A scuola di pizza con Vincenzo Esposito

La pizza, il simbolo, il mito, il marchio di fabbrica della napoletanità, lo street food per antonomasia, il più ricco dei piatti poveri, il più copiato nel mondo, il più imitato e difficile da imitare, se non si conoscono i fondamenti della sua preparazione.
Oggi però le cose non sono più così complicate, della pizza e di come si prepara se ne parla e come, anzi, attorno alla pizza c’è il più intenso e continuo dibattito – non solo nell’area geografica dei dintorni partenopei ma fino a coprire il territorio nazionale – su come dovrebbe essere fatta, sulla paternità da attribuire, sulle variazioni da ammettere o esecrare, sul suo essere doc, dop, igp e chi più sigle ha più ne metta.
Altrettanto vero che la maggior parte di questo dibattito, che a volte arriva a inferocirsi, verte sull’impasto.
Tra strenui difensori dell’impasto tradizionale sancito anche dall’AVPN e arditi sperimentatori di nuove frontiere della pizza, tra fedeli osservanti della farina doppio zero e pionieri della fibra a tutti i costi, tra gli arroccati al lievito di birra ai premurosi di quello madre, tra chi proprio non si sogna di superare la mezza giornata di lievitazione e chi invece dice che se ne parla almeno il giorno dopo, il confronto, la contrapposizione, persino gli scontri non smettono di riempire giorno per giorno la comunicazione attorno alle pizze.
Tutto questo batti e ribatti però rischia di appiattire la complessità, e la bellezza artigianale della pizza, interamente sulla pasta, su quest’alchimia di acqua, sale, farina e lievito, dimenticando che anche la migliore pasta può essere inguaiata da mani incapaci di darle forma, o peggio ancora da occhi disattenti nel gestire forno, pala e cottura.
Con la scusa che poi in casa la pizza napoletana non la puoi mai fare veramente per ragioni tecnologiche, è chiaro che tutto l’interesse mediatico sia finito sull’impasto: a chi legge su riviste o internet, o a chi guarda programmi televisivi con protagonista la pizza, alla fine interessa solo come impastarla.
Invece, sarebbe – anzi, è – molto importante conoscere almeno i fondamenti della stesura e della cottura della pizza, per accrescere la conoscenza e poter meglio valutare l’esperienza degustativa personale e lo spessore professionale del pizzaiolo e del fornaio.
Naturalmente, quando passiamo dall’universo dell’impasto a quello della stesura e della cottura, stiamo abbandonando cose perfettamente classificabili e misurabili come la tipologia di farina e lievito e il peso dei singoli ingredienti o i giri delle lancette dell’orologio in attesa della maturazione, e ci addentriamo nella pura dimensione artigianale, in una pratica che costruisce di volta in volta la sua teoria, in qualcosa che si sente sotto le mani, si soppesa con gli occhi, si valuta a pelle percependo il calore del forno.
Qualsiasi pizzaiolo può scrivervi su un foglio di carta le dosi e i tempi del suo impasto, ma diventa tremendamente difficile fare la stessa cosa per spiegare come si stende e come si cuoce una pizza.
A meno che non ci si rivolga, come ho fatto io, a un signor pizzaiolo, in questo momento in grande spolvero, innamorato pazzo della sua professione e generoso come pochi nel raccontare quello che fa e come lo fa.

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Sto parlando di Vincenzo Esposito, della pizzeria Carmnella, sempre più lanciato, aperto al confronto, tanto da raccogliere in questi ultimi tempi il frutto di tanto serio lavoro ed esperienza accumulata, a partire dalla solida formazione sotto suo padre – storico pizzaiolo napoletano – e dal confrontarsi ogni giorno con un pubblico di veri napoletani che sulla pizza non perdonano.Ovviamente Vincenzo è talmente bravo che proprio ciò che prima ho detto essere difficilissimo, ossia scrivere su un foglio come si fa, lui in quattro e quattr’otto lo fa e lo spiega egregiamente.

Così come si rivela uno scrupoloso insegnante, fermando ciò che non si può fermare, ossia il movimento tipico della tradizione napoletana nella stesura della pasta, permettendomi di immortalare fotogramma per fotogramma il procedimento.
Se dunque t’interessa andare oltre le percentuali tra acqua e farina, buttarti alle spalle il dilemma sui lieviti, fregartene per un po’ di quante ore far passare prima di preparare la tua buona pizza, ma vuoi scoprire come si stende e come si cuoce la pizza napoletana nel forno a legna, ringrazia Vincenzo Esposito che mo’ te lo spiega passo dopo passo.

 
Lo schiaffo del pizzaiolo

Bello, eh, il disco di pasta ben steso, uniforme, preciso, pronto da conciare e infornare.
Ma come ci si arriva?
Come si fa, da un panetto di pasta che ha una circonferenza inferiore a un quarto di quella finale, ad arrivare a questa sorta di sole beneaugurante?Carmnella-tutorial1
Vincenzo con pazienza ci illustra le fasi.

