Dagli USA certe mode prima o poi arrivano, meglio essere preparati. 1: La carne vegetale

di Francesco Tiezzi, North Carolina University

Le notizie sull’impatto degli allevamenti più o meno intensivi sull’ambiente e la nostra salute escono ormai con cadenza giornaliera. Dall’altra parte, prodotti come carne, latte e uova di origine vegetale si trovano sempre più spesso negli scaffali dei supermercati. Non si potrebbe proprio parlare di carne, latte e uova, ma ormai la nomenclatura è diventata più un fatto legale che altro. Personalmente, mi piacerebbe considerarli dei ‘surrogati’, proprio come il caffè d’orzo è un surrogato del caffè.

Proprio per la grande ‘confusione’ che si ritrova spesso, quando si sente parlare di questi surrogati, ho deciso di intraprendere un viaggio alla scoperta di questi prodotti. Il fatto di vivere negli Stati Uniti mi aiuta, dato che qui di tali surrogati se ne trovano molti di più che in Italia. Ho usato il termine ‘confusione’ perché proprio di questo si tratta: una fusione di diversi ingredienti, nomi e concetti. Tale confusione, se non districata, porta a confondere, appunto, sia il consumatore che il produttore agricolo.

In particolare, mi sta a cuore sapere come gli allevatori vedano questi prodotti. Qui in USA, la maggior parte degli allevatori vede questi surrogati come una minaccia alla propria attività in quando minaccia al mercato delle commodity che producono. Al di là delle mie opinioni in materia, ci tengo a informare su cosa questi prodotti siano e perché vengano acquistati. Le conclusioni saranno lasciate ad ogni singolo lettore anche se mi permetterò di proporre la mia interpretazione del fenomeno.

Esiste senza dubbio un problema di impatto ambientale dato dalla elevata produzione di carne, sia nel cosiddetto Occidente che, ormai, anche in Asia. Come è stato ben spiegato durante la puntata di Presa Diretta di qualche giorno fa, foreste intere vengono abbattute per far spazio alla produzione di carne e di soia, che viene comunque usata per la produzione di carne. La soia trasportata in Europa o Asia per entrare a far parte della formulazione di mangimi di allevamenti che, ormai, hanno sempre meno terra a disposizione. Ciò comporta un problema di smaltimento delle deiezioni e inquinamento delle acque.

Esiste anche un problema di scarsa salubrità di certi prodotti animali, spesso provenienti da sistemi zootecnici poco (o per niente) orientati al benessere animale e alla qualità dei prodotti.

Di fronte a questi problemi, è facile lasciarsi convincere dal fatto che il consumo di carne debba essere ridotto. Però non tutte le soluzioni proposte sembrano essere valide, soprattutto quando si mettono insieme le diverse componenti.

Da un altro punto di vista gastronomico, si potrebbe pensare che tali surrogati siano delle schifezze che non appartengono alla buona cucina, dei prodotti sofisticati (nel vero senso del termine) che sarebbe meglio evitare. Ci si immagina che invece di mangiare una buona e sana bistecca si mangi qualcosa creato in laboratorio da persone con tanto di camice, occhiali e mascherine. Difficilmente questo sarà il caso. Prima di tutto perché tale produzione in laboratorio porterebbe ogni hamburger vegetale a costare qualche centinaio di euro. In secondo luogo, e forse più importante, perché di buone e sane bistecche ormai se ne trovano davvero poche. In terzo luogo, perché ciò che ha portato alla creazione di molti dei surrogati che si trovano oggi non è altro che lo stesso processo che ha portato all’invenzione del ragù di lenticchie.

Ancora, non sarò io decretare se la presenza di tali surrogati sul mercato sia globalmente un bene o un male. Mi sento però di dire che dovrebbero essere proprio i produttori agricoli i primi a proporre tali prodotti.

LA CARNE VEGETALE

Di prodotti a base di carne vegetale se ne iniziano a vedere diversi nel mercato. I due principali prodotti sono Beyond Meat e l’Impossible Burger dell’azienda Impossible Meats. Entrambi sono sostitutivi della carne, ma a base vegetale, ovvero non si tratta di colture di cellule animali. Si potrebbe dire che siano un’evoluzione dei cosiddetti ‘veggie burgers’, o hamburger vegetariani che già da decenni venivano prodotti, per esempio, dall’azienda Morning Star, divisione della Kellogg Foods (si, quella dei corn flakes).

