Il ricordo degli agnolotti di Natale

     Il piano di marmo bianco si estendeva, lucido, all’altezza del mio naso. Da quella prospettiva il tavolo mi sembrava immenso. Papà aveva sistemato il tritacarne su un lato con un morsetto che lo chiudeva e serrava fortemente al tavolo. Quando veniva montato quell’attrezzo, che ora mi appartiene, significava che mamma aveva già preparato la sfoglia all’uovo e che a breve avrebbe fatto gli agnolotti per il pranzo di Natale, come tutti gli anni e come da tradizione. Infatti gli agnolotti si potevano gustare solo a Natale e al primo dell’anno.

Significava che era la pre-vigilia di Natale

     Che noi bambini eravamo in vacanza dalla scuola, in casa c’era una grande eccitazione e tutto, proprio tutto, mi sembrava meraviglioso.

     Il negozio di papà, in quel periodo, era sempre pieno di clienti e sulla via San Donato, nel tardo pomeriggio, passeggiavano due pastori con indosso un gilè di pelle di pecora, che, soffiando nelle zampogne, suonavano melodie di Natale, fermandosi davanti ai negozi in attesa di qualche soldo.

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     Noi “cit”( bambini) , prima di cena, andavamo in parrocchia alla novena di Natale. Si cantava a memoria “Regem venturum domini venite adoremus” senza capire una parola, ma in noi cresceva una grande attesa: aspettavamo Gesù Bambino che ci avrebbe portato i regali.

     A quei tempi i regali non li portavano i genitori, ma i padrini e le madrine di battesimo che nei giorni precedenti il Natale venivano a farci visita in negozio. I grandi, tra un cliente e l’altro, chiacchieravano , prendevano il caffè, e si facevano gli auguri. Noi “mansnà” ( bambini) non abbiamo mai messo in relazione la loro visita con i regali.

     La cucina era spaziosa e calda col putagè che odorava di legna e di fuoco e diffondeva un bel tepore. Era sul retro del negozio e aveva una porta che si apriva sul negozio e una sul cortile.

Quest’ultima era sempre un via vai tra il dentro e il fuori, sia che fosse estate o inverno.

     Se era nevicato noi bambini andavamo fuori a giocare senza guanti e senza stivali; si rientrava solo quando il freddo ai piedi diventava insopportabile e naso e mani erano lividi e per scaldarci ci attaccavamo alla stufa, con le scarpe nel forno aperto ad asciugare.

     In quel periodo, verso l’Immacolata, papà andava in cantina a prendere lo scatolone di cartone del presepe. Ricordo l’odore di quella scatola appena aperta: era una gioia immensa ritrovare tutte le casette e gli animaletti e tutti i pastori che conoscevamo a memoria: quello che aveva perso una gamba di gesso e al suo posto aveva solo più un fil di ferro, il pescatore in posizione seduta che bisognava accomodare sul ponticello sotto il quale si faceva il ruscello con la carta stagnola del cioccolato. E poi la capanna e la stella cometa con i brillantini. Il presepe si faceva sul davanzale della finestra, cominciando a mettere sullo sfondo un bellissimo cielo blu pieno di stelle.

     Durante le vacanze di Natale arrivavano le nostre cugine grandi di campagna: Lucia, Giovanna e Domenica. Venivano ad aiutare mamma e papà che avevano tanto lavoro in negozio e poi ci facevano giocare e ci raccontavano storie. Una volta Giovanna mi comprò dal giornalaio la letterina di Gesù Bambino con i brillantini.

Mamma era la maga degli agnolotti

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     Per prima cosa preparava un bell’arrosto come ancora faccio ora io: un bel pezzo della vena lasciato la notte nel vino rosso insieme a sedano, carota, cipolla, aglio, chiodi di garofano e cannella. Poi si fa rosolare la carne in olio e burro e si comincia ad aggiungere il vino dell’ammollo e tutte le verdure e le spezie, si aggiunge un po’ di salsa di pomodoro, brodo e si copre lasciandolo cuocere lentamente per un paio d’ore. Si sala verso la fine cottura quando il pezzo di carne è ormai diventato nero . Si passa la bagna con le verdure al passaverdure o si frulla aggiungendo, se il caso, un po’ di maizena. Quell’arrosto serviva per il ripieno degli agnolotti, per il ragù e per secondo.

     Quando mamma doveva fare la sfoglia metteva direttamente sul piano di marmo una montagna di farina bianca e poi scavava sulla sommità un cratere nel quale rompeva le uova, aggiungeva il sale e cominciava a sbattere con una forchetta incorporando un po’ per volta la farina aggiungendo anche poca acqua tiepida e poi cominciava ad impastare a mano .

Dopo aver tirato la sfoglia la arrotolava sul lungo mattarello e papà montava il tritacarne.

     Intanto sulla stufa , in una pentola era già stato preparato l’arrosto e su una terrina bianca c’era salsiccia e spinaci cotti , ben strizzati e ridotti a palle. Mamma passava al tritacarne a manovella prima la carne di arrosto, poi la salsiccia, poi gli spinaci. Ci aggiungeva poi le uova, il parmigiano … ohhh mi sembra di sentire ancora il profumo della noce moscata e della saporita, e poi ancora un po’ di sale e pepe. Noi bambini, osservavamo questo rito senza disturbare, ma aspettavamo, come cagnolini pazienti, che ci facesse assaggiare un pezzetto di salsiccia.

     Mamma allargava la sfoglia sul piano di marmo infarinato, ne tagliava una lunga striscia con il coltello e cominciava a posare una fila si mucchietti di impasto, distanziati tra di loro, su tutta la lunghezza della metà bassa della striscia.

     Poi, prendendo i lembi ai lati, ripiegava l’altra metà della striscia sul ripieno di modo da far combaciare i bordi . E prima di prendere la rotella dentata e fare gli agnolotti faceva quella che noi chiamavamo “la preghiera”: a mani giunte schiacciava i due strati di pasta tra un mucchietto di ripieno e l’altro, per far uscire l’aria e saldare le due parti di pasta. Poi con la rotella dentata tagliava i quadratini.

     Gli agnolotti si sistemavano su vassoi su cui si stendeva un telo pulito e infarinato. Una parte dell’arrosto tritato veniva tenuto in serbo per fare il ragù .

     Le tradizioni si rispettano e io mi impegno diligentemente a farli ancora oggi, ma mio figlio, che apprezza comunque, mi dice sempre, con un po’ di scoramento, che sì, gli agnolotti son buoni, ma non hanno il sapore di quelli di nonna Maria.

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