Appena estratto, il panetto può aver bisogno di essere rigirato tra i palmi, perché magari la maturazione lo ha portato, col suo naturale rilassamento, ad assumere una vaga forma quadrangolare.
Dipende soprattutto da quanti panetti sono stati sistemati nelle cassette: in questo caso, sei per quattro finiscono per occupare l’intera superficie, e così, facendo resistenza a vicenda, tendono a squadrarsi, mentre un numero inferiore di panetti per cassetta, più distanziati, tendenzialmente fa conservare loro un profilo più tondeggiante.

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Il pizzaiolo appoggia il panetto sul banco, e comincia a lavorare con la punta delle dita, allo scopo di spostare l’aria interna della pasta verso il bordo esterno.

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Ogni volta che completa queste pressioni verso il semicerchio superiore del disco, Vincenzo lo fa roteare di qualche grado, per ripetere l’operazione e spostare l’aria lungo tutta la circonferenza.

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A ogni quarto di giro, le dita continuano il lavoro di spostamento dell’aria, e il diametro aumenta a vista d’occhio, grazie all’elasticità dell’impasto.
Nel mostrarmi i panetti nella cassetta, Vincenzo mi fa notare addirittura che nel toglierne uno bisogna fare attenzione ai bordi degli altri, risistemandoli senza ripiegarli, altrimenti si crea un principio d’incordatura e la pasta resisterà alla stesura.
Sebbene prediliga lavorare solo con la mano destra, questa operazione in genere si svolge con entrambe le mani che raggiungono prima la posizione delle ore dodici, e poi – continuando la pressione – discendono l’una verso le ore nove e l’altra verso le ore tre, per poi dare un altro quarto di giro e ricominciare.

 Arrivato più o meno al diametro giusto, Vincenzo ricontrolla l’uniformità dello spessore, e interviene ancora con la pressione dei polpastrelli per completare la distribuzione dell’aria accumulatasi con la lievitazione.
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Quando le dita gli dicono che va bene, è pronto con la seconda fase della stesura: lo schiaffo.

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Il pizzaiolo afferra un lembo del disco di pasta tra pollice e dita della mano sinistra, e con la mano destra aperta e distesa batte, anzi, schiaffeggia la pasta, spostando la mano a ogni schiaffo leggermente verso destra.

Quando la mano, a forza di battere, raggiunge il lembo destro del disco di pasta, la mano sinistra entra in azione.
Vincenzo ruota il polso destro, quasi a portare il palmo della mano verso l’alto.
Contemporaneamente, la mano sinistra lancia il lembo di pasta facendolo ricadere tra il polso e il dorso del pollice dell’altra mano.
Nota come la mano sinistra che ha lanciato la pasta resti aperta: è pronta a riafferrarla.

Polso e mano destra, ruotando verso il banco, rilancianola pasta – facendola lievemente ruotare in senso antiorario – alla mano sinistra che ne riafferra sempre il lembo, nel quale si cela il segreto del cornicione che si formerà in cottura.

Il gioco di rimbalzo tra mano sinistra e mano destra riprende, accelera, lo schiaffo diventa persino fragoroso, e la pasta si lascia fare, docile, sotto le mani del padrone.

L’elasticità perfetta consente a Vincenzo di espanderne l’area, fino a ottenere quella dimensione tipica della pizza napoletana più classica, ampia come una ruota.

Alla fine, il cerchio di pasta si conserva perfettamente, anche con il condimento e la cottura, recando l’impronta del suo artefice, come un marchio di appartenenza.
Ma dire cottura sembra riduttivo, usare il forno a legna della tradizione napoletana è la parte veramente difficile di tutta la procedura.
Per fortuna, il nostro maestro è all’altezza, ed è animato da una sincera voglia di farci capire bene come funziona.

