Bar e ospitalità ai tempi del covid – parte 4

Dopo una premessa – https://www.ditestaedigola.com/lospitalita-ai-tempi-del-covid/ – gli interventi di Antonio Parlapiano e Riccardo Rossi – https://www.ditestaedigola.com/lospitalita-ai-tempi-del-covid-parte-2-la-parola-ai-professionisti/ – Valeria Bassetti e Cristian Bugiada – https://www.ditestaedigola.com/bar-e-ospitalita-ai-tempi-del-covid-parte-3/ – questa volta è Alex Frezza a prendere la parola.

Classe 1977, Alex Frezza è co-fondatore del prestigioso secret bar “l’Antiquario”, di Napoli: un gioiello della miscelazione incastonato nel quartiere di Chiaia. Nel 2007, sempre a Napoli, con Francesco Cappuccio, Luigi Pignatelli e Vincenzo Cardone ha fondato Bar in Movimento, società di cocktail catering, in seno alla quale è nata la scuola di formazione Bar in Movimento Academy. A affiancare l’Antiquario, poi, due anni fa l’apertura del nuovo exotic bar “Platanos”, una enclave della cultura tiki in salsa partenopea a pochi passi da Piazza Vittoria. 

ALEX FREZZA

Quest’anno faccio 44 anni. Dai 20 ai 30 sono stati un lampo, dai 40 ai 44 sono stati un’eternità, quest’ultimo in particolare mi sembra di averlo passato su una nave spaziale diretta verso un universo lontano, scappando da un pianeta messo male, in ibernazione controllata, svegliato ogni 3-4 mesi dal computer di bordo, solo per controllare la rotta e ricalcolare la durata del prossimo ipersonno.

Ogni mattina mi sveglio e mi immagino Ridley Scott che mi passa il copione per la giornata.

Il Primo lockdown è stato un bel calcio nelle palle. Uno di quei calci che all’inizio non senti dolore, poi realizzi e ti lasci cadere a terra. In tema di catastrofi mi sarei trovato più a mio agio con dei missili nucleari che mi fischiavano sulla testa o un’invasione aliena. Il mio bagaglio cinematografico è anni 80, i virus sono più da cinema anni 90. Mea culpa.

Dalle mie parti si dice “mi faccio secco ma non muoio”, io né l’una né l’altra. Mi sono abituato alla vita regolare, colazioni ad orari da colazione, pranzi leggeri, cene calde tutte le sere. Non lo facevo da 20 anni.

Poco, pochissimo alcol.

Potrà sorprendere ma io a casa non bevo, l’alcol per me è un elemento esperienziale della socialità, da solo o in coppia a casa alla lunga mi mette tristezza e preferisco evitare. Lascio agli altri gli aperitivi imbustati, i cocktail in lattina, il ghiaccio schifoso fatto in casa. Preferisco una dignitosa astinenza. Smettetela di chiedermi cosa bevo a casa. Ho una Dom Perignon 2009 in frigo da un anno.

Quando tornerò a bere un cocktail a mezzanotte, al bancone del mio bar, fatto fresco al momento, accostando le labbra alla coppetta gelata, con la musica di Django Reinhardt nelle orecchie, voglio vivere l’esperienza di un’overdose, uno shock alla Stendhal, voglio svenire dalla felicità. Mi bagnerò le mutande.

Ci penso tutte le sere.

Non ho vizi particolari, non mi piacciono i videogiochi, i soldi a netflix li ho praticamente regalati, però ho imparato a strimpellare l’ukulele e a risolvere il cubo di Rubik in meno di 10 minuti.

Restare produttivo è l’incubo che mi ha tormentato.

 “Bisogna approfittare di questo tempo regalatoci” …”dobbiamo sviluppare nuove conoscenze e formarci per farci trovare più preparati quando tutto ricomincerà” …” formarsi per non fermarsi”

Mai sentito una montagna di cazzate più grandi. Per me ovviamente. Sono sicuro che tanti altri saranno riusciti a fare in quest’ anno quello che non hanno mai concluso nella loro vita precedente.

Ma non io.

Nel primo lockdown sono riuscito a portare avanti un po’ di lavoro di programmazione, riprendere degli appunti lavorativi che avevo abbandonato, pensato a come organizzare il mio lavoro per la convivenza con il virus.  Poi l’estate abbiamo riaperto e tutto è tornato esattamente come prima. Anzi peggio.

