Carne di montone… e di marmotta!

Una casa, nido, riparo, focolare, che monti e smonti come fosse fatta di lego. Quasi un gioco da bambini. Con gesti consacrati dalla tradizione, in cui tutta la famiglia ha un suo ruolo preciso, e già che c’è rinsalda ancor di più i vincoli che la tengono unita.
La grata circolare (hana) in legno di salice. Che fa da parete e punto d’appoggio per i pali di sostegno (uni), riuniti alla sommità della tenda in una calotta (toono) da cui fuoriesce il tubo-camino del focolare interno. Struttura leggera e resistente, sorretta all’interno da due colonne a T (bagana) in legno riccamente intarsiato. Perché semplicità ed efficienza non vogliono dire povertà e bruttezza. Anzi.
La gher all’esterno si ammanta di feltro e di pelli impermeabili, che la rendono intangibile al freddo e le donano un’aria aristocratica. La casa nomade ricoperta di stole. La porta (khalga) si apre a sud, desiderosa del calore proveniente dal deserto del Gobi. Fuori è gelo e buriana, ma dentro è tutt’un’altra storia. Potere della soglia: alle spalle, la morsa bianca del freddo.
Il regno della natura e delle sue forze misteriose. Di fronte, il calore ambrato dell’interno. L’universo modellato dal nomade. Si passa da un mondo all’altro, tramite la gher. È per questo che si deve far attenzione, varcandone l’ingresso. Mai inciampare, o calpestare lo stipite. La cattiva sorte, le presenze oscure potrebbero approfittarne per farsi un varco dentro. Via, ricacciatele indietro, perché all’interno della gher c’è un mondo. Profumi, colori, antichi riti, nuovi feticci.

Al centro la stufa di ghisa, focolare, camino e cucina insieme.

La-stufa

Ai lati, i letti (a sinistra quelli degli uomini e degli ospiti, a destra il letto coniugale e quelli delle donne), le cassapanche, sgabelli e tavolo, un piccolo altare, le masserizie, la brocca con catino per lavarsi, le selle.
L’odore è da profumo maschile haute couture: cuoio, tabacco fumée, feltro, con lievissime venature alcoliche (vodka, per l’esattezza). I colori hanno una calda dominante arancio, tinta affine alla cromia dell’oro, segno di regalità e prosperità. A terra, feltro e spessi tappeti.
Ovunque, respiri l’essenza del Paese: fatta di segni del passato glorioso (vecchie statuine del Buddha, attrezzi artigianali, antichi oggetti di devozione, stoviglietradizionali) e concessioni alla modernità più globalizzata: polaroid ormai stinte, radioline di marca cinese, giocattoli e secchi di plastica colorata, ma in certi casi anche decoder collegati a improbabili parabole satellitari o centraline che regolano il flusso di energia generato da moderni pannelli solari. Resta salva l’etichetta, più dettagliata e precisa di quella in vigore alla corte del re Sole. Perché la gher è anche un universo di rituali, per dare ritmo all’ordine del mondo. Gli uomini, una volta entrati, si dispongono a sinistra, le donne a destra.

