I vini del Sol Levante

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Come avevo già scritto in un precedente articolo, in cui parlavo dei vini prodotti in Kazachistan, in Kirghizistan, in Uzbekistan, ma soprattutto in Cina, l’Est di oggi, ormai lo sanno tutti, sta facendo la parte del leone sui mercati internazionali del vino.

Anche ai piedi del Fuji-san (detto anche Fuji-yama), cioè in Giappone, la produzione di vino ha una storia piuttosto recente, visto che i vitigni nella terra del Sol Levante furono importati sì dalla Cina pare nell’VIII secolo d.C. grazie ai monaci buddisti, ma vennero in pratica coltivati solo per fare uva da tavola in particolare a sud-ovest di Tokio, nella regione Yamanashi. In questo paesaggio dominato dal cono imbiancato del Fuji-san il clima è quello meno ostile alla coltivazione della vite in questo arcipelago di grandi isole dalla pioggia fin troppo facile e dai suoli particolarmente ricchi e quindi generosi con altre piante e fiori.

La viticoltura nipponica

È sempre stata praticamente limitata a qualche giardino, ma riscuote sempre più attenzioni, tanto che il vitigno autoctono bianco Koshu, appartenente alle specie della vitis vinifera e con molta probabilità di origine caucasica, cominciò a essere menzionato perfino in alcuni documenti del 1186. L’enologia nipponica, però, ha una storia recente perché risale all’epoca Edo (quella che corrisponde alla belle époque europea) e cioè alla fine del XIX secolo. I primi esperimenti per produrre vino furono condotti, ma con insuccesso, già dal 1870. Soltanto dopo i primi contatti diretti con gli châteaux e i domaines francesi sono nate vere e proprie vigne con vere e proprie cantine di un certo successo.

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Nel 1890 si evidenzia il buon lavoro fra quei pionieri di Zenbe Kawakami, l’uomo che è considerato il padre dell’enologia nipponica. A Iwanohara creò una propria vigna piantumata a Koshu e destinata esclusivamente a produrre vino nella propria cantina. Un uomo geniale, che si serviva di neve e ghiaccio per regolare la temperatura dei tini durante la fermentazione, un metodo allora originalissimo. E’ vero che sul vicino Fuji-san neve e ghiaccio non mancano mai, ma lui ne manteneva una scorta per tutto l’anno nei meandri più profondi dei suoi cunicoli scolpiti nella roccia viva.

Fino alla fine della seconda guerra mondiale

il vino locale era prodotto però da qualcosa di ibrido, cioè da un vino prodotto dalla ”vitis coignetiae” (yama-budo in giapponese), una vite selvatica che resisteva ai rigidissimi inverni locali importato a cui si aggiungeva a volte anche il miele e un vino importato. Era però consumato soltanto dall’esercito, mentre la popolazione trovava in commercio soltanto birra oppure il sakè, che è fatto dal riso. Anche in seguito il vino d’uva era praticamente uno sconosciuto fuori dalle caserme e inoltre bastava un’aggiunta del 5% per definirlo ”giapponese”. Con l’avvento delle nuove tecniche importate dall’occidente e grazie all’inserimento dei vitigni europei, le prime aziende enologiche di un certo spessore sono iniziate a sorgere nel 1960. Non c’era però nient’altro di ammesso al commercio perché soltanto nel 1970, con l’Expo di Osaka, il Giappone ha permesso lo sdoganamento e il commercio di vini e alcolici stranieri sul proprio suolo.

Ma il vino era ancora un illustre sconosciuto al pubblico giapponese perché era un fenomeno abbastanza nuovo, infatti era accessibile più nelle profumerie e nei negozi dietetici che non in quelli alimentari. Si era fatto però nel frattempo la fama di componente della dieta mediterranea e del paradosso francese e veniva comprato soprattutto per la cura dell’aspetto e della salute, anche se come un optional se non un simbolo del proprio stato sociale da mostrare agli amici e agli estranei.

