Bramaterra: mille anni di esperienza per fare un piccolo grande vino

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Il nostro è un Paese così bello che abbiamo imparato a sfruttare ogni occasione per poterlo girare tutto. Nessuno al mondo riuscirebbe a battere noi italiani in quanto a ponti, ma non parlo di quelli in calcestruzzo, bensì di quei sofisticati marchingegni che abbiamo inventato per saltare uno o più giorni lavorativi approfittando delle coincidenze con le feste infrasettimanali. Ma non esiste solo quest’Italia che s’intruppa per bene ad intasare le autostrade in quelle occasioni, ce n’è anche un’altra, quella che tira la carretta per tutti, quella di cui non si parla mai e che il lavoro, quando c’è, lo acchiappa per i capelli pur di aggiudicarselo, anche nei giorni di festa. Quando gli altri fanno i ponti, noi facciamo le gallerie, mi diceva il Pinuccio, e queste sue parole mi vengono in mente spesso, soprattutto ogni volta che rivedo quei posti dove ricordavo esserci prima tanta miseria e che oggi invece godono, dopo tanti sacrifici, di un meritato benessere.

Perciò lascio ben volentieri ad altri il noioso compito di occuparsi dei soliti osannati vertici dell’enologia, come Amarone, Barolo, Barbaresco e Brunello di Montalcino (tanto per non far nomi) e preferisco invece sporcarmi le scarpe nelle vigne di quei paesini in cui da studentello potevo lasciare la moto incustodita davanti al circolo delle bocce con la certezza di ritrovarla la sera. Per quanto povere fossero queste piccole comunità di onesti lavoratori di campagna, divenuti poi pendolari verso le grandi fabbriche delle città, la dignità e l’onestà vi regnavano incontrastate. Era il periodo in cui pochissimi vedevano più in là del proprio naso. Quando entravo in certi circoli per un bel panino al gorgonzola ed un bicchiere di Spanna, dove faceva quasi sempre bella mostra un enorme vaso ricolmo di olio di oliva e pieno di salam ‘dla duja, spesso vi trovavo delle vere e proprie assemblee di piccoli vignaioli. Ricordo infinite discussioni e battaglie oratorie infuocate come le gote rosse dei numerosi viticoltori presenti, mah… chissà cosa cavolo saranno queste DOC… ed era soltanto trent’anni fa o giù di lì, ma che dico, saranno quasi quaranta! Molti di questi circoli, purtroppo, non ci sono più, e con essi se n’è andato un mondo molto socializzato e solidale di vita sana all’aria aperta e in cambio ci facciamo rapire in perfetta solitudine dalle diavolerie elettroniche e dai video della TV e del computer, bel progresso!

Uno di questi paesi che allora brulicavano di infiammanti convegni per far nascere una DOC locale è Brusnengo, oggi inquadrato nella nuova provincia di Biella, anch’essa svincolatasi finalmente da quella di Vercelli, (che fu spesso un vero ostaggio in mano agli agrari del riso ed alle cartiere) soltanto in seguito allo sviluppo generato dall’enorme lavoro affrontato dalla sua operosa ed umile gente.
Uno degli animatori di questa grande risorsa che la DOC Bramaterra ha rappresentato per Brusnengo e dintorni è stato Adriano Sartor, un uomo veramente sanguigno, sostenuto in primis dalla moglie Lisetta. Grazie alla preziosa attività di persone come loro nacque dapprima il comitato vinicolo, credo nel 1973, poi nel 1979 venne riconosciuta la DOC Bramaterra ed in seguito, nel 1986, il comitato si trasformò in consorzio di tutela. Questa è una DOC molto piccola, nell’anno 2000 comprendeva circa 26 ettari per una produzione di circa 730 ettolitri di vino (97.000 bottiglie in tutto) in quel territorio della fascia collinare sopra le baragge dominato dal Monte Rosa che da ovest a est comprende i comuni di Masserano, Brusnengo, Curino, Roasio, Sostegno, Villa del Bosco e Lozzolo.

Vigneto

Eppure il vino di questi sette paesi ha origine nel medioevo, quando nel periodo fra le varie crociate i servi della gleba diventati liberi si stabilirono sulle alture, piantarono la vite e produssero un vino migliore di quelli prodotti nelle pianure, come è attestato da una serie di documenti che risalgono al secolo XI e che citano esplicitamente il vino di Masserano (l’attuale termine Bramaterra compare per la prima volta in una pergamena del 1447). Questo territorio è molto omogeneo non solo per la storia e le situazioni economiche, ma anche per le condizioni pedoclimatiche comuni a tutti e sette i paesi, dai suoli argillosi e silicei con alcune presenze calcaree, originati da rocce vulcaniche, in particolare quarzo e porfido. Il clima è nettamente diverso dalla parte pianeggiante baraggiva, che è nebbiosa e fredda in autunno e inverno, ma torrida d’estate, come tutta la pianura vercellese.

Su queste alture invece è molto gradevole, con numerosi giorni di sole in autunno e inverno, tanto da permettere la vita ad alcune palme, ulivi e mandorli. Dove non regna la vite, fino ai 400/500 metri s.l.m., sono diffusissimi i castagneti da frutto, che coprono quasi senza soluzione di continuità le pendici delle basse valli. E dove l’azione dell’uomo non è ancora arrivata domina il bosco misto di latifoglie: boschi di querce e roverelle, betulle, frassini, che salendo verso le montagne biellesi cedono il passo ai faggi e poi alle conifere. Come sanno bene i cercatori di funghi, non si torna mai a casa a mani vuote, magari anche con le castagne, le more, gli asparagi selvatici, ma lasciamo stare i ciclamini per favore, che la gente del posto rispetta e che sono un patrimonio della comunità. Dato il clima definito atlantico delle valli montane biellesi, la loro vegetazione è davvero lussureggiante, specialmente alle quote più basse, dove l’aria cristallina rigenera davvero tutto, permettendo di mantenere molto asciutta e sana la buccia degli acini d’uva.

