È VERAMENTE LA BRUCELLOSI IL PROBLEMA DELL’ALLEVAMENTO BUFALINO?

Il mondo della bufala è in rivolta, o meglio un manipolo di allevatori hanno alzato la testa e stanno provando a dire: ci siamo, vogliamo capire e non solo subire.

Motivo del contendere la brucellosi, la mattanza di 120.000 capi, la scoperta che solo poco più dell’1% era veramente infetto e che questa non può essere la chiave di lettura per il futuro. Alcuni allevatori hanno iniziato lo sciopero della fame e persino Report ha fatto un servizio anche se, come spesso fa, aumenta la confusione invece di chiarire i termini della questione. Di fronte ad una notizia del genere ti saresti aspettato un supporto concreto da parte di tutti gli allevatori, una riflessione pubblica del mondo scientifico e dell’Università, un je accuse da parte della stampa specializzata e più in generale dell’enogastronomia. Invece tutto tace e se provi a chiedere informazioni a qualcuno degli addetti ai lavori, le risposte sono di due tipi: non sono un veterinario e poi, la situazione è talmente ingarbugliata e ci sono talmente tanti interessi che è meglio non disturbare il can che dorme. La prima affermazione lascia il tempo che trova; cosa c’entrano i veterinari in tutto questo? La brucellosi è una zoonosi e, in quanto tale, è strettamente regolata da leggi severe. Quando dirigevo l’Istituto sperimentale per la zootecnia di Bella avemmo due casi di brucellosi a distanza di 15 anni. In due aziende allevavamo circa 500 capre e 500 pecore. Dopo il terremoto del 1980 ci regalarono un gruppo di Saanen francesi. Dopo un po’ scoppiò la brucellosi e ce ne accorgemmo perché un nostro collaboratore si ammalò. Subito l’azienda fu bloccata, si fecero le analisi, si eliminarono i soggetti infetti, il latte veniva pastorizzato e dopo due analisi negative l’azienda ritornò ad essere ufficialmente indenne. Quindici anni dopo comprammo dalla Calabria un gregge di capre nicastresi; nonostante il prelievo di sangue, la quarantena e altro prelievo di sangue, scoppia la brucellosi. Stesso iter: eliminazione delle capre infette e analisi fino a quando non si ritorna ufficialmente indenni. Quindi, la legge non dice che si chiude l’intera azienda, si macellano soltanto gli animali infetti. Perché nel caso delle bufale hanno preferito tolleranza zero? Qui non serve chiedere ad un veterinario chi è perché ha preso quella decisione drastica e non obbligatoria ma ad un giurista?. Non serve sapere chi ha voluto questo ma perché si è arrivati a questo punto. E non stiamo parlando di capre e pecore, di pastori, ma di un sistema produttivo fra i più ricchi, e di cui fanno parte famiglie di alto livello, benestanti e borghesi. Come è potuto succedere tutto questo?

E ancora. Tutti parlano di un regolamento comunitario che impone l’autocontrollo. Se stiamo parlando di un regolamento, non c’è discussione. I regolamenti si applicano e non si interpretano. Al massimo si avvia la procedura per una deroga, ma nel frattempo si applicano. Quando uscirono i regolamenti europei sull’igiene, agli inizi degli anni ’90, i francesi, preoccupati che i piccoli allevatori non fossero in grado di applicare subito questo regolamento, chiesero e ottennero una deroga, che dopo diventò legge.

Quindi, se è un diritto, se l’allevatore può e deve scegliere l’autocontrollo, quale è il tema del contendere? Non c’è.

Rimane l’altra risposta: lascia perdere, troppi interessi, ecc. Insomma, quello che si riesce a capire è che non c’è condivisione né dell’analisi e né delle possibili soluzioni. Provo a dire la mia, di chi, dal di fuori, osserva il mondo della bufala provando a cogliere pregi e difetti della strafamosa mozzarella di bufala.  La mozzarella di bufala è una DOP e, quindi, è frutto di un disciplinare di produzione. Sappiamo che la qualità di un formaggio e di qualsiasi prodotto trasformato dipende soprattutto dalla materia prima, nel nostro caso dal latte. In Francia tutti i disciplinari dei formaggi iniziano parlando di suolo, di coltivazione, di prati e poi di alimentazione e pongono limiti ai mangimi. In Italia i disciplinari iniziano con il latte che arriva in caseificio. E proseguono con inutili precisazioni sulla tecnica e sui dati tecnici da rispettare.  E il disciplinare della bufala non è da meno, non si parla di rapporto terra/capi, di rapporto foraggi/concentrati, di tutti quegli elementi cioè che determinano la qualità del latte. Non si parla di qualità dei fieni e quelli che si utilizzano nel settore bufalino, nella stragrande maggioranza dei casi, sono modesti, di qualità piuttosto bassa e con poche essenze foraggere. Però, mi direte, la mozzarella di bufala è famosa nel mondo e costa cara. Vero, ma le due cose non sono in relazione fra loro. Faccio l’esempio dei caprini francesi. Sono fatti benissimo, una tecnica straordinaria, come peraltro quella della mozzarella, ma il latte è il più industriale possibile, le capre producono più di una vacca nostrana. La differenza è che i francesi sanno che questi caprini hanno una qualità industriale alta, ma non organolettica. Noi invece vantiamo sempre la mozzarella di bufala, siamo famosi nel mondo, perché disturbare il manovratore. Certo, ci sono troppe bufale su un ettaro di terrà, l’azoto ci crea problemi, il latte è quello che è, i fieni sono inguardabili (certo non tutti), ma siamo famosi.

Anzi, forse la brucellosi crea un diversivo, distoglie l’attenzione da problemi più seri. E così siamo costretti a scendere in piazza per un diritto inalienabile mentre ignoriamo problemi a cui nel tempo saremo costretti a dare risposta.

O forse non tutti i guai vengono per nuocere. Chi ha avuto il coraggio e la larghezza di vedute di scendere in piazza è anche maturo per cogliere le grandi opportunità che la bufala può offrire

di Roberto Rubino

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