Campi maledetti. Ovvero quando il deterioramento ambientale ritorna e presenta il conto con gli interessi.

È un film già visto decine di volte: rincorrere motivazioni improbabili per comprendere o giustificare il momento in cui si è determinata una data sciagura, insieme al patetico scaricabarile di responsabilità che sarebbero per contro comprensibili esercitando solo un pizzico di senso comune, è divenuto il più frequentato degli sport nazionali.
Dopo aver per decenni perseguito lo spietramento e dissodamento della Murgia, innescando così quel processo tristemente noto come desertificazione, ossessionati dalla necessità di tenere alte le quotazioni del grano riducendone la produzione con un bizantinismo noto come “set a side”, grazie al quale si è riusciti non solo a spopolare il territorio rurale ma addirittura a mandare al mare i “coltivatori” diretti per un quinquennio di vacanze spesate e dorate, la domanda retorica, che a questo punto sorge spontanea, è se sia stata dunque incentivata in questo modo una certa cerealicoltura assistita, incapace di rigenerare se stessa, e da un altro lato
si sia voluta ridurla cosi’ condannando i produttori alla oscenità del grano cartellinato, cagionando anche l’abbandono della pastoriza (ogni azienda cerealicola aveva il suo bel gregge), utile fermento e osservatorio privilegiato del territorio in virtù proprio di quei lenti cicli di produzione di cui si avvale. Quale altro poteva essere il risultato di una politica così impostata?
Abbiamo gioito, in termini economici, per la facilità con cui riuscivamo a nutrire le specie zootecniche allevandole con proteine a basso costo, al limite dell’etica, dimenticando che allevare un bovino non è lo stesso che allevare un pollo o un’orata, e ci troviamo a pagare con forti interessi il debito che abbiamo contratto con il mondo animale, dei quali il morbo della “mucca pazza” ne è stato solo un esempio.

Su questo terreno di coltura si è alimentata la piaga che ha portato a trasformare un porzione dell’Alta Murgia, così come la stragrande maggioranza dei territori abbandonati un po ovunque al Sud, in una grande discarica abusiva, con forti profitti da parte dei coltivatori divenuti vacanzieri, fenomeno che poi è diventato un vero e proprio land grabbing..

Chissà quando e quale sarà la prossima aberrazione, e se ci ritroveremo come ora a parlare del pericolo delle farine animali, di compost-non-compost sparso sui terreni dai “coltivatori balneari”, di scorie radioattive da smaltire e di parchi nazionali violentati e spietrati, vorrà dire che ce lo siamo meritato.

“Occuparsi di alimenti significa spiegare ai consumatori che un prodotto di qualità supera abbondantemente i costi di produzione dei prodotti reperibili nella grande distribuzione”

Sembra giunto il momento di spiegare e capire che il controllo della filiera di produzione di un prodotto non si limita alla conoscenza se il forno in cui si cuoce il pane sia a legna o elettrico, se la carne provenga da un taglio pregiato o secondario, se la carammelizzazione dell’amido del pane scongiuri la presenza di batteri nocivi:

il problema della sicurezza alimentare è ormai quasi esclusivamente di tipo tossicologico e, per questo, non visibile ad occhio nudo, fatta eccezione per i funghi velenosi, per nostra buona sorte diversi da quelli mangerecci.
La consapevolezza alimentare deve superare ormai la verbosità solita dei luoghi comuni paesani e di campanile e condurci per la prima volta, in un periodo di sovrabbondanza alimentare, a sancire i pre-requisiti di ammissibilità per ogni singolo prodotto al consumo.

Occuparsi di alimenti significa anche spiegare ai consumatori che un prodotto di qualità supera abbondantemente i costi di produzione dei prodotti che si vendono nei banchi dei supermercati, magari ottenuti da materie prime importate (scarti a basso costo), e renderli consapevoli che sostenere una produzione di qualità, necessariamente più costosa, significa anche impedire la scomparsa di popoli e saperi che le sottendono, mantenendo in vita la storia che ha determinato quella particolare produzione.

Lo insegna la Food and Drug Administration con la continua sollecitazione al cosnumo di olio extravergine italiano di qualità anche al costo di 20,00 dollari al litro….Sono queste…e solo queste le miglia alimentari che un prodotto deve percorrere se garantisce un effetto nutrceutico.
Analogamente, mi raccontava un mio amico reduce da un viaggio, i cinesi hanno perseguito in maniera asfittica lo sviluppo industriale ingaggiando una sfida di efficienza con gli Stati Uniti.
Ora hanno capito che per ottenere questo mitico valore del Pil , si sono persi per strada l’ambiente e la biodiversità, e per questa ragione comprano solo prodotti alimentari esteri, consapevoli di aver trasformato le loro terre in “campi maledetti”(**).

