Dietro il bancone: il mondo dei cocktail spiegato da vicino

Francesca Pappacena
Dietro il bancone il mondo dei cocktail spiegato da vicino

Dietro il bancone: il mondo dei cocktail spiegato da vicino

Quando ordini un cocktail e pensi di star scegliendo semplicemente una bevanda, in realtà stai vivendo una storia: quella legata alla sua creazione. In questo articolo andremo a esplorare miscela, colore, bicchiere, equilibrio tra sapori, consistenze, temperature e persino stati d’animo.

Come si bilancia un cocktail perfetto: dolce, acido, amaro e alcolico

 Un cocktail ben fatto è un gioco di bilanciamento: dolce, acido, amaro e alcolico devono dialogare. Se uno prevale, il drink perde armonia. Il dolce ammorbidisce, l’acido rinfresca, l’amaro dona profondità, l’alcol regala corpo e calore. È come comporre un accordo musicale: se una nota stona, lo senti subito. Per questo gli ingredienti sono tutti misurati. Né più né meno.

Le tecniche fondamentali per preparare un cocktail da bartender

 Dietro ogni bicchiere, ci sono diverse tecniche di base che ogni bartender impara subito. Eccone alcune, spiegate in modo semplice:

  • Build: si costruisce il drink direttamente nel bicchiere. È la tecnica usata quando gli ingredienti devono essere raffreddati e non diluiti. (No sciroppi, no albumi, no panna).
  • Muddle: consiste nel pestare ingredienti per liberare aromi freschi, note vegetali e fruttate. Il pestello diventa il pennello con cui il bartender dipinge il bouquet aromatico di questa tipologia di drink.
  • Shake: la più conosciuta. Serve a diluire, raffreddare e ossigenare i diversi ingredienti. Conferisce una texture più omogenea e fluida.
  • Stir and Strain: qui gli ingredienti si mescolano in un mixing glass (caraffa di vetro o acciaio) usando un bar spoon per mescolare e uno strainer per bloccare il ghiaccio ed eventuali residui prima di versare il tutto nel bicchiere. Si diluisce e si raffredda in modo controllato.
  • Throwing: antichissima tecnica in cui un liquido viene versato a cascata da un tin A ad un tin B. Il drink si raffredda in modo adeguato, perché nel tin A viene inserito anche il ghiaccio. Molto scenografica, usata spesso per il Bloody Mary.
  • Blender: qui gli ingredienti vengono inseriti in un frullatore professionale, capace di tritare ed emulsionare frutta e ghiaccio.

Il ghiaccio: lingrediente invisibile dei grandi cocktail

Il ghiaccio, acqua allo stato solido, è un ingrediente invisibile con una funzione molto importante: regola la diluizione e la temperatura. Troppo piccolo, si scioglie in fretta e annacqua; troppo pieno di impurità, altera il sapore del drink. È importante quanto gli altri ingredienti. Un bartender attento lo seleziona come uno chef selezionerebbe una spezia.

Il ghiaccio a filo bicchiere, il profumo di lime appena tagliato, il ritmo costante dello shaker che batte come un metronomo. Dietro il bancone, ogni gesto ha un senso, così come ogni ingrediente che lo compone. Per questo chiedere di togliere parte del ghiaccio non è sempre ben visto: tutto serve nelle giuste proporzioni. (Farò un approfondimento sul ghiaccio in uno dei prossimi articoli, perché merita di essere trattato da solo e in modo più esaustivo).

Cocktail e psicologia: perché scegliamo un drink e non un altro

Ho deciso di raccontarvi il mondo dei cocktail non dalle pagine di un manuale, ma dalle notti passate a studiare, provare, pestare e misurare per preparare l’esame finale al corso di Bartender. E dalle vigilie di Natale e Capodanno passate a servire drink infiniti, in un piccolo bar in centro città.

Quello che non si vede dietro ogni cocktail è la tecnica e la passione, le prove e lo studio, tutto questo per non dare al cliente un liquido colorato privo di senso e dimenticabile.

Il cocktail è psicologia liquida. La scelta di un drink non è mai casuale: dietro c’è un mix di emozioni, ricordi e simboli che guidano il gesto. La psicologia dei consumi lo conferma: siamo attratti dai colori (il rosso stimola energia e passione, il verde evoca freschezza e natura), dai nomi (alcuni suonano sofisticati, altri giocosi o trasgressivi), e dalle associazioni inconsce con esperienze passate.

C’è chi sceglie un cocktail per status: un Old Fashioned o un Manhattan ti fanno sentire elegante e sicuro. C’è chi invece lo fa per evasione: una Piña Colada ha il potere di trasportarti in vacanza anche in un martedì piovoso. Alcuni drink parlano di identità personale (“io sono quello che ordina sempre un Negroni”), altri di umore del momento: dolce quando cerchi conforto, secco e deciso quando vuoi sicurezza, fruttato e colorato quando desideri leggerezza.