Sono banditi gli oggetti nefasti e la lista è lunga, perché va dalle armi da taglio come i coltelli alle pentole senza coperchio (secondo i mongoli ideali per trafugare la felicità familiare), passando per gli utensili da scavo, che ricordano momenti poco gai come le sepolture. La stessa disposizione degli arredi segue regole intricate e legate alla simbologia religiosa. Etichetta vuole che ogni leccornia offerta (con il braccio destro, sorretto dalla mano sinistra all’altezza del gomito) sia entusiasticamente accettata (con entrambe le mani) e trangugiata, che si tratti di grossi pezzi di carne di pecora cotta nel suo grasso, formaggio secco, vodka o airag (latte di cavalla fermentato). Ma prima gli uomini si saranno offerti a vicenda prese di tabacco, ammirando la fattura dei contenitori,pregevole o grossolana che sia. L’ospite ben educato eviterà di fare troppe domande, non si appoggerà mai ai pali di sostegno (è di pessimo auspicio quanto inciampare all’ingresso) e reprimerà in cuor suo ogni desiderio di fischiettare giulivo (modo sicuro per catalizzare il male sulla gher e sui suoi abitanti).
Inoltre, ricambierà l’ospitalità al momento della partenza, con un regalo o un po’ di denaro (mai una somma eccessiva, sembrerebbe un gesto per vantarsi e umiliare il padrone di casa). Etichetta anche per accomiatarsi: è previsto un giro in senso orario intorno alla stufa. E solita attenzione al gradino, uscendo. Non urtatelo. La gher ha resistito, grazie ai suoi accorgimenti tecnici e alla tenace protezione dai cattivi auspici, per secoli e secoli. E vuole continuare a resistere. Quindi, rispettate la tradizione. Non calpestate la soglia, per favore.
di Rita Ferrauto (da “Mongolia – L’ultimo paradiso dei nomadi guerrieri” di Federico Pistone – Polaris 2008)

Carne-di-marmotta

IL RAPPORTO TRA I MONGOLI E GLI ANIMALI
La carne e il latte sono da sempre la base dell’alimentazione dei mongoli.
Un vero incubo per i vegetariani, mentre gli animalisti possono consolarsi considerando che in Mongolia gli animali sono rispettati, se non addirittura venerati.
L’uccisione di una pecora, ad esempio, viene eseguita con un’antica tecnica che evita inutili sofferenze: viene praticata una sottile incisione all’altezza del costato e compressa l’arteria del cuore: bastano pochi istanti e l’animale muore senza dolore e senza la minima perdita di sangue. Il corpo viene quindi sezionato in più parti e utilizzato completamente, comprese le ossa (foto di Federico Pistone).
Poi, generalmente, viene recitata una preghiera rivolta allo spirito dell’animale. Significativo il fatto che i nomadi mongoli indossino i gutul, i tradizionali stivali con la punta rivolta in alto per evitare di “ferire” la terra e calpestare i piccoli animali che la popolano.
La natura e gli animali hanno una valenza sacra per i mongoli e anche il cibo ne risente.
È atavica la tradizione di nutrirsi solo di animali che muoiono per cause naturali e, come si dice, senza buttare nulla.
Lo testimonia anche il francescano Guglielmo di Rubruc nel suo “Viaggio nell’impero dei Mongoli” del XIII secolo: “Mangiano indifferentemente tutti i loro animali che muoiono, e tra tanti greggi e armenti che possiedono ci sono molti animali che muoiono. Durante l’estate, tuttavia, fino a che hanno il cosmos, cioé il latte di cavalla, non si preoccupano di procurarsi altro cibo: perciò se accade che in quella stagione un bue o un cavallo muoia, mettendo a seccare la carne e tagliandola a fette sottili e appendendole al sole e all’aria, così che si seccano subito senza bisogno di sale e senza alcuno cattivo odore. Con le interiora dei cavalli preparano delle specie di salsicce, migliori di quelle di maiale, e le mangiano fresche; riservano il resto della carne per l’inverno. Con le pelli dei buoi fabbricano grandi otri che fanno seccare al fumo in modo straordinario. Con la parte posteriore della pelle di cavallo fabbricano bellissime calzature. La carne di un unico montone è sufficiente per sfamare cinquanta o cento uomini: essi, infatti tagliano la carne a pezzettini in una scodella aggiungendovi sale e acqua, poiché non preparano nessun altro tipo di condimento”. Anche da questo punto di vista, in Mongolia sembra che il tempo si sia fermato perché le abitudini nella steppa, dopo otto secoli, sono rimaste identiche.