È stata dunque la Francia

a conquistarsi subito la maggior fetta di mercato con le bottiglie di Bordeaux che stavano accanto ai barattoli dei cosmetici come se facessero parte della stessa… terapia. Comprare il vino rosso era diventato anche un bel pretesto da parte dei benestanti per mangiare la carne bovina, un abbinamento classico fra due alimenti entrambi di lusso, visto che il costo della produzione della carne in Giappone è altissimo. Pensate che le poche vacche locali hanno diritto al bagno quotidiano e ai massaggi di massofisioterapisti specializzati!

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La dieta quotidiana della popolazione è normalmente a base di pesce e frutti di mare e per vedere le donne comprare Chardonnay invece che saké o birra ci sono volute un bel po’ di pagine ad hoc sulle riviste femminili, dove si associavano gli antiossidanti del vino bianco al rallentamento dello sviluppo di certi batteri. Perciò in Giappone si vendono molto più facilmente quelle bottiglie con le etichette che mostrano delle belle riproduzioni di fiori, uccelli, disegni di donne con cappellini e vestiti secondo le mode occidentali oppure della torre Eiffel. Gaja, tanto per fare un esempio tra i nostri migliori, laggiù non farebbe furore, ma soltanto per via dell’etichetta, che è piuttosto nuda, come piace a me. Le etichette italiane come le sue, più serie, infatti, sono al secondo posto fra le preferenze.

È una cosa davvero difficile per un europeo capire come mai i giapponesi preferiscono la scritta château a quella di domaine

oppure basta un lieve difetto estetico nella capsula e nell’etichetta per vederli rifiutare una bottiglia di grande annata di un eccellente produttore a vantaggio di un’altra davvero peggiore, ma con la confezione perfetta, attraente. D’altronde in un Paese abituato a considerare più importante il pacchetto del contenuto, dove la pedanteria è anche una filosofia di vita, cos’altro aaspettarsi? Oggi la situazione è diversa, perché a partire dagli anni ’90 del secolo scorso a Tokio sono comparsi i wine bar e i giovani per distinguersi dalle altre generazioni ne hanno fatto subito il loro luogo di ritrovo preferito. Aggiungerei che c’è una grande diversità però con quelli occidentali.

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Giovani e spensierati, giovani e alternativi, giovani e ribelli, può anche star bene. Ma soltanto finché si parla di un calice o due e c’è il cameriere che è li apposta per servirli. Quando invece si parla già di una bottiglia fra amici o di qualcosa da sgranocchiare insieme e in gruppo c’è una ragazza o una donna, ecco che anche fra quei giovani prevale l’antica usanza locale della donna che distribuisce il cibo e che versa il vino. E comunque un calice lo si deve versare uno all’altro e mai versarselo da soli, cosa che sarebbe interpretata come segno di una maleducazione irritante e imperdonabile.

Meglio dunque stare alle regole

ma è certo che intanto il vino si sta profondamente radicando nella cultura nipponica contemporanea, soprattutto fra le donne e i giovani e grazie alle donne e ai giovani, un fenomeno che è testimoniato dal grande successo di due manga, cioè di due serie di fumetti in ciascuna delle quali l’eroe principale (in “Gocce d’oro” si tratta di Kosaku Shima, mentre in “Sommelier” si tratta di Joe Satake) è un uomo bello, di successo e la sua conoscenza dei migliori vini del mondo è diventata una componente fondamentale del suo fascino indiscutibile. Perciò il mercato giapponese sta diventando uno dei più importanti per i produttori di tutto il mondo, ma sta cambiando anche la produzione locale, che si sta avviando sulla strada giusta nonostante che si possa definire soltanto allo stato adolescenziale.

I vigneti giapponesi comprendono già oltre 18.000 ettari nelle due grandi isole di Hokkaido e Honshu, e principalmente nelle regioni Yamanashi, Kanagawa e Nagano che producono in totale quasi 1 milione di ettolitri di vino. Le aziende più famose sono Alps Wine, Camel Winery, Chuo Budoshu, Haramo Wine, Orient Wine, Lumiere, Marquis Winery, Mercian, Rubaiyat Wine, Sadoya, Soryu Winery, Suntory Wine International, Tomi No Oka Winery, Yamanashi Wine, Yamato Wine, Yamazaki Winery e… perfino la stazione ferroviaria di Shiojiri, l’unica al mondo che coltiva uva da vino delle varietà Merlot e Niagara e se ne fanno i vini fin dal 1988.

