il merito di tanto successo sia dovuto proprio a questa magica “impollinazione” che i lieviti ambientali operavano, proprio  perché raccolti dall’aria che pervadeve le pagnotte ancora crude, durante il viaggio mattutino pregno di aria frizzante, per il quartiere, sulla spalla del trasportatore, di solito in bicicletta, prima di arrivare al momento dell’infornata.

 Infornare insieme impasti preparati da famiglie diverse rendeva necessario sapere poi distinguere i diversi pani per una corretta restituzione: esistevano quindi i marchi di famiglia coi quali si segnavano gli impasti, un procedimento analogo alla marchiatura del bestiame del West americano. A seconda della ricchezza delle famiglie i marchi da pane erano in ferro, in legno o più modestamente in fèrula(3); alcuni di essi erano vere opere d’arte realizzate da artisti specializzati.

Prima di infornare occorre sapere che il forno ha raggiunto la giusta temperatura interna: per questo si può usare un empirico ma efficace “termostato a focaccia”: si prepara e si mette a cuocere una focaccia “a terra”, (cioè non posta su una teglia ma appoggiata direttamente alla pietra del forno); il fornaio capisce dalla cottura della focaccia se la temperatura è quella giusta; è importante non commettere errori perché poi quando l’infornata del pane è finita si chiude il forno e lo si riapre solo per sfornare, senza avere la possibilità di controllare le fasi intermedie della cottura, che dura circa un’ora e mezza, raggiunge temperature fra i 200 e i 300°C e consuma circa 5 quintali di legna.

 Per il pane di Altamura ci sono assaggiatori esperti in grado di eseguire attenti esami organolettici: tagliandolo si osserva dapprima la crosta, dorata e spessa circa 7 millimetri, poi l’interno che è di colore giallo chiaro, per via del grano duro locale utilizzato (grano a chilometri zero, per usare una terminologia moderna), e di consistenza compatta, con occhiatura garbata e non eccessiva perché il lievito madre non gonfia esageratamente la pasta; al naso si avvertono profumi di tostatura che giungono talvolta alle note di caffè – non c’è profumo di “crosta di pane” perché non c’è il lievito di birra, piuttosto si avverte odore di “pasta acida”; in bocca è solubile e pastoso quando è fresco, più compatto ma sempre ben masticabile dopo alcuni giorni; nel finale della degustazione spesso si percepiscono note vanigliate. La corretta conservazione del pane prevede che venga avvolto in un doppio strofinaccio e tenuto in ambiente non umido; così facendo rimane buono anche per dieci giorni. È decisamente un pane “sostanzioso” ben diverso da certe diafane pagnotte piene d’aria in vendita nelle panetterie comuni, per cui ad Altamura si dice che “si mangia a grammi e non a fette”. E di esso non si butta via niente: se proprio è diventato vecchio, si possono fare bruschette con la c.d detta “fetta rossa” arrostita sulla brace del camino.

Ma notevole apporto calorico, che oggi definiremmo “low cost”, scaturiva dalla rimozione della prima fetta, induritasi appunto proprio perché la pagnotta non conteneva lievito di birra, per allestire il classico piatto della tradizione pastorale da consumare, dopo  la mungitura del gregge (ore ‘4,00 del mattino), dopo la formazione e rottura della cagliata (ore 8,00), e dopo la cottura del siero per estrarre la ricotta (ore 9,00): la cialda (la cialledd).

 La parte sottostante, morbida pur se non piu fragrante come appena sfornata, di una consistenza “cerosa”, accompagnava il formaggio ed i pomodori a filo nel tascapane del pastore per il “pranzo” di mezzogiorno, prima di rientrare in masseria alle 15,00 per la mungitura serale

 L’amore degli altamurani per il loro pane è tale che alcuni di essi sono orgogliosi di portarsi il pane appresso (siamo ancora pastori e ce ne siamo dimenticati),  quando vanno a cenare fuori casa, dagli amici o addirittura al ristorante, dove viene volentieri condiviso con gli altri avventori.