Buon forno a tutti

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È orgoglio quello con cui Vincenzo Esposito mostra il risultato della cottura della sua pizza.
Non c’è dubbio si tratti di un orgoglio meritato, e per essere una delle prime pizze del servizio a pranzo siamo già a un livello ottimale.
Ma come si arriva a questa splendida riuscita?
Come funziona veramente il forno a legna per la pizza, come si gestisce, quante pizze ci si possono mettere e con quali accorgimenti?
Troppe domande insieme, risponde Vincenzo, e senza parlare prende carta e penna dando il via alla sua lezione di cottura.
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Questo disegno rappresenta in maniera schematica il modello minimo di gestione del forno per la pizza.
Ovvio che la freccia indica la bocca del forno, poi la parte campita a tratteggio, a sinistra, corrisponde alla zona dove arde la legna e si accumula la brace, mentre la zona di destra è il suolo destinato ad accogliere le pizze.
I cerchi evidenziano la posizione che Vincenzo assegna alle pizze, quando ne cuoce quattro, i numeri indicano l’ordine d’ingresso delle pizze da sistemare nei punti cerchiati, con una logica ben precisa.
Le posizioni sul suolo del forno hanno tempi di cottura differenti, nell’ordine dalla più calda alla più fredda abbiamo 3, 1, 2 e 4, per questo le pizze vengono inserite nella sequenza trascritta.
Per ogni pizza, il fornaio deve tener conto del fatto che la base della pizza si cuoce per induzione, mentre la superficie cuoce per irraggiamento, e i due processi hanno tempi differenti, anche in base alla temperatura del suolo che, sembrerà incredibile – stiamo parlando di una camera che va oltre i 450 gradi – , ci mette poco a calare, una volta che ci si appoggiano le pizze.
La prima pizza a essere controllata, girata sulla pala, eventualmente portata a bocca di forno, è la 1, e se le condizioni sono corrette viene riposizionata al suo posto.
A quel punto si passa alla 2, sulla quale si fa lo stesso lavoro della 1.
Le due operazioni si svolgono nell’arco di pochi secondi, perché intanto la 3 è la più esposta al calore, infatti, posata la 2, la pala solleva e rigira la 3 che è praticamente quasi cotta, basta solo qualche altro secondo sulla pala per completare l’irraggiamento.
La 4 invece se ne sta tranquilla nel suo angolo, nella posizione meno accesa del forno, e potrà essere gestita per ultima, mentre la 1 e poi la 2, dopo la rifinitura sulla pala, possono andare in sala.

Stiamo parlando comunque di un procedimento che non copre più di 90 secondi per pizza, quindi siamo nell’ordine dei 100 secondi per tutte e quattro, a condizioni ottimali.
Già solo da questa descrizione ancora teorica si capisce bene ciò che ogni pizzaiolo napoletano sa: prima si impara a fare il fornaio, dopo si possono cominciare a fare le pizze.
Questa chiara esposizione teorica però va integrata con alcune variabili, relative alle oscillazioni della temperatura del forno.
Innanzitutto, il pizzaiolo testa il forno non soltanto con le sensazioni tattili, a pelle, ma cuocendo una pizza di prova: se il tempo necessario a raggiungere l’aspetto giusto è più lungo, gli zuccheri tenderanno a cristallizzare troppo e la pizza acquisterà una croccantezza eccessiva rispetto allo standard di una pizza napoletana, che invece deve restare morbida.
Altrettanto vero che, una volta raggiunto il calore massimo, il pizzaiolo non cuocerà mai quattro pizze contemporaneamente, e neanche tre, se è per questo: la temperatura alta gli impedirebbe di gestirle adeguatamente.

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Così, pizzaiolo e fornaio cominciano con vari giri di cotture, prima una pizza per volta per un paio di volte, poi due, poi tre e così via, tenendo sotto controllo il fenomeno dell’abbassamento della temperatura nel forno.

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Il calore infatti non cala solo per il consumarsi della legna, ma anche per l’umidità o addirittura l’acqua rilasciata dalle pizze in cottura: come si può vedere, ogni pizza tende a stampare sul suolo la sua traccia, più scura (e non si tratta di farina bruciata, ma di vere e proprie macchie d’acqua nella pietra).

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Il pizzaiolo e il fornaio sanno regolarsi, in base alla temperatura del forno, e decidere se riappoggiare la pizza nel luogo già tracciato, se spostarla o finirla sulla pala, al fine di bilanciare i tempi dell’induzione e dell’irraggiamento.
Perciò, la gestione del forno ben avviato passa innanzitutto attraverso una sapiente cadenza del numero di pizze cotte a ogni tornata.
Ovviamente si arriverà al punto in cui la temperatura è troppo bassa, e c’è bisogno di alzarla, come accade dopo aver cotto diverse pizze contemporaneamente per un certo numero di volte successive.
Allora, il fornaio sposta la brace nell’angolo in basso a sinistra con la pala da forno – che ovviamente non è quella con cui rigira le pizze – e può inserire un nuovo pezzo di legno, che in meno di venti secondi prende fuoco e fa innalzare il calore di nuovo al massimo, e il giro di cotture cadenzate ricomincia.

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Se si calcola che l’intero processo descritto avviene per tutta la durata del servizio, si può ben capire il livello d’attenzione del fornaio per tenersi pronto ad assecondare la forza del forno, moderandola con le stesse pizze che vi cuoce, o per rinvigorirla aggiungendo legna e rallentando il ritmo di cottura.

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A te che leggi, quindi, voglio sottolineare che cosa realmente c’è dietro quei triangolini ripiegati che ogni volta che siedi in pizzeria ti piace gustare, quale professionalità, attenzione, scrupolo ed esperienza richiedono sia la stesura che la cottura e la gestione del forno.
Se sapere è potere, sapendo tutto ciò oggi puoi calcolare meglio il reale valore di questa preparazione, povera nella sua natura, ma ricchissima nella complessità, nella tecnica e nella manualità necessaria a realizzarla.
Tutto questo grazie a Vincenzo Esposito e alla sua estemporanea ma efficace scuola di pizza.

Sergio Cima

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