Il cardone beneventano

Cardone

Per la solita parata natalizia, tutto cominciava oramai a delinearsi. Dal menu all’organizzazione delle fuoriuscite religiose (messe, processioni e atrocità del genere), mia madre aveva stilato, come ogni anno, tutto il suo calendario dell’avvento che poi si concentrava in pochi giorni che erano quelli vicini alla festa principale. Erano oramai circa 25 anni che si facevano sempre le stesse cose. Da quando mia nonna andò via in cielo, lei si era organizzata e ne aveva preso l’eredità morale dell’organizzazione festiva di quei giorni avendo immediatamente individuato come decorticare gli scroti di noi partecipanti, limitandosi, per fortuna, solo a noi figli e relativi nipoti.

Già da qualche settimana prima si partiva con la preparazione del cardone (cardo o gobbo come noto altrove). Il cardone è l’ingrediente principale per preparare la pietanza regina del giorno di Natale, ma nella contrada dove avevo vissuto la mia fanciullezza con mio nonno poco incline a mangiare verdura, questo piatto veniva consumato il giorno di Santo Stefano. Chiaro il messaggio sibillino lanciato: prima riempiamoci di tutte le cose “normali” come teglie di lasagne, maccheroni, agnelli, patate al forno, ecc., poi pensiamo a sciacquare la “botte” (in questo caso lo stomaco) con il cardone che veniva servito a pezzi, in un brodo di pollo o cappone dove galleggiavano pezzi del volatile, polpettine di vitello, uova strapazzate, ecc. Tutto questo in un sol piatto che al giorno d’oggi farebbe impallidire chiunque per la sostanza calorica e nutritiva in esso contenuta, ma allora, gli uomini non lavoravano dietro una scrivania, ma direttamente nella terra e questo piatto era per “tenersi leggeri” e riprendere il giusto ritmo dopo l’abboffata del giorno di Natale.

Pertanto, l’assenza della nonna e la relativa “promozione” del piatto dal giorno di Santo Stefano a quello natalizio, avevano riportato nei corretti binari della tradizione beneventana la zuppa col cardone.

Mio padre comincia la coltivazione della preziosa pianta in autunno e cura anche la tecnica dell’”imbianchimento” ovvero la crescita in assenza di luce. Il cardo, conosciuto anche come “gobbo” assume questa forma perchè per l’imbianchimento la pianta viene ripiegata in modo da seppellirla in buche laterali rispetto a dove è piantata, ricoprendola poi di terra per evitare che venga inondata dalla luce. L’imbianchimento serve a rendere il gusto del cardo delicato e gradevole e la consistenza più tenera; se infatti acquistate i cardi più verdi, il loro sapore risulterà più aspro e dalla consistenza fibrosa. Mio padre lo copre così bene che, in questi ultimi tempi, essendo la sua memoria un attimino sfibrata (per dirla come per il cardone), ha enormi difficoltà a recuperarlo. Infatti al momento di coglierlo, organizza delle vere e proprie caccie al tesoro facendosi coadiuvare dalla moglie (da noi figli sa che non deve venire!), da parenti vicini e lontani, cani, gatti e qualche biscia del circondario. Un anno ricordo che anche dei nani da giardino parteciparono, visibilmente contrariati in quanto poco interessati al cardone. Mio padre, però, appellandosi a leggi sindacali e a regi decreti, seppe emozionarli e convincerli ad unirsi alla “piccola impresa meridionale”, promettendo loro la libertà dopo la fine ed il rientro in giardino. Infatti da allora non li ho più visti ed ho così sempre creduto che l’organizzazione per la liberazione dei nani da giardino era una delle più potenti lobby da me mai conosciute fino ad allora.

Cardone

La spedizione punitiva può cosi avere inizio con mio padre vestito come un novello Indiana Jones che guida questa piccola troupe alla scoperta del cardone perduto. A loro si unisce all’ultimo istante anche il piccolo Grunf, un simpatico suide che ha scampato più volte la fine dei suoi simili, proprio per la sua empatia con gli esseri umani, soprattutto quelli di piccola taglia. Un vorace scavatore come lui è l’asso nella manica di mio padre che a questo punto, vedendolo trotterellare verso l’allegra brigata, capisce di aver già vinto. Non mette in conto che Grunf è anche un grazioso animaletto da compagnia e giocherellone e la sua prima attenzione, una volta entrato nell’orto del mistero, cade su una talpa che si nasconde velocemente alla sua vista (vista ora….non esageriamo…se si dice “cieco come una talpa”, ci dovrà essere un motivo, no?)