Ora, come mai si sente parlare molto di più di Beyond Meats e di Impossible Burger di quanto si sentisse parlare di hamburgers vegetariani?

In breve, perché gli hamburgers vegetariani di 5 anni fa spesso ricordavano più il cartone che la carne.

L’evoluzione delle ricette ha permesso far somigliare il prodotto alla carne il più possibile, con conseguente ampliamento di mercato. Il colore della carne è dato dalla emoglobina, una proteina contenuta nei muscoli e che serve al trasporto dell’ossigeno. Nell’Impossible Burger tale molecola è stata sostituita dalla leg-emoglobina che viene comunemente trovata nelle radici delle leguminose qualora sia presente la simbiosi con il Rizobio e stiano fissando azoto atmosferico. Tale leg-emoglobina non è però estratta dalle radici ma bensì prodotta da un batterio in laboratorio. Allo stesso modo, il sapore e la consistenza del grasso della carne è stato ricreato con olio di cocco e amido, mentre il sapore della ‘carne bruciata’ che si forma qualora si cuocia alla griglia è prodotto con un estratto, zuccherino, delle mele.

Ecco che l’Impossible Burger ha iniziato a somigliare molto di più alla carne di quanto gli hamburgers vegetariani potessero. Tuttavia, le ‘carni vegetali’ rimanevano sempre un prodotto di nicchia, riservato ai consumatori più abbienti della California. Si trovano solo nei supermercati più ricercati come Whole Foods e Trader Joe’s. Per lo meno, finché anche la produzione non ha assunto i connotati dell’economia di scala.

Ad un certo punto, Impossible Meats ha stipulato un accordo con la catena di fast food Burger King. Molti si sono meravigliati, pensando che il prodotto non fosse adatto ad essere venduto in un fast food per il contrasto tra l’idea di scarsa salubrità di quest’ultimo e l’idea di un hamburger vegano e senza colesterolo. Inoltre, molti pensavano che il nome di Impossible Foods si sarebbe ‘sporcato’ con l’ingresso nel mondo dei fast food. In realtà, tale accordo è risultato vantaggioso per entrambe le parti. Per Burger King, ha permesso di attrarre un tipo diverso di clientela che prima non si sognava di certo di andare a mangiare un hamburger di carne di provenienza sconosciuta. E questo c’era da aspettarselo. Ma è stato proprio Impossible Foods a guadagnarci di più. Un po’ per aver ampliato la base della propria clientela, ma soprattutto per aver avuto facile accesso a una rete di distribuzione efficiente e capillare. Viaggiando negli Stati Uniti non sempre si trova il tipo di ristorante che si vorrebbe, ma sempre si trova un fast food, anche nelle zone più rurali e marginali. Così facendo, Impossible Foods è riuscita a distribuire in tutto il Paese con un investimento minimo. Ancora, questo amplia la base della clientela ma aiuta anche a far conoscere il prodotto al di fuori dei centri urbani. Il che è un vantaggio, lo dimostra il grande numero di fast food nei piccoli centri rurali: quasi sempre in perdita economica, ma sempre presenti per far ‘conoscere’ il prodotto.

Anche i ristoranti veri e proprio hanno iniziato a servire tali prodotti, ma con poco successo. Benché il fenomeno sia ancora da comprendere e probabilmente la pandemia ha avuto il suo impatto, c’è un particolare che avrebbe determinato lo scarso successo di questi sostitutivi nei ristoranti veri e propri, ma ci arriveremo più avanti.

Benché sembri che queste aziende ‘innovative’ stiano provando a far crollare il mercato della carne, sono proprio le multinazionali della carne che hanno, per prime, spinto nella stessa direzione. Proprio Tyson Foods è stato uno dei primi investitori su Beyond Meats, producendo chicken nuggets vegetali. Una diversa strategia è stata invece adottata dell’azienda Smithfield Foods. Benché sia anche questa arrivata a produrre ‘carne a base vegetale’, inizialmente aveva introdotto nel mercato gli hamburgers con aggiunta di verdure, in modo da ridurre il contenuto di carne al 60%.

E secondo me sta proprio qui la chiave di volta che serva a capire come certi prodotti stiano acquisendo fette sempre più ampie di mercato.

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