Comunque, lo diceva Madre Teresa di Calcutta: “Meglio accendere una candela che maledire il buio”……. Percio’…

Agricoltura 2.0

Inquadriamo in via preliminare gli obiettivi fondanti di una rinascita del sistema produttivo.
Si parta da sistemi produttivi di vicinato, ignorando le dimanmiche industriali orientate alla sovrapproduzione, prima, ed allo spreco, dopo, di cibo “junk food”
Per esempio, si aiutino i consumatori a comprendere che le ritualità tipiche del boom economico degli anni 60 devono essere abbandonate.
Si acquisti cio di cui si ha bisogno ed ogni giorno; si mangi e si divori la stagionalità; si favoriscano le realtà agro produttive locali pur senza indugiare in sistemi di approvvigionamento alimentari di tipo autarchico che riconoscerei oramai solo alla originalità vegana.

La gastronomia è la spia dell’ambiente e come tale va assecondata..Si mangia per prima cio’ che si ha intorno (J. Iturriaga de la Fuente), e chi vi parla di una cultura silvo pastorale non puo che pensare ale produzioni ovicaprimne a base lattea e carnea…..

Ma cerchiamo strumenti utili per interventi economicamente votati agli allevatori che non riescono a modernizzare l’azienda, condizione necessaria a garantire elevati standard qualità in termini di sicurezza alimentare, e quindi a produrre latte ovino di qualità necessario alla trasformazione in formaggio pecorino a latte crudo;
aiuteremo cosi’ gli allevatori, di razza Podolica od i suini neri calabro lucani a me tanto cari, i casari-pastori di tutte le montagne e vallate del nostro, al fine di contenere il costo di queste preziose produzioni entro un range di prezzo accettabile;

Una ultima riflessione: Ma noi si pagherà mai il giusto per un kilo di carne di agnello ed un litro d’olio?
mi sembra esemplare il caso degli allevatori di ovini che lentamente e mestamente stanno perdendo l’entusiasmo per la propria attività: l’agnello lattante della Murgia, un grande prodotto che non può presentarsi alla vendita a meno di 16/18 euro al Kg, si vende alla stalla a 4/5 euro al Kg a peso vivo e 10/12 euro /Kg in macelleria: nessuna produzione identitaria, tributaria di elevati indicatori di benessere animale e di tutela dell’ambiente potrà sopravvivere in questo modo.
Per il pranzo di Natale si è disposti a spendere piccole fortune in ostriche, salmone selvatico e dolciumi, ma per l’agnello si resta alle cifre fissate alla stalla da un commerciante che, nel migliore dei casi, non ha particolarmente a cuore la sorte dei pochi produttori locali rimasti.

La globale consapevolezza.
In una parola, nel momento in cui pensiamo che forse solo l’Africa potra “nutrire il Pianeta” fra qualche anno a causa dei dissennati fenomeni di “land grabbing” quasi tutti dettati dalla deforestazione a favore di impianti superintensivi ispirati alla sovrapproduzione di olo di palma, rivisitiamo tutto il nostro sapere, lontano dagli interessi industriali, votandoci al recupero di processi di produzione agricola e zootecnica caratterizzati dalla naturalezza del vivere e della possibilità dell’uomo di proiettarsi in una dimensione produttiva eticamente dotata di senso proprio perché dall’etica si parte per scoprire gli equilibri naturali a vantaggio dell’uomo, dell’animale, dell’ambiente.
Se riusciamo in questo mosaico almeno a individuare qualche mezza vittoria grazie alla migliore conoscenza da parte dei consumatori, con una netta inversione di alcune tendenze, direi che siamo già a metà strada.

Aiuteremmo le produzioni identitarie ad emergere e non manderemo più i piccoli produttori in pre-pensionamento o al mare ricorrendo a machiavellici artifizi finalizzati a metterli a riposo definitivamente.
Senza fare nulla, rischiamo di azzerare ogni fermento, affosseremo la biodiversita’, maniaci tutori di “metodi e tempi” frenetici, imposti all’ambiente e agli animali, incapaci cioè di garantire produzioni “Naturalmente Bio” fuori da procedure di industriale/globale memoria.
Aspettiamo, dunque, la prossima sciagura, coccolati, come sempre, da imbonitori agro-alimentari poco qualificati quanto a competenze scientifiche, sempre pronti a spiegare cosa è meglio per l’umanità grazie agli autorevoli pareri di istituti “nazionali” (privati) di certificazione e di autocontrollo (controllo a pagamento) con buona pace dei tanti esperti catodici UNA VOLTA, ORA A CRISTALLI LIQUIDI, che quotidianamente entrano nelle nostre case.

di Michele Polignieri

Nota dell’Autore
Perché “Campi maledetti”?
Era il modo in cui gli antichi infettivologi indicavano quei terreni o contrade a rischio Carbonchio ematico -malattia setticemica gravissima dei ruminanti- legata a terreni infetti. In realtà campi venivano inquinati in seguito al sotterramento delle cacasse degli animali venuti a morte nelle epidemie, con la conseguente sporulazione del Bacillus Anthracis e perpetuazione del contagio).

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