Di recente le regioni hanno introdotto il Gensanchi Hyoji, un marchio per indicare i vini ottenuti da sole uve giapponesi e solo di determinate zone, un concetto simile alle nostre DOC o alle AVA americane.

Il sistema di denominazione nazionale è ancora piuttosto generico e vago

Fino al 2015 si etichettava il vino come ”made in Japan” purché fosse fermentato sul territorio nazionale e comprendeva sia il vino fatto con uve coltivate in Giappone che quello prodotto con succhi e mosti concentrati di importazione. Dal 2015 la legislazione è cambiata. Ora sono previste due denominazioni:

  • Vino Nazionale (国産ワイン che si pronuncia kokusanwain): vino prodotto in territorio giapponese anche con materia prima (uva, succo, mosto) di importazione. Si trovano anche Merlot, Chardonnay oppure vini da incroci di questo tipo di vitigni con il koshu, per esempio il kaï blanc (koshu x pinot blanc) e il kaï noir (koshu x cabernet sauvignon) stanno già conquistando una grande popolarità. Si mostrano adattati bene anche i vitigni müller-thurgau, riesling, gewürztraminer, muscat bailey e cabernet sauvignon.

 

  • Vino Giapponese (日本ワイン che si pronuncia nihonwain): vino prodotto in territorio giapponese esclusivamente con uve coltivate in Giappone.

Denominazioni regionali ancora non esistono

Considerato il crescente successo, le province e le associazioni di produttori si stanno però organizzando per stabilire alcune aree di interesse vitivinicolo con la prospettiva di creare zone a denominazione tutelata sul modello europeo. Due parole sul koshu, un vitigno bianco di tipo aromatico con le uve dalla buccia di colore chiaro e leggermente rosato. Ne derivano vini freschi, molto fini e di corpo leggero, deboli nel tenore alcolico, stile Mosella, anche se non ne hanno ancora l’armonia, la ricchezza e la rotondità. Comunque niente legno e niente forzature da garage, quindi sono vini particolarmente adatti alle cucine orientali e alle ricette molto semplici.

Sebbene autoctona del Giappone, l’uva koshu appartiene alla specie di vite europea vitis vinifera, discendente in linea diretta dalle uve provenienti dal Cuacaso, il luogo di nascita della viticoltura dell’antichità. Si pensa che fino al periodo Edo (1603-1868), fosse l’unico vitigno coltivato in Giappone. Le uve koshu sono tradizionalmente coltivate con il metodo della pergola, noto localmente come tanashiki. Si stanno anche sperimentando sistemi di allevamento a spalliera, anche se queste trovano attualmente maggior impiego nella coltivazione delle uve internazionali. Un altro vitigno autoctono giapponese è il muscat bailey-a. In questo caso si tratta di un vitigno a bacca nera, ibrido tra vitis vinifera e vitis labrusca delle varietà bailey x muscat hamburg, sviluppato negli anni ’20 del secolo scorso nel tentativo di ottenere un’uva resistente al clima del Giappone sempre umido e veramente gelido d’inverno.

La pluviometria del Giappone è molto alta e il clima è sferzato dalle correnti fredde siberiane che lo rendono  molto diverso rispetto alla Toscana o alla Provenza, nonostante la similitudine in termini di latitudine. La mineralità dei suoli, per lo più vulcanici, è invece un fattore positivo, mentre l’eccessiva fertilità degli stessi e la loro elevata acidità, oltre alla già accennata abbondanza nelle precipitazioni sono fattori negativi. Anche per questo il Giappone è ormai diventato, assieme alla Gran Bretagna, una delle ultime frontiere della spumantizzazione.

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