Ale, dovevo immaginarmelo che mi avresti dato da bere anche la feccia…

Sì, è stato proprio così. Vado su a Kent’Annos da Alessandro Dettori a Badde Nigolosu l’ultima domenica di ottobre, dopo un viaggio interminabile Cracovia-Berlino-Monaco-Olbia, grazie alle deficienze dell’Alitalia, tanto per non cambiare, ma suo padre Paolo, che lassù sta sorbendosi dei lanzichenecchi (io gli svizzeri li chiamo ancora così, con buona pace di Gregorio Mulazzani), mi raccomanda di non disturbarlo durante la svinatura. Il momento, in effetti è più che delicato. La peronospora quest’anno ha falciato più di metà dell’uva, nonostante le cure e la tanta fatica spesa, tanto che fra due filari vicino al parcheggio interno trovo ancora un grappolo con acini di due colori e di due dimensioni lasciato sulla pianta da una mano dubbiosa se buttarlo oppure no; così ho potuto mangiarmelo abbinato al pecorino di Osilo, ringraziando le cesoie che l’hanno dimenticato…


Scendiamo lo stesso giù in cantina, guidati a braccetto nel buio pesto dal solito istinto che mi dice che nelle cantine gestite da persone intelligenti non c’è mai nulla che fa inciampare anche in assenza di luce, poi un bagliore di luce ci accoglie nel sancta sanctorum. Alessandro è lì che sta svinando il fondo di una vasca di cemento fra tante altre che ha già governato allo stesso modo. Ne esce la feccia, in un secchione di plastica. Ne prende un po’ nel palmo della mano, l’annusa, gli scoppia un sorriso e me la mette sotto il naso invitandomi a godermi il suo profumo. Spuntano due bicchierini di plastica e me li ficca in mano, ne versa un po’ e m’invita a berne un goccio, lasciando depositare un momentino il fluido.
Se la feccia è così buona, chissà che bomba sarà il Moscato di quest’anno! Moscato di Sorso-Sennori 2013, ti ricorderò senz’altro. Alessandro dà le sue disposizioni ai due operai di quella domenica per il recupero di questa benedetta feccia che finirà a fare da fondo per un vino in fermentazione sui lieviti chissà dove, poi spalanca un sorriso che va da un orecchio all’altro e finalmente ci abbraccia come si deve. Si scioglie, come si dice, come un gelato al sole. Ci mostra la cantina, bianchissima con la sua calce tradizionale a tutte le pareti (siamo in Sardegna, non a Ghemme né a Eger), la vecchia imbottigliatrice a mano, il tavolo di sua invenzione per la cernita delle uve, bla bla bla eccetera eccetera, ma intanto ci togliamo in fretta dalle balle perché i cantinieri devono lavorare in pace com’è giusto che sia. Una visita-lampo.

Alessandro e Mario insieme a strappare erbacce

Ma il mio colpo d’occhio, visto che non sono proprio laico in materia di vino, ha visto e soppesato tutto. Il legno, qui, si mette da sempre nel camino. Il vino, qui, si è sempre fatto secondo la tradizione, che non prevede legno. Non solo. Il vino, qui, si è sempre fatto generalmente in assemblaggio, recuperando percentuali variabili di vini di altre annate, a volte anche di altri vitigni, per mantenere una qualità costante e un livello di conservabilità notevole anche a questi climi piuttosto caldi del centro del mediterraneo. Certi vini superano i 30 anni come se niente fosse, qualcuno se ne va per la tangente anche oltre. E sono vini naturali. Il genio del vignaiolo ha l’ultima parola su ciò che gli mettono a disposizione la terra ed il sole. Se il vignaiolo è rispettoso della natura, la sua intelligenza creativa non fa vini dopati, ma autentici miracoli. Piccoli, dài… ma miracoli. Come fa Alessandro in cantina, ma anche nel suo orto biologico, dove non disdegna un piccolo aiuto per sradicare le erbacce. «Tanto lo sanno tutti che non capisci un cazzo di vino», mi dice Alessandro sorridendo, «perciò prova questo e vediamo».

Mi aveva osservato da lontano mentre puntavo una vecchia vigna di circa 120 anni come fa di solito un setter a caccia, anche da mezzo chilometro di distanza. Un vino da uve pascale eccezionalmente al 100%, che si chiama Ottomarzo in memoria del compleanno di suo nonno. In Sardegna lo fa solo lui. E dopo averli assaggiati tutti (recuperando i fondi delle bottiglie della degustazione dei lanzichenecchi (“beati gli ultimi perché saranno i primi” diceva Gesù di Nazareth), decido di proseguire ormai soltanto con questa bottiglia aperta e ancora mezza piena, una vera rivelazione. Non capisco un accidente di vino, vabbé, lo so anch’io, perciò mi tengo ben stretta questa bottiglia e me la scolo da solo perfino sulla pasta fatta in casa con il nero di seppia condita con sugo di ricci.


Avete capito bene. Pasta al nero di seppia con sugo di ricci e vino rosso da una vigna vecchia di 120 anni. Gli altri (tutti i collaboratori presenti al momento, riuniti allegramente nel retro del ristorante, nel cosiddetto magazzino, su una tavola alla buona) spazzano via tutte le altre bottiglie, bianche e rosse, effettivamente di gran pregio, roba dai 10 ai 20 euro, ma gliele lascio tutte quante volentieri, anzi volentierissimo. «Eh… lo so che a te piace questo», mi dice Alessandro ad alta voce, «per quel tannino diverso»”. Ha ragione, il vino sembra una puledra ancora da domare. Senza la potenza di uno stallone, sicuramente con la grazia di una puledra, ma di una puledra che sa mordere ancora. Questo rosso col pesce mi farà poi scambiare qualche opinione con il sommelier dell’azienda, Fabio D’Uffizi, un gran bravo ragazzo con la giusta dose di cultura e tanta voglia di scoprire cose nuove, ma intanto nessuno riuscirà più a togliermi la bottiglia di mano. L’avrei difesa a spada tratta. Senza spremerla, ma quasi… E così mi viene in mente “Màriu “o sole mio”. A commuoverci adesso siamo in due. Non aggiungo altro. Ho già scritto quel che potevo. Lasciatemi sognare.

Tenute Dettori
Località Badde Nigolosu, 07036 Sennori (Sassari)
coord. GPS: lat. 40.829497 N, long. 8.656095 E
tel 079.512772, sito www.tenutedettori.it , e-mail info@tenutedettori.it

Inizia a digitare per vedere i post che stai cercando.