Chi ha rubato il pomodoro dalla pizza?

Pino Coletti
pizza super condita

Chi ha rubato il pomodoro dalla pizza?

Di recente sono stato giudice in una competizione di pizza.

Dopo aver valutato venti pizzaioli in gara, provenienti da tutt’Italia, soprattutto giovani, mi sono accorto di tre trend che mi hanno lasciato non poco perplesso.

  1. È scomparso il pomodoro dalle pizze

E’ vero che la pizza nasce bianca.

La Mastunicola, un disco di pasta arricchito con strutto, pepe, formaggio grattugiato e basilico, fu nel ‘500 l’antesignana della pizza napoletana come la conosciamo oggi.

Ma con l’utilizzo del pomodoro, circa duecento anni più ardi, da pianta ornamentale a ingrediente della cucina del sud, fu data vita alla Marinara, poi alla Cosacca ed infine alla Margherita, icona assoluta, celebrata in tutto il mondo proprio per quel contrasto cromatico tra rosso, bianco e verde, diventando un simbolo dell’Italia.

Eppure, oggi, noto che il pomodoro sembra diventato un intruso.

San Marzano, Piennolo del Vesuvio, Ciliegino, Datterino e Corbarino sono sempre meno utilizzati dai giovani pizzaioli.

Sempre più pizze bianche, pallide.

Il pomodoro sopravvive solo nelle versioni “classiche” di Margherita e Marinara, mentre altrove viene ridotto a qualche goccia di coulis spremuto da un biberon per decorare.

Un vezzo estetico, più che un ingrediente.

  1. L’olio in cottura: un ingrediente dimenticato

Altro dettaglio che salta all’occhio: l’olio, sia di semi che extravergine d’oliva, non lo mette più nessuno prima della cottura.

È diventato il “finish” aromatico, versato a crudo fuori forno, quasi fosse un profumo di lusso.

Eppure, chiunque abbia un minimo di formazione gastronomica sa che l’olio in forno non brucia, nonostante le temperature altissime: la pizza cuoce troppo velocemente perché raggiunga il punto di fumo anche dell’olio evo che è leggermente più basso di quello di semi.

L’olio non è un condimento, è un ingrediente: veicola aromi, cuoce insieme agli altri elementi, lega i sapori.

Va scelto con cura affinché non prevalga sul sapore ma sia funzionale allo scopo di completare la preparazione.

Tranne i casi dove c’è concorrenza con altri grassi, toglierlo dalla cottura significa dimenticare la sua funzione primaria.

Un po’ come cuocere la pasta senza sale e poi aggiungerlo dopo: non è la stessa cosa.

  1. Il culto del topping stellato

C’è poi il fenomeno dei super-topping da fine dining.

Una volta la pizza era l’incontro magico tra un disco di pasta e pochi ingredienti scelti con cura.

Oggi sembra diventata la tela su cui sfogare qualunque fantasia culinaria.

Dopo la moda delle lunghe lievitazioni e delle super idratazioni è la volta della farcitura estrema.

Chi mette meno di sei ingredienti sulla pizza si sente uno “sfigato”.

Otto, dieci, dodici ingredienti sono la norma.

Il racconto della pizza al tavolo è talmente lungo che la pizza si raffredda.

Anzi, sempre più pizze, per la lunga preparazione sul banco, notoriamente freddo, arrivano a tavola tiepide.

E spesso, c’è chi lo dice e chi mente, i pizzaioli si affidano a consulenze di chef stellati per creare ricette complesse che più che pizze sembrano pietanze da ristorante sul piatto sbagliato, il disco di pasta.

Chi fa da solo troppo spesso sforna dei “mappazzoni” immangiabili dopo il secondo morso, che farebbero saltare sulla sedia il caro Bruno Barbieri.

È evidente che la pizza, da piatto popolare e democratico, sia diventata un palcoscenico per la creatività e l’auto-compiacimento del pizzaiolo.

Complice la spettacolarizzazione sui social e la pressione a “fare notizia”, molti pizzaioli inseguono la novità a ogni costo.

Questo non significa che la pizza non possa evolvere – la storia della pizza è fatta di continue trasformazioni – ma ogni innovazione dovrebbe essere figlia di una logica gastronomica, non solo estetica o di marketing.

Il rischio è che anche la pizza potrebbe subire la crisi del fine-dining che ha già percorso il sentiero dello stupire a tutti i costi.

Varrebbe la pena, ma forse è un’esagerazione, scomodare il celebre architetto e designer tedesco Ludwig Mies van der Rohe, quando ebbe a consigliare che “less is more”.

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Pino Coletti, ingegnere napoletano, esperto di tecnologia & food da oltre 20 anni, dopo una brillante carriera internazionale che lo porta a ricoprire ruoli manageriali in importanti multinazionali hi-tech, da IBM ad Apple, torna a Napoli e fonda Authentico, una startup che aiuta i consumatori a riconoscere il vero cibo italiano e supporta le aziende agroalimentari nell'intraprendere percorsi di trasparenza delle materie prime utilizzate con la tecnologia blockchain. Gli amici lo definiscono un “bon vivant” per la sua ricerca spasmodica del buono. Per lavoro e per passione ha girato i 7 continenti mangiando e bevendo praticamente ovunque, dai baracchini dello street food dei peggiori mercatini asiatici ai ristoranti stellati delle grandi capitali. È diplomato sommelier AIS dal 2003, ha seguito numerosi corsi di degustazione di oli, formaggi e caffè, ed è sempre più convinto di non sapere.
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