Oramai tutto è pronto per l’avventura e entrati nel piccolo orto, con mio padre in testa al disperato e articolato drappello di volontari che sciorina comandi a destra e a manca, ci si dispone per la ricerca del sacro Caardon. L’esplorazione parte sotto i peggiori auspici però, infatti al secondo solco, mio zio, partecipante d’obbligo alla ricerca in quanto costretto da mio padre, frana col piede sulla montagnola di terra e precipita “longo” su una piantagione di verze scatenando l’ira funesta del pelide Vincenzo (mio padre) che con un balzo felino, degno della tigre di Mompracem gli si avvinghia, come l’edera di Nilla Pizzi al collo e cerca di finirlo sulle verze, oramai andate, immaginando anche che il cognato, possa fungere anche da buon concime, una volta finito il lavoro che sta facendo e fatto sparire il cadavere sotto la piantagione.

Risolto il problema “zio”, ritorna in testa al piccolo plotone e ricomincia la battuta di caccia al cardone. Ma le cattive notizie non sono ancora finite purtroppo per lui e così in un momento di silenzio del gruppo, ode un misterioso brusìo provenire dalla fine del capannello e, con fare indagatorio, si ferma e voltandosi dietro, ripercorre la fila di questa armata Brancaleone verso la fine dove, con insospettabile disinvoltura, Grunf, terminata la guerriglia di trincea con la talpa, sta simpaticamente divorando il piccolo angolo di granturco, mordendo la base della pianta, così da farla cadere e saltellando allegramente lungo il fusto oramai disteso sulla terra, fa scempio delle pannocchie ripulendole per bene dei suoi frutti. Mio padre, alla vista del suinetto che gli sta rovinando il raccolto del mais, cereale da noi familiari poco usato se non per qualche pannocchia arrostita o bollita, gli si avventa contro, immaginandolo, credo, già porchettato o direttamente in teglia, pronto per il forno con il classico limone in bocca. Stavolta il volo della tigre indonesiana, non ha il successo sperato e non riesce a bissare l’esperienza precedente con il cognato. Infatti il volo d’angelo di mio padre, rovina su uno dei fusti abbattuti dal tenero e roseo animale, che per la fretta di divorarne i frutti, Grunf non aveva completato perfettamente il suo lavoro di abbattimento e quindi s’era fiondato immediatamente sulla pannocchia che era in alto.

Pertanto, il fusto non avendo perso la sua elasticità e privato del peso dell’animale scappato via quando s’accorge del padrone che lo pensava già servito in tavola, ritorna con un movimento odulatorio nella sua posizione originale, ad una velocità pari a quella di Sebastian Vettel al 47^ giro a Silverstone nella curva Stowe del Gran Premio di Gran Bretagna 2018 andando a scontrarsi con il viso di mio padre che intanto cercava di afferrare il già croccante (per lui) animale e procurandogli un ematoma lungo la faccia che lo fa rassomigliare vagamente all’indimenticabile David Bowie truccato ed immortalato sulla copertina del long playing Aladdin Sane con un’appariscente saetta sul viso. La vistosa scudisciata di origine vegetale però, lo fa desistere dall’inseguimento del piccolo quadrupede che guadagna agevolmente la porticina del recinto dell’orto lasciata inopinatamente aperta e si dilegua nei campi attigui l’orto di mio padre.

Cardone

Ritornato in sé e ferito profondamente più dal non essere riuscito ad acchiappare Grunf che dal dolore della frustata della pianta, mio padre torna a guidare l’oramai decimata brigata, che, ferma a godersi lo spettacolo, non s’accorge, quando si sono sistemati gli uni di fianco agli altri per poter guardare l’improvvisato teatrino uomo vs. animale, ha calpestato il piccolo appezzamento dove mio padre aveva coltivato il prezzemolo, facendone scempio con le loro orme. E partono, così, i soliti bestemmioni articolati che condiscono l’aria plumbea di un pomeriggio di metà dicembre, ma tanto apprezzati dai vicini che popolano le varie finestre e balconi delle loro abitazioni, per poter osservare il pittoresco affresco vivente che si materializza sotto i loro occhi.

Finito il corollario di imprecazioni, il generale Vincenzo, ripreso il comando, ordina ai suoi proseliti di aguzzare la vista onde percepire il minimo dettaglio che possa, finalmente, inquadrare l’obiettivo finale: il famigerato cardone!

Piegandosi in avanti con la schiena curva come se dovesse effettuare un altro balzo o come dovesse nascondersi da un non meglio identificato nemico, il generale scruta attentamente l’orizzonte, spostando lo sguardo da destra a manca e portando la mano a cucchiaietto in fronte per difendersi da un sole che manca da giorni sulla zona.