Buuz

ALIMENTI GRIGI E ALIMENTI BIANCHI
In Mongolia gli alimenti vengono definiti “grigi” (carni) o “bianchi” (latte e derivati).
Gli alimenti grigi, soprattutto montone e pecora (la carne è piuttosto grassa e saporita e costa poco ai mercati mongoli), vengono quasi sempre bolliti e lasciati galleggiare a pezzetti nel brodo. Vengono accompagnati dai buuz (vedi ricetta a lato), grossi ravioli di carne e cipolla cotti al vapore o dai khushuur (ricetta a lato), la versione fritta dei buuz. Tutti i mongoli li sanno cucinare e saranno felici di farveli provare. Nella foto (di Federico Pistone), l’ospite degusta il té mentre la padrona della gher prepara la pasta per i buuz.
Il boodog è considerato uno dei piatti più peculiari della cucina mongola. Viene preparato con la carne di capra o di marmotta. Attraverso il collo dell’animale vengono estratti ossa e viscere. Si introducono sassi incandescenti e si richiude il collo. La carcassa viene lasciata cuocere finché la carne diventa tenera, gustosa e fragrante. Una variante, con l’agnello, è il khorkhhog
Le viscere di pecora, una vera delizia per i nomadi, vengono utilizzate anche per la preparazione di salsicce.
Per la conservazione della carne vengono utilizzati vari metodi: il più classico è quello di tagliarla in lunghe e sottili strisce che vengono appese all’ombra. La carne diventa secca molto presto e quasi impossibile tagliarla con il coltello. Così, prima di utilizzarla, occorre bollirla nell’acqua per riammorbidirla.
Gli alimenti bianchi sono consumati soprattutto d’estate. Latte e formaggi provengono da quelli che i Mongoli definiscono animali a “muso caldo” (montoni e cavalli) e a “muso freddo” (capre, yak e cammelli).
Il tipo e la quantità di cibo dipendono dal periodo dell’anno, dalle condizioni ambientali e dai luoghi. A sud, ad esempio, la dieta principale è a base di carne di montone, latte e formaggi di cammello. In inverno occorrono più calorie e i nomadi consumano soprattutto il grasso degli animali. Alcuni piatti vengono accompagnati da cipolla selvatica e aglio. Frutta e verdura si possono trovare solo in alcuni mercati di Ulaan Baatar ma non fanno certo parte della dieta mongola, anche per le proibitive condizioni climatiche del Paese. Il pesce è molto abbondante nei corsi d’acqua, soprattutto nei laghi del nord, ma questa carne viene considerata poco adatta a un popolo guerriero e viene completamente snobbata.

COSA BEVONO
I NOMADI DELLA STEPPA
Nelle gher il cibo viene cucinato una volta al giorno, soprattutto quando è previsto l’arrivo di un ospite.
Per colazione e per merenda viene servito un tè salato (vedi ricetta a fianco, foto a sinistra apsaras.com), a volte con il latte (di yak, di cammella, di cavalla, di capra o di mucca), accompagnato dai boortsog (biscotti imburrati e fritti nell’olio) e anche da pezzi di carne eventualmente avanzati il giorno precedente.
Con l’arrivo della primavera, i mongoli cominciano a utilizzare prodotti freschi, soprattutto il latte, che è alla base di zuppe, formaggi, bevande.
Tra queste, spicca l’airag, l’alimento principe della dieta mongola, composto da latte di cavalla: è una bevanda alcolica, acidula e frizzantina, molto proteica e, dopo un primo momento di stupore, perfino gradevole. Il latte appena munto viene versato in un otre di cuoio e battuto almeno mille volte fino a farlo fermentare (dai 3 ai 5 gradi alcolici). I mongoli bevono airag in ogni occasione, anche diversi litri al giorno. Ci mettono una grande cura a produrlo, un po’ come per noi il vino. Una coppa di airag viene consumata dagli stessi lottatori prima della gara del Naadam. I Mongoli ritengono che l’airag abbia anche qualità medicinali: dà vigore, è antidepressivo, distrugge i germi patogeni nell’intestino e aiuta il metabolismo. Nella foto (www.photos.ws), la preparazione dell’airag. Sempre Guglielmo di Rubruc, nel suo reportage del 1253 ci riferisce quello che accade ancora oggi, esattamente con le stesse modalità (l’airag viene qui chiamata “cosmos”, dall’altra denominazione: koumiss):
Il cosmos fa molto bene all’intestino, inebria le persone abbastanza deboli ed è notevolmente diuretico”. Mentre lo si beve, il cosmos pizzica la lingua come il vino di raspo e dopo che si è finito di bere rimane in bocca il sapore del latte di mandorla.
L’altra bevanda irrinunciabile dei mongoli è la vodka, chiamata anche arkhi (o shimiin arkhi) per distinguerla dalla vodka russa normalmente in commercio: è un distillato di 10-12 gradi, cristallino e senza sapore.

