Vincenzo Egizio, il coraggio di essere un contadino

Occhi di taglio orientale e carnagione scura, quasi a ribadire il cognome che porta, Egizio, Vincenzo ha quarant’anni e il nome dello zio. Figlio di contadini da diverse generazioni, è uno di quegli uomini coraggiosi che ha deciso di non lasciare la sua terra, ma di continuare a tenerla in vita e preservare quei saperi trasmessi dai genitori, che a loro volta avevano ricevuto dai nonni e così via, nel tempo, a ritroso, fino a perdere le tracce di chi aveva cominciato ad avere le mani callose per prendersene cura e fare di quel mestiere il proprio pane. Suo padre di Brusciano, sua madre di Somma Vesuviana: due paesi alle falde del Vesuvio, in ognuno dei quali Vincenzo ha ereditato un piccolo appezzamento di terra, per un totale di cinque ettari di cui tre coltivati a frutteto, in particolare albicocche del Vesuvio. Sua moglie Violetta, nonostante non abbia mai avuto esperienze legate alla terra, lo supporta in questa scelta; due figli, rispettivamente di tre e cinque anni, ai quali Vincenzo spera di trasmettere la sua passione, l’orgoglio di essere custodi della memoria e della biodiversità, di assicurare loro un futuro, ma dignitoso. Egli lotta affinché non siano costretti a piegarsi alle leggi di mercato di questa o quella industria agroalimentare, che decide quali specie vegetali debbano essere coltivate e quali semi utilizzati perché più adatti alla lavorazione o semplicemente al trasporto, oltre che ad acquistare i prodotti ad un costo bassissimo, al punto da mettere in ginocchio i coltivatori e costringerli poi ad abbandonare la terra. Semi modificati geneticamente che, tra l’altro, danno vita a un solo ciclo vegetale, perché la pianta non possa riprodursi. Questo è ciò che è successo nei terreni limitrofi a quelli di Vincenzo, che mi ha raccontato di quando da bambino seguiva la nonna mentre si incamminava verso il suo campo e lungo i sentieri della campagna di Brusciano ci si incontrava in tanti. Durante il lavoro i contadini dei campi confinanti cantavano e si sfidavano a chi avrebbe avuto il raccolto più bello. Sua nonna gli ripeteva spesso che la terra doveva vedere il padrone nove volte al giorno, proprio a ribadire la continuità con cui un contadino doveva prendersene cura. Oggi percorrere quei sentieri, per Vincenzo, significa imbattersi in qualche trattore arrugginito tra distese di terra ormai incolte e, soprattutto, fare i conti con il silenzio, quello dell’abbandono, quello dell’assenza.
Egli mi ha parlato di quanto costi fatica fare un lavoro agricolo ecosostenibile e rigorosamente manuale nel rispetto della tradizione, perché significa lottare con l’erba, che lui definisce “figlia carnale della terra”. Erba che prevarica qualsiasi coltura, e quest’uomo non utilizza né diserbanti né fertilizzanti, alternando le specie vegetali prodotte con le leguminose, così il terreno si arricchisce di azoto e il suolo non inaridisce con colture intensive.
Vincenzo coltiva tre specie di vegetali a rischio di estinzione: la Papaccella Napoletana, l’Antico Pomodoro di Napoli e il fagiolo Dente di Morto.

La Papaccella napoletana, un peperone tondeggiante dalle bacche piccole e un po’ schiacciate, la cui dolcezza della polpa ne rappresenta la peculiarità, rispetto ai tanti ibridi, decisamente più piccanti, che si trovano in commercio e che invadono i mercati napoletani in estate fino al periodo natalizio, è carnosa e molto saporita. Purtroppo sono in pochi e per lo più anziani a saperla riconoscere: il trucco sta nella dimensione che non supera gli otto, dieci centimetri di diametro. Si può conservare sott’aceto o sott’olio.

L’Antico Pomodoro di Napoli, in particolare la varietà Smec 20, che ha in assoluto le caratteristiche più vicine al pomodoro San Marzano: è infatti bilobata, termina a punta ed è chiamata la Signorina perché nella forma ricorda i fianchi e la schiena di una donna; inoltre la sua pelatura per farne conserve va effettuata a mano, a causa dell’estrema delicatezza.

Il fagiolo cannellino “Dente di Morto” di Acerra, ha un colore bianco opaco che ricorda appunto quello dei denti di un morto, buccia sottile, quasi inconsistente al palato, è pastoso e cuoce molto rapidamente. Ideale per zuppe e con la pasta, si raccoglie da luglio a ottobre e si coltiva nell’agro acerrano. Era diffuso fino ad alcuni decenni fa, essendo parte fondamentale dell’alimentazione contadina.

Parliamo di Presidi Slow Food.*
Vincenzo Egizio è, quindi, un custode della biodiversità campana.
Ci tenevo a raccontarvi la sua storia perché dietro questi prodotti della terra ci sono gli uomini, il loro sudore, i loro saperi, tramandati di generazione in generazione, che rappresentano radici, tradizioni, identità e che vanno tutelati e valorizzati. Uomini che devono essere remunerati il giusto, affinché non si sentano gli ultimi anelli del sistema, ma le figure prime della filiera alimentare e ci sia un futuro possibile per loro e per i loro figli, ecosostenibile per tutti, contribuendo in maniera consapevole, ognuno nel suo piccolo, dal produttore al consumatore, alla salvezza, consentitemi la parola grossa, del pianeta e della sua ricchezza.
Il mio consiglio è di andarlo a trovare in Via Camillo Cucca, 295 a Brusciano, in provincia di Napoli, per rendersi conto di quanta cura, passione e impegno lui profonda per la sua terra: sarà felice di mostrarvela. Vincenzo rispetta la stagionalità dei vari prodotti, per cui si è attivato anche per la loro conservazione: vi consiglio di provarli tutti e sono certa che non andrete via a mani vuote. Per chi volesse contattarlo i suoi recapiti telefonici sono 0816588976 – cell. 3892713615, oppure potrà utilizzare l’indirizzo di posta elettronica scrivenzo@libero.it.

*I Presidi sono progetti locali per la salvaguardia di prodotti tradizionali di qualità e a tutela dei piccoli produttori, di cui si occupa la Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, che promuove e coordina oltre 400 presidi in tutto il mondo. Progetti il cui obiettivo è garantire un futuro alle comunità locali attraverso la promozione e valorizzazione di sapori e territori, l’organizzazione dei produttori e la ricerca di nuovi sbocchi di mercato. Slow Food è un’associazione internazionale che coinvolge più di 100.000 persone in 153 Paesi di cinque continenti. E Terra Madre, in cui si colloca Slow Food riunisce tutti coloro che fanno parte della filiera alimentare per difenderla, cioè le Comunità del cibo dal produttore al consumatore.

di Liliana Arena
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