Brusnengo sorge proprio sulle ultime propaggini delle colline che scendono da Curino ed il suo abitato è distinto in cantoni disposti come gli acini di un grappolo d’uva. La strada statale divide l’abitato collinare dalla maggior parte del territorio comunale che è pianeggiante e fa parte della tipica baraggia, fino a pochi anni fa ancora quasi totalmente incolta, ma in cui oggi, ad opera di imprenditori agricoli di Rovasenda e di Buronzo, si sta sviluppando la risicoltura, tra l’avversione dei residenti e con il solo plauso delle zanzare. Idrograficamente il territorio di Brusnengo fa parte del bacino del fiume Sesia. Il principale corso d’acqua è il torrente Bisingana, affluente del torrente Ostola, che scende dalle colline di Curino e che nel corso inferiore segna il confine tra la piccola pianura alluvionale del territorio di Brusnengo ed il comune di Masserano. Altri corsi d’acqua sono il torrente Guarabione, il rio Derbogna e il rio Meniccio.

L’altitudine massima, sul colle della Madonna degli Angeli, è di 445 metri sul livello del mare e proprio andando dal paese verso questo colle si trova l’azienda di Adriano Sartor Beni Sparsi, via Forte 132. Le uve che non ritiene adatte a fare il DOC le usa per fare un buon vino da tavola di pronta beva, ma sincera. Di Bramaterra ne fa poche bottiglie, penso circa 2.000, ma con una finezza di profumi inebriante, il sapore netto, dei tannini molto equilibrati, il goudron pronunciato, la struttura solida ed in armonia con una stoffa vellutata. Non è soltanto il suo Bramaterra ad essere così. Questo vino, che popolarmente veniva anche chiamato vino dei canonici perché diffuso nelle antiche osterie presso le canoniche, è il risultato di una specifica composizione. Il Nebbiolo, da queste parti spanna, non viene infatti vinificato in purezza come nella non lontana Gattinara (altri suoli, altro clima), ma ne forma la base, dal 50 al 70%. Viene sposato, come dico io, con tre principesse: Croatina dal 20 al 30%, Bonarda novarese (o uva rara) e Vespolina, congiuntamente o singolarmente, dal 10 al 20%. La resa massima di uva ammessa per la produzione del Bramaterra non deve essere superiore a 75 quintali per ettaro di vigneto in coltura specializzata. La resa massima dell’uva in vino non deve essere superiore al 70%. Le uve destinate alla vinificazione devono essere sottoposte a preventiva cernita in modo da assicurare al vino una gradazione alcolica minima naturale dell’11,5%. Il vino, all’atto dell’immissione in commercio, deve avere una gradazione alcolica complessiva minima del 12%, un’acidità totale minima del 5 per mille ed un estratto secco netto minimo del 23 per mille.

Il colore è rosso granato brillante, tendente all’aranciato con l’invecchiamento. Il profumo è intenso, lievemente etereo, insistente, con sentori di viola e di lampone. Il sapore è pieno, asciutto, vellutato, con un gradevolmente fondo amarognolo, di buon nerbo e gran carattere, alla bersagliera. L’invecchiamento minimo richiesto per legge è di due anni a partire dal capodanno successivo alla vendemmia, di cui almeno 18 mesi in botti di legno. Qualora sia sottoposto ad un periodo d’invecchiamento non inferiore ai tre anni, di cui due in botti di legno, può portare in etichetta la menzione di Riserva. Molto importante: le operazioni di vinificazione e di invecchiamento obbligatorio devono essere effettuate nel territorio amministrativo dei sette comuni e le bottiglie devono essere di tradizionale forma bordolese di vetro scuro. Va servito, per apprezzarlo meglio, in grandi bicchieri di cristallo ad una temperatura tra i 18 ed i 21°C. Si accompagna alle castagne arrosto e alla tipica panissa (riso con fagioli), a pollame nobile, selvaggina di pelo e di piuma, carni rosse stufate ed al forno, arrosti, brasati e formaggi stagionati.

Dimenticato o quasi dalle guide, forse perché non ha bisogno di comprarsi spazi di pubblicità, il Bramaterra è venduto perfino in Canada e Giappone. I suoi prezzi possono variare dagli 8 ai 20 euro. Eccezionali le annate ’83, ’90, ’94 e ’97, le cui bottiglie possono essere conservate per lungo tempo coricate in cantine buie con temperatura inferiore ai 15°C e umidità pari all’80%. Da notare senz’altro gli ottimi risultati in questa zona delle annate ’83 e ’94, a conferma che le differenze climatiche e pedologiche territoriali sono l’unico metro valido per poter giudicare la bontà di un vino e non i consigli sommari dei cosiddetti esperti, spesso riferiti ad aree fin troppo vaste e addirittura distanti tra loro anche se nella stessa provincia o regione. Bisogna conoscere bene il territorio e non fare mai di tutta l’erba un fascio, gettando magari il buon frumento insieme con il loglio.

Tra i produttori più noti troviamo: Odilio Antoniotti, Matteo Baldin, Luigi Baltera, Lodovico Barboni, Giuseppe Filippo Barni, Giuliano Bozzone Costa, Carlo Colombera, Carlo e Paola Desimone, Roberto Diana, Ezio Framorando, Alberto Morino, Emilio Morino Perazzo, Sergio Nobile, Luigi Perazzi, Adriano Sartor, Sergio Sella, le aziende agricole Sella e Massimo Zani.


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