I RISTORANTI MONGOLI
Solo nella capitale, e in altre località turistiche, è possibile trovare una cucina buona per tutti i palati. I ristorantini mongoli, i guanz (molto economici e spartani, se non fatiscenti ma sempre molto pittoreschi e genuini, foto a sinistra) servono piatti a base di carne e buuz, insalata di verza e qualche volta salsiccia di carne di montone.

NELLA BORSA DELLA SPESA
Sugli scaffali dei supermercatini della capitale si trova anche pasta italiana (non di marca, anzi senza nemmeno l’indicazione della provenienza), olio di oliva e addirittura vino (il meno sospetto è quello di origine bulgara). Ovviamente non mancano i liquori e la vodka (russa ma anche quella mongola, ottima) troneggia sempre. Un viaggio in Mongolia è anche un’occasione per perdere chili. Non solo scarseggia l’apporto di carboidrati, ma è molto difficile trovare alimenti dolci.
Nello State Department Store il grande magazzino statale che campeggia in via della Pace, è possibile trovare di tutto, anche delle torte tanto scenografiche quanto perfide nel gusto. Meglio buttarsi sui dolcetti freschi a base di fagioli.
Nei mercati della capitale, oltre a vario scatolame proveniente dalla Cina, dalla Corea e dalla Russia (si trovano confezioni di caviale a prezzi stracciati anche se abbondantemente scadute), ci si può rifugiare nei famigerati noodle, ciotole di carne e verdura liofilizzata che, con un bicchiere di acqua calda, diventano dei dignitosi piatti unici.
Evitare assolutamente (anche se un assaggio è d’obbligo) il gelato, che ha un curioso sapore di petrolio salato.

HULUSHUUR
ravioli fritti ripieni di carne di mintone o manzo, cipolle, aglio e sale
BUUZ
ravioli di carne al vapore

KHORKHHOG
carne di agnello cotta con sassi incandescenti che vengono posti nel brodo di cottura.

BODOG. carne di marmotta

KHORKLOG: carne di montone stufato

TARAK: yogurt

ARUL: formaggio secco ottenuto facendo sgocciolare il formaggio e posto sul tetto della tenda

BIASAT: formaggio ottenuto dal latte caldo cagliato con l’aggiunta di TARAK.

SHAR TOS: burro giallo cotto, chiarificato (bruciato anche in occasione dei riti sacri)

AIRAK: latte fresco di giumenta posto un una otre di pelle e sbattuto frequentemente: si ottiene una bevanda che si consuma nelle occasioni particolari.

OIEREM: alimento onorifico per eccellenza ottenuto dalla panna del latte fatta raffreddare e riposare, la si ripiega come un’omelette con la parte cremosa all’interno.

ARKH bevanda ottenuta dalla distillazione ripetuta di latte fermentato fino ad ottenere un liquido biancastro cremoso

Claudio Pellizzeni

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