I quadri-trappola (veri, falsi o presunti!) e la Food Art

I quadri-trappola (veri, falsi o presunti!) e la Food Art

I quadri-trappola (veri, falsi o presunti!) e la Food Art

Si parla tanto di banane evergreen attaccate alle pareti dal dubbio valore d’uso – non se ne comprende, infatti, in che modo possa evocare sentimenti ed arricchire l’esistenza di chi le osserva o le possiede – e dal formidabile valore economico, ma si dimentica che il “fenomeno” non è affatto nuovo e, probabilmente, per nulla originale.

Più che di gola, oggi scriveremo di testa e scriveremo non di cibo pensato ma di cibo già gustato e digerito, in nome delle quelle “prospettive altre” con le quali amava “giocare” sin dagli anni ’60 Daniel Spoerri, uno degli esponenti del Nouveau Realisme e ideatore della Eat Art.

Cos’è la Eat Art?

E come appena anticipato,  una corrente artistica nata nel 1960, che unisce arte e “eat”, una particolare idea di cibo, alla scopo, innanzitutto, di stupire, “suscitare scomodità” e, dopo aver compiuto ciò, far riflettere sul consumismo e sull’effimero dei prodotti culturali e dell’arte stessa.

Proprio a proposito del suo rapporto con le sue creazioni, l’ideatore dell’Eat Art, Daniel Spoerri, da poco deceduto e  che, per tale motivo, questo articolo vuole ricordare, era solito  affermare che non erano una forma d’arte ma ”una sorta d’informazione, di provocazione, dirigono lo sguardo verso delle regioni alle quali generalmente non si presta attenzione, questo è tutto”.

Ma in cosa consiste questa scomodità, questa provocazione?

La risposta a tale quesito sono i famosi Tableaux Pièges, ovvero i quadri-trappola che il ballerino, coreografo, pittore e proprietario a Parigi del ristorante Spoerri, dove serviva i piatti che lui stesso cucinava, amava assemblare con grande meticolosità.

Erano delle grandi tavole di legno appese sulle pareti in cui era solito incollare le tovaglie, i piatti, i bicchieri, i tovaglioli macchiati, persino le briciole, così come si trovavano dopo che un gruppo di persone avevano consumato un pranzo o una cena.

Lo scopo di Spoerri era eternare i frammenti di una quotidianità ritenuta lapalissiana e di scarso valore – proprio per tornare  alla concezione dell’antropologo Clyde Kluckhohn per il quale i valori sono “i criteri con cui le persone giudicano quali desideri considerano legittimi e validi e quali no” – e, per enfatizzarli, cambia il piano di osservazione di queste “ovvietà”.

Le tavole apparecchiate non sono più osservate da commensali, ovvero abbassando lo sguardo stando in piedi o seduti ma ponendole di fronte a chi guarda, dando loro nuove prospettive e rivoluzionando i punti di vista, inducendo così una riflessione tra il serio e il faceto sull’effimero e la transitorietà ma anche sulla cultura del pasto e dei pasti, che cambiano da individuo a individuo e da cultura a cultura.

Questi oggetti non sparecchiati e decontestualizzati assumono una proprio forma identitaria, insomma.

Ma contemplare bicchieri sporchi di vino o piatti sporchi di sugo potrebbe essere un vero supplizio per una persona affamata o che ama molto che la vista del cibo solletichi il palato e la gola, prima che la sua mano intinga nel piatto un bel cucchiaio pulito da sporcare allo scopo non di riflettere ma di soddisfare il suo bisogno primario di mangiare.

Ed è così che dalla Eat Art per il cibo già cucinato, masticato e ampiamente digerito è stata ideata da Food Art,  l’arte di preparare, cucinare e presentare e il cibo nei modi più creativi e “artistici” usando forme e colori degli alimenti, sia crudi sia cotti, per creare con opportuni accostamenti e sovrapposizioni delle raffigurazioni di oggetti d’uso comune, animali, pupazzi, persino paesaggi.

È questo un cibo presentato per stupire un po’ come voleva Daniel Spoerri, ma anche stimolare l’immaginazione e invogliarne maggiormente il consumo soprattutto perché, scomodando La Rochefoucald, “mangiare è una necessità, ma cucinare è un’arte.”

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