Diversi studi sul marketing esperienziale mostrano come l’ambiente e la presentazione del drink influenzino la percezione: un cocktail servito in un bicchiere elegante e curato viene giudicato più buono rispetto allo stesso servito in modo anonimo. In altre parole, beviamo con gli occhi, ma anche con la mente.

Un Boulevardier o un French 75 ti fanno sentire sofisticato, un Pornstar Martini può crearti imbarazzo ma è troppo glamour per non ordinarlo, un Mai Tai ti porta in una spiaggia con le palme. Ognuno ha il suo momento, ognuno la sua spinta emotiva.

Il bar come luogo di storie, ascolto e convivialità

Il bar è un luogo di convivialità e socialità. Qui si ascoltano storie, si fanno piccole confessioni, si festeggia o si annega un pensiero. Si piange, si ride, ci si lascia, ci si incontra, si concludono affari e si rafforzano amicizie. In tutti questi intrecci di emozioni e vite, il bartender è metà artista e metà confidente.

E poi, c’è l’impatto estetico: il bicchiere giusto, la garnish curata, la luce e il bancone creano un’atmosfera che rende un drink indimenticabile ancora prima del primo sorso.

L’atmosfera giusta rende il bar ancora più accogliente e familiare, un luogo dove ritornare, in cui ci si sente a casa. Ogni aspetto, dal design al personale, contribuisce a fare di un bar un luogo di storie, di ascolto e di socialità.

Storia e origini del cocktail: dal 1806 alla cocktail renaissance

Il termine cocktail appare per la prima volta in stampa il 13 maggio 1806, in un giornale di Hudson (New York), The Balance and Columbian Repository, definito come “una bevanda stimolante composta da alcolici di qualsiasi tipo, zucchero, acqua e bitter”.

Nel XIX secolo, il cocktail passò da bevanda funzionale, usata per coprire il gusto di alcol grezzo o per scopi “medicinali”, a forma d’arte conviviale grazie a ingredienti più raffinati, tecniche curate e decorazioni ricercate.

Il Proibizionismo negli Stati Uniti (1920–1933) generò un paradosso: vietato l’uso di alcol, i cocktail si diffusero negli speakeasy, locali segreti in cui i bartender crearono miscele originali per mascherare l’alcol di scarsa qualità e ingannare gli occhi dei poliziotti.

A cavallo tra anni 2000 e 2010, esplose la “cocktail renaissance”: i professionisti recuperarono ricette classiche, rivisitandole con ingredienti freschi, tecniche artigianali e un’attenzione particolare alla presentazione.

Oggi i cocktail sono racconti liquidi: colori, garnish scenografiche, pairing con il cibo e cultura visiva. I social hanno trasformato la mixology, ovvero l’arte della preparazione dei cocktail, in un vero linguaggio globale, condivisibile e desiderabile.

La mia rubrica sul mondo dei drink: cosa aspettarsi

In questa rubrica vi porterò dietro le quinte del mondo dei drink: storie di distillati, tecniche, segreti e aneddoti da bancone. Il prossimo appuntamento sarà dedicato a uno dei distillati più amati e intramontabili: il gin. Vi racconterò come preparare un buon Gin Tonic a casa, quando siamo troppo pigri per uscire ma vogliamo concederci un aperitivo homemade.

La prossima volta che ordinerete un cocktail, ordinatelo al bancone. Ascoltate i consigli del bartender, il suono dello shaker, sentite il profumo che arriva prima ancora del sorso, osservate i dettagli nel bicchiere.

Perché dietro ogni drink c’è una mano che ha misurato, un orecchio che ha ascoltato, un occhio che ha scelto il colore giusto.

E voi? Avete un cocktail del cuore?

Scrivetemelo: potrei desiderare di farlo o farmelo servire, rigorosamente al bancone

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Mi chiamo Francesca Pappacena e racconto il cibo da dentro. Ho studiato psicologia, ho fatto l’impiegata in una fabbrica di pomodori, l’addetta stampa in un’agenzia romana, la commessa da Gucci, l’assistente alla poltrona da una ginecologa, la social media manager. In pratica, ho cambiato più ruoli di una posata in una cena di gala. Ma in ognuno ho sempre cercato la stessa cosa: capire come stanno davvero le cose. Ho scritto e fatto editing per BBQ4All, ho solo scritto per Gastronomica-Mente e Il Bugiardino, realtà diverse che mi hanno insegnato molto. Ho fondato “I Segreti di Stilla”, una linea di gin artigianali con tre etichette – Sei Nove, Nove Zero e Zero Sei – con tre caratteri diversi: balsamico, erbaceo e fruttato. Come le persone, ma più trasparenti. Mi occupo di cibo di qualità, diritti umani e cultura agricola. Sto anche dando vita a una realtà che racconti perché le tradizioni contadine non sono folclore, ma radici da difendere (e da viversi lentamente). Dietro la Pappa è il mio spazio di scrittura: un luogo dove racconto storie di cibo, vita vera e lavoro, servite senza fronzoli.
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