Il nostro cervello tende, per natura evoluzionistica, all’ottimismo, ci aiuta a superare le difficoltà che non possiamo comprendere a pieno. Tutti pensavano di essersela scampata. Ma era solo la pausa tra l’amuse-bouche e l’antipasto. Adesso abbiamo finito il primo piatto. Questo virus è come un matrimonio del sud. Sai quando inizia ma non quando finisce.

Il secondo lock-down è stato un knock-out. Se il primo è stato un calcio nelle palle, il secondo è stato come l’incontro Tyson vs. Spinks del 1988. Spinks sottovalutò Iron Mike, durò solo 91 secondi in cui non capì un emerito cazzo del guaio in cui si era impicciato. Spinks prese un montante al corpo, perse il fiato e si inginocchiò ai piedi di Mike, si rialzò ma solo per prendere un secondo montante uguale a quello di prima diritto in faccia. Sogni d’oro Spinks. Non ci avevi capito veramente un cazzo.

La cosa più brutta e il non avere una prospettiva di riapertura, ti toglie il fiato. Certo si può programmare, sviluppare, immaginare cose nuove. Ma nel mio caso gli stimoli personali erano veramente pochi.

 La società di cui faccio parte ha varie attività, catering, gestione locali, distribuzione prodotti e due cocktail bar di proprietà.

Io mi occupo dei cocktail bar, che essendo prettamente notturni non fanno asporto né delivery e non hanno spazio esterno, non hanno speranza. Una merda insomma. I miei soci però sono riusciti a convertire l’attività di catering in un e-commerce che sta dando buoni risultati. Complimenti a loro.

Io so solo che alla riapertura mi aspetta il bancone bar. Una certezza ma anche forse una piccola condanna.

La mia categoria professionale è stata un po’ una delusione. In realtà non mi aspettavo molto, ma speravo nell’emergere di qualcosa oltre la mediocrità che ho visto.  Nella corsa al conquistare spazio sui social, il rincorrere disperatamente surrogati di aggregazione, nel continuare a sopravvivere almeno come avatar su uno schermo da 6 pollici, sono venuti a mancare i contenuti veri, le riflessioni dolorose e sincere, un po’ di introspezione. Ci si continua a concentrare su pochi esempi positivi, intervistare le solite persone, manichini banali troppo politicamente corretti che restano a galla per ragioni eccezionali e che non rappresentano nulla di significativo nel mondo reale dell’ospitalità.

Io sono un privilegiato, uno di quei manichini, sono ancora qui e mi posso permettere di non dover pensare di cambiare totalmente mestiere. Non saprei fare altro porcaputtana.  Ma ci sono tante persone li fuori che fanno il mio lavoro che per la delusione di quest’anno si sono allontanate per sempre dall’ospitalità. Per loro non conviene più sacrificarsi. Nessuna garanzia potrà farli tornare. Il mondo dell’HORECA (ndr, Hotellerie-Restaurant-Café) è un castello di sabbia e alla prima ondata è andato giù.

Non so neanche perché la gente dovrebbe leggere queste cose che scrivo. Forse servirebbe dare parola a quelli che hanno scelto di abbandonare per sempre questo settore. Da loro potremmo imparare qualche lezione.

Il mondo dell’ospitalità va rifondato dagli anelli deboli. Il sistema ospitalità è come una squadra di calcio, i vari player sono le Aziende, distributori, proprietari di impresa, lavoratori stabili e meno stabili. Ci rialzeremo solo quando avremo sistemato la difesa, riuscito a rinforzare la panchina, trovato gli schemi giusti e riusciremo a gestire meglio il possesso palla. Avere un giocatore forte non serve a nulla. La Juve lo insegna. Si finisce con il non vincere mai la Champions. Premetto che io non capisco una nerchia di calcio, questa cosa l’ho sentita dallo scrittore Malcolm Gladwell riferita alla pandemia e mi sembrava un parallelo del mio mondo. L’ho adattata. Pensate agli anelli deboli.

Se siete arrivati fino a qui vi faccio i complimenti, io mi sarei fermato dopo le prime 5 righe.

Rialzatevi, ci vediamo all’Antiquario.

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