Grandi rossi del sud: Duca Enrico 1997 Duca di Salaparuta

Grandi rossi del sud: Duca Enrico 1997 Duca di Salaparuta

Che la Sicilia sia terra di grandi vini è indubbio, stanno a dimostrarlo i numerosi investimenti di grandi aziende anche del Nord nei vigneti siculi. Questa terra è tanto generosa che spesso basta soltanto piantarvi anche solo un bastone per poi vederlo perfino fiorire. Alcune varietà locali di uve bianche danno oggi vini di grande personalità, profumo e piacevolezza, con un carattere che si distingue non per la tradizione, ma per la modernità negli aromi e nel gusto da quando i vigneti non sono più lasciati a se stessi come in passato (quando si contava fin troppo sulla complicità del sole e della terra), da quando cioè sono maggiormente curati da fior d’agrotecnici, come è successo anche per le cantine, dove le nuove generazioni di enologi usano le tecnologie più adatte a produrre vini sani, delicati, beverini, dissetanti e rinfrescanti.

Le varietà locali rosse hanno invece sofferto di meno l’abitudine a lasciare che il vino si facesse da sé (nell’isola il biologico non è mai stato soltanto una gran bella parola, ma una realtà, anche oggi), perciò la fama dei rossi scuri siciliani ha sempre goduto di maggiori fortune fra le radici dell’enologia tradizionale. Usati un tempo in gran parte per produrre vini da taglio per tutta l’Europa, i grandi vitigni come perricone, frappato, nerello mascalese, pignatello e nero d’Avola hanno prodotto anche delle riserve eccezionali quando le loro uve migliori sono state sapientemente vinificate, in grado di incuriosire per le loro caratteristiche organolettiche anche i palati fini, più abituati agli eccezionali rossi piemontesi e toscani.

Se il salto di qualità, un vero capovolgimento di fronte per quanto riguarda bouquet, morbidezza e delicatezza, è stato più evidente quindi con i vini bianchi, con quelli rossi in Sicilia è in corso invece una più silenziosa ma continua ricerca di vinificazione che non ha davvero pari, volta ad affrancare queste stupende varietà sicule da un passato che è ancora dietro l’angolo, specialmente oggi che l’introduzione nei vigneti di vitigni alloctoni, ma glorificati dalle mode commerciali, pone i confronti sotto la spada di Damocle.

Tra tutte le varietà rosse, il Nero d’Avola è il vitigno siculo che negli ultimi decenni si è aperto una strada mano a mano più sicura verso elevati livelli di qualità, che ogni anno stupiscono in alcuni suoi vini eccezionali (e non soltanto di quelle cantine famose perché pluripremiate, ma con produzioni piuttosto limitate). Nel cuore stesso della Sicilia, dove gode delle migliori condizioni pedoclimatiche, questo ceppo produce così generosamente che può anche riempire le cisterne destinate agli imbottigliatori padani, dai più seri che ormai si contano sulle dita di una mano fino ai veri gaglioffi, quelli che purtroppo proliferano impuniti, tanto che si renderà pure necessario una buona volta un intervento legislativo che impedisca in tempo la squalificazione del vitigno, perché le migliori case vinicole siciliane puntano proprio su questa varietà per fare vini di alta classe.

Nell’enologia siciliana il pietismo non ha mai avuto posto e la volontà ferrea di emergere è sempre stata grande, infatti un’esemplare imprenditoria del vino (tra cui metto Abbazia Santa Anastasia, Cottanera, Donnafugata, Duca di Salaparuta, Elorina, Firriato, Planeta, Tasca d’Almerita in ordine rigorosamente alfabetico) ha spesso sottolineato con dei rossi da primato ogni conquista qualitativa, fatta senza scimmiottare mode altrui, senza accodarsi, anzi affermando a testa alta le proprie peculiarità isolane. In questo c’è una grande, orgogliosa autonomia culturale nonché un profondo, arcaico rispetto per la natura che non si aggiogano a qualsivoglia buon vento e riscattano perciò il territorio, comprese le sue uve che da tempo immemorabile accompagnano le tipiche feste della famiglia patriarcale con vini di assoluta pulizia e onestà.

Mi ha sempre affascinato questa Sicilia, che è tutta nelle tele della pittrice Alba Frasca da Pozzallo oltre che nella sua meritoria attività d’insegnante sempre accanto al marito (lui già in cielo con la prima barca), il maestro Raffaele Favara da Ispica, entrambi educatori di intere generazioni, a testa alta e con il respiro della Storia.

Sono fiero, oggi, che siano stati finalmente rivalutati gli anni bui, quelli della sofferenza e dell’isolamento e che tutti, adesso, benedicano la Sicilia come l’avvenire del vino italiano. Ma va detto che i figli, attualmente al timone di aziende che sono nel gotha mondiale dei vini, possono gestire senza patemi d’animo questo patrimonio grazie alle cure del terreno e dei vigneti che hanno rotto di fatica la schiena dei padri e dei nonni. I quali non hanno mai cercato facili glorie né ricevuto premio alcuno e si sono guadagnati la strada credendo fino in fondo nei vitigni locali in perfetta solitudine, prendendosi anche dei pesci in faccia, mentre in altre regioni si inseguivano chimere francesi e californiane, fra gli applausi dei parvenu.