 Il pane di Altamura si fregia di due denominazioni di qualità: una è la DOP, istituita nel 2004, e l’altra – che contempla un disciplinare di produzione molto rigoroso ed è soggetta a controlli accurati – è il Presidio Slow Food del Pane tradizionale dell’Alta Murgia. Il Presidio è nato nel 2000 e inizialmente ci fu un solo forno tradizionale che accettò di produrre una parte del suo pane secondo il disciplinare stabilito da Slow Food.

Recentemente si è associato al Presidio un altro panificio storico altamurano, aumentando l’offerta.

Ma il Presidio del Pane tradizionale dell’Alta Murgia non esaurisce il suo compito occupandosi di pane, esso funge anche da guida dello sviluppo e della valorizzazione dell’agricoltura altomurgiana di qualità: collaborando con alcune associazioni di contadini e di commercianti, si fa promotore locale per ciò che viene chiesto oggi all’agricoltura italiana, ovvero “difendere il territorio inteso come insieme complesso di paesaggio, identità culturale e biodiversità… riportando alla luce tradizioni sociali e di tecnica agronomica che fanno parte della storia e dell’identità dei luoghi(4)”. E questo è un impegno di enorme importanza sociale, economica e culturale: valorizzare il tanto che c’è di eccellente nell’agricoltura italiana può concretamente aiutare la nostra patria a uscire dal difficile – e presumibilmente molto lungo – periodo di crisi che stiamo attraversando.

Note:

(1)     Isabel Allende, Afrodita. Racconti, ricette e altri afrodisiaci – Pane, ben di Dio, Feltrinelli, Milano, 2000

(2)     Il Triticum turgidum L. subsp. durum, ovvero il grano duro, deriva dall’ibridazione tra due specie selvatiche di frumento originarie della “Mezzaluna Fertile” e la sua domesticazione data al Neolitico. Il suo seme ha un contenuto di proteine più alto del seme di grano tenero, cosa che lo rende adatto particolarmente per la produzione di pasta. Tuttavia da secoli in alcun regioni del Sud Italia si rimacinano le semole di grano duro per produrre pane. Il pane di grano duro ha una consistenza particolare, un colore giallognolo per l’alto contenuto di carotenoidi, e resiste bene all’invecchiamento, restando appetibile per molti giorni.

(3)     La Ferula communis L., o finocchiaccio, è una pianta erbacea perenne simile al finocchio che vive sui terreni collinari calcarei e aridi del bacino mediterraneo; in primavera il fusto si allunga in uno scapo fiorale alto fino a 3 metri che porta ombrelli di fiori gialli; lo scapo rimane sulla pianta anche quando secca e in alcune regioni del Sud Italia viene usato per lavori di artigianato.

(4)     http://www.murgialife.it/murgia/index.php?option=com_content&view=article&id=2362:legumi-dellalta-murgia-alla-fiera-del-levante&catid=57:eventi&Itemid=144

 Produttori

Carlo Picerno, Altamura (Ba), via Degiosa 6, tel. 328 341 2663, lapanettaltamura@libero.it

Panificio Fratelli Di Gesù, Altamura (Ba), via Pimentel 15/17, tel. 080 314 1213, 335 731 0608, www.digesu.it

 

Presidio sostenuto da

Associazione Culturale Altus Murus, via Selva 18, 70022 Altamura (Ba), tel. 080 314 2866, altusmurus@libero.it

Ringraziamenti:

a Giuseppe, Pasquale, Luca ed Andrea Di Gesù (quinta e quarta generazione di panificatori), al fornaio Gianni e a tutto il personale del Panificio Di Gesù

a Carlo Picerno, primo produttore storico del Presidio e membro di C.A.M.P.O. Consorzio Agricoltori Mugnai Pastai-panificatori Organizzati di Altamura

a Gianni Dall’Aglio_redattore la Casana di Genova

a Giuseppe Barile_Presidente Consorzio Pane DOP di Altamura

a Pasquale Lorusso_ Direttore Consorzio Pane DOP di Altamura

 
di Michele Polignieri
Nella foto sottostante il “carreisciapein”, ossia colui che trasportava fino a 50 forme di pane in bicicletta (foto anni ’50 circa).
carreisciapein

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