Alla lista dei gusti base si aggiunge il grasso. Forse non è tutto grasso che cola.

La notizia, per gli addetti al settore e non solo, non è da poco: il “grasso” si aggiunge alla lista dei gusti base, che diventano così sei. Come molti sapranno i gusti base sono, erano, cinque: salato, acido, amaro, dolce e umami. Negli ultimi anni molti ricercatori hanno provato a lavorare sul grasso perché c’erano evidenze empiriche ed anche una serie di risultati che facevano ipotizzare questo ruolo. Sebbene la gran parte del grasso che proviene dalla dieta siano gliceridi, è la piccola frazione di acidi grassi liberi che è responsabile del gusto di “grasso”. Almeno questo ci racconta la bibliografia anche se si fa fatica a capire come un grasso libero, per definizione volatile, possa dare un gusto, per definizione “non” volatile, cioè fisso. Gli acidi grassi esistono in forma libera nell’alimento ma possono anche formarsi dai trigliceridi per l’azione delle lipasi salivari secrete nella parte posteriore della lingua. Nonostante che una pletora di evidenze confermi il gusto grasso, con risultati che vanno dai recettori e il loro meccanismo di trasmissione del segnale, alle sensazioni distintive del gusto grasso, questo gusto base rimane elusivo in parte perché il grasso dell’alimento altera le proprietà olfattive, gustative e strutturali che ostacolano l’isolamento del segnale. Per questo ancora non si era riusciti a completare gli studi per poter arrivare ad inserire il grasso fra i gusti base. Ma che significa gusto base? Sette sono i criteri che una sensazione deve soddisfare per essere annoverata fra i gusti base(Hartley et al.,2019):

1) deve esistere una classe effettiva di stimoli;

2) tale stimolo deve essere risolutivo;

3)devono esistere meccanismi di trasduzione che possono convertire il codice chimico dello stimolo in un segnale elettrico;

4)ci deve essere la neurotrasmissione del segnale alle parti del cervello dove si elabora il messaggio;

5) la qualità percettiva deve essere indipendente da altri segnali;

6) la percezione del gusto deve dare una risposta edonistica;

7)all’attivazione del segnale gustativo per mezzo dello stimolo effettivo deve seguire una risposta fisiologica e comportamentale.

Finora le ricerche avevano dato una risposta solo a cinque di questi punti cardini, mentre l’attivazione neurale era ancora assente. Per colmare questa lacuna Andersen et al (2020) hanno effettuato una ricerca molto accurata mettendo a confronto un latte scremato e un latte intero.

I risultati hanno dato loro ragione: lo stimolo neurale è stato evidente e significativo fra i due latti tanto da far concludere agli autori” i nostri risultati forniscono ulteriori evidenze della relazione fra grasso e stimolo neurale fornendo una delle prove che mancavano per includere il grasso nel repertorio dei gusti base”. Era ora, visto che l’ultimo gusto base, l’umami, era stato scoperto e proposto dal giapponese Kikunae Ikeda oltre un secolo fa (1909).

Fin qui tutto bene, ogni passo avanti della scienza è un vantaggio per tutti. Ma proprio il grasso non fa che aumentare i dubbi che ho sulla relazione fra il lemma gusto e la sua applicazione ad un cibo per indicarne il livello gustativo.

Provo a spiegarmi utilizzando lo stesso metodo, ad un livello più basso, dei ricercatori danesi e cioè mettendo a confronto due burri estremi.

GUSTO GRASSOSolo che loro hanno usato lo stesso latte di cui uno intero e l’altro scremato, io prendo come esempio un burro prodotto con latte di animali al pascolo ed uno di animali alla stalla. Facciamo un passo indietro. Quando parliamo di sensi, normalmente, alla scala di intensità facciamo corrispondere anche una scala di valori. Se non sento, sono sordo e se sento bene ho un buon udito. Se una rosa non ha profumo, è inodore, sarà anche bella, ma non ci lascia alcuna emozione; se un tartufo ha odore e molto, allora avrà valore, se è inodore, il prezzo sarà adeguato. Il gusto invece no, se usiamo, per descriverlo, i sei gusti base o anche le cosiddette “percezioni” gustative quali il pungente, l’astringente, il metallico, ecc. Torniamo al burro.

Tutti i burri hanno la stessa quantità di grasso, tracce modeste di proteina e poi il resto è acqua, almeno a livello di macroelementi. Cambiano e di molto i microelementi perché i due burri sono profondamente diversi nel colore, nell’aroma e nel “gusto”.

Ma se proviamo a raccontare il gusto con i sei sentori, acido, salato, ecc., al massimo questi ci permettono di isolare e individuare i difetti: molto salato, molto acido o molto amaro e così via. In quanto al grasso, il burro da stalla, modesto per definizione, avrà una sensazione di grasso più grande di quello da pascolo perché più ricco di acidi grassi saturi. Quindi, paradossalmente, più gusto c’è è più aumenta il dis-gusto.

Invece, se vogliamo raccontare il gusto di quei burri ci dobbiamo soffermare sull’intensità, sulla variabilità, molto importante, forse la cosa più importante perché è legata alla biodiversità delle erbe che l’animale ha mangiato e poi sulla persistenza. Perché è la persistenza che ti fa dire: questo è un formaggio! E allora? Non saprei, ma certo la parola gusto non è quella più corretta per definire le sensazioni che proviamo in bocca dopo che l’ultimo pezzetto di cibo ha lasciato il palato.

Nel vino, la parola corpo rende meglio l’idea. C’è da farci un pensiero. Camilla Arndal Andersen, Line Nielsen, Stine Møller, Preben Kidmose (2020). Cortical Response to Fat Taste. Chemical Senses, Volume 45, Issue 4, May, Pages 283–291. Isabella E Hartley, Djin Gie Liem and Russell Keast (2019). Umami as an ‘Alimentary’ Taste. A New Perspective on Taste Classification. Nutrients 11, 182

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