Da uve Nero d’Avola, la Duca di Salaparuta ha prodotto vini dai percorsi in vigna ed in cantina ben differenziati, come il Duca Enrico, il Bennoto Eloro in barriques d’Allier e il Triskelé con aggiunte di cabernet sauvignon e merlot, introducendo certi legni con accortezza ed affinando le tecnologie più adatte per riuscire a farne dei grandi vini, mantenendo però i piedi ben saldi per terra e maturando quindi esperienze senza voler strafare. Con il Nero d’Avola, infatti, si potrebbe invece fare più in fretta a ottenere dei facili consensi dalla claque, maltrattandone i mosti in modo tale da ottenerne caratteristiche glorificate a Londra e Berlino, gli immancabili aromi di vaniglia, tabacco, cacao, il gusto un po’ legnoso, il tutto ben arrotondato con lieviti acquistati ad arte.

Non è questa la filosofia del Duca Enrico, che dimostra ben altra personalità, frutto di esaltazione del fattore vigneto, del territorio, della sua cultura e della sua gente. Degustato fra i Baroli, si sente che è abituato a ben altri lidi, rocce da spaccare, sabbia e sale nel vento, ma anche cavallette, accecato dal sole non ha le scarpe adatte per quel nordico mondo austero e principesco dove i profumi di ben altre e rigogliose vegetazioni fanno gare di nobiltà e persistenza e i sapori maturano nel silenzio di invecchiamenti da capogiro.

Questo è un vino siculo verace e come tutti i siciliani non ha paura di camminare scalzo sui sassi, nuota anche dove non c’è l’acqua, caparbio e tenace fa i passi uno alla volta e per ingannare non tira mai dritto, quel che di bizantino, di arabo e di normanno ha ancora nel sangue lo spende più con flemma che con parsimonia e cresce con santa pazienza, come i muretti a secco.

Prodotto per la prima volta nel 1984, il Duca Enrico è uno dei vini simbolo dell’enologia italiana e internazionale. È stato, infatti, il primo Nero d’Avola in purezza nella storia dei vini siciliani ed è quindi considerato il capostipite di tutta la serie di Nero d’Avola che, grazie al suo esempio, sono stati imbottigliati da un numero crescente di cantine e hanno perfino creato in pochi anni una moda fra i giovani nei wine-bar più moderni di tutta la penisola che dura ancora oggi. Questo nobile vino rosso, che nasce solo da alcune selezionatissime vigne, ha un fascino aristocratico e dallo stile inconfondibile.

Il Duca Enrico è ottenuto da uve Nero d’Avola al 100% selezionate e raccolte manualmente da manodopera qualificata nei più tradizionali vigneti della Sicilia centro-meridionale (nel ”triangolo dei rossi”), quelli della Tenuta di Suor Marchesa a Riesi, con i suoi terreni calcareo-silicei e argillosi tra i 260 e i 350 metri s.l.m. che sono più poveri e meno esuberanti di quelli lavici nei dintorni del Mongibello che forniscono ben altre doti organolettiche alle stesse uve.

Sono vigneti ancora coltivati ad alberello, con densità tra 5.000 piante per ettaro e rese d’uva molto basse, circa 1,2 kg per ceppo e da 40 a 45 ettolitri per ettaro. La cernita dei grappoli e le caratteristiche delle uve, vendemmiate anche in ginocchio tra fine settembre e metà ottobre, sono la condizione indispensabile per la scelta di produrre questo vino, che non viene prodotto nelle annate meno soddisfacenti.

Dopo la diraspopigiatura, il mosto macera tra 28 e 30 °C per 8 – 10 giorni, completando la malolattica intorno a metà novembre, seguono 18 mesi di maturazione in fusti di rovere francese di Allier e Tronçais dalla tostatura media, quindi l’imbottigliamento e un periodo di altri 18 mesi di affinamento in cantine a temperatura controllata.

Il colore è rosso amaranto scuro, con riflessi granati, molto consistente. Il profumo è complesso, fruttato e speziato, a partire dall’iris e dalla mora si sviluppano note intense di mirtillo, radice di liquirizia e caffè. Il sapore è fresco al palato, abbastanza tannico ma gradevole, evidenzia la corposità e la grande struttura del vino, che evolveranno ancora in morbidezza e rotondità, di ottima persistenza olfattiva. Tenore alcoolico dal 13,5 al 14,5 % in base all’annata, è un vino che sa d’antico, ha stile, è longevo e accompagna bene gli arrosti di carne di vitello, maiale e capretto, le grigliate di carni rosse, ma anche la selvaggina arrosto e in umido ed i formaggi di buona stagionatura, servito a temperature tra 18 e 20°C.

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