Ad un certo punto il generale Custer sparisce alla vista dei suoi commilitoni, che preoccupati si voltano da tutti i lati senza più vederlo. Il primo della fila, dietro del comandante. avanzando per poter meglio esaminare il campo coltivato che gli è davanti, sparisce anch’egli alla vista del secondo e dopo un passo, anche quest’ultimo svanisce allo sguardo del terzo, che preoccupato, si ferma improvvisamente cercando di limitare le sparizioni, ma non calcola che la breve distanza tra loro, non permette di arrestare il passo del quarto che lo spinge verso il baratro che ha davanti dove sono nell’ordine mio padre che fa da scendiletto disteso a gambe e braccia aperte con un quattro di spade delle carte da gioco napoletane della Modiano e gli altri tre uno sopra all’altro, ammassati come un vecchio gioco dell’infanzia denominato “1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 8 scarica ‘a botta” quando, appunto, una delle due squadre dello stesso numero di partecipanti, veniva sorteggiata per essere messe a cavallina e in fila e l’altra squadra, ogni partecipante presa la rincorsa, saltavano a turno, sopra di loro fino all’ultimo saltatore, che iniziando il conteggio fino a 8 ed enunciando la famosa frase “scarica a bott’”, ne decretava, in caso di resistenza senza crolli della squadra a cavallina, la loro vincita. Nell’orto di mio padre, invece, la “squadra” che era “sotto” era già semi-distrutta al quarto componente (mio padre compreso) e quindi aveva già perso la gara.

Il pover’uomo, aiutato a mettersi in piedi, comincia il rosario di bestemmie avendocela con qualcosa che lo aveva fatto cadere e mentre, per la rabbia, sta per colpire l’oggetto causa della sua caduta, ferma la rincorsa della gamba in quanto s’accorge che ciò che aveva determinato il ruzzolone era una delle piante del famoso cardone di cui oramai temeva di averne perso le tracce!!!!

Rinfrancato da questa scoperta e da un insperato vigore che lo avvolge tutto, il prode comandante, si rimette velocemente in sesto e accertatosi del ritrovamento dell’intera piantagione di cardoni (saran state tre o quattro piante) e non di un solo sporadico ortaggio, liquida frettolosamente l’allegra compagnia, i cui partecipanti stavano ancora rallegrandosi tra loro ma che ora che è stata trovata la coltivazione, anche e soprattutto per merito suo, con non tanto malcelato cinismo, il loro capo, li allontana dal campo.

L’intervento di mia madre a questo punto ha del provvidenziale in quanto avvicinandosi, li ringrazia per l’avventura, promettendo loro l’assaggio della prelibata pietanza e si avvicina al marito che sta ancora di spalle all’ingresso, con l’occhio vigile sui cardoni e con le braccia aperte verosimilmente ad un novello Yuppi Du di Adriano Celentano in strenua difesa del solco coltivato. Non accorgendosi della coniuge e senza girarsi, cerca di coprire la vista dei cardoni piantati, di colei che pensava fosse una nemica e comincia una sorta di danza sia da un lato che dall’altro come gli zombi che ballano nel video di Thriller di Michael Jackson, fin quando mia madre fermandosi ad osservarlo mentre le consuma davanti questa pantomima, gli urla alle spalle di togliersi davanti e di andare a ballare più in là dove son piantati i broccoli di Natale che magari vedendo le doti ballerine del loro padrone, si tiran su, visto che quest’anno non ne vogliono sapere. Spaventato dall’urlo che mia madre gli lancia dietro, si gira e si fa di lato, così da permetterle di effettuare il taglio alla base del cardone, scoprirlo della terra in cui era stato avvolto, portarlo dentro per poterlo lavorare e prepararlo per cucinarlo.

Mia madre, profonda conoscitrice della pianta, elimina le coste più esterne e coriacee, conservando quelle interne più tenere. Dopo averlo lavato e pulito ancora da altri filamenti che possono presentarsi (magari vi aiutate con un pelapatate), le coste vengono tagliate in pezzi grossolani e messi a mollo in acqua fredda con del succo di limone che serve per non farle annerire. Dopo averle scolate si mettono a lessare stando attenti a non farle cuocere troppo e lasciandole raffreddare da parte. Lei di solito ne prepara un chilo per sei persone.

Il brodo di pollo, circa due litri e mezzo, che avrete preparato magari il giorno prima composto, oltre che dal brodo, anche da carne di pollo sfilacciata al suo interno (400 gr.), viene arricchito da polpettine piccole che verranno assemblate con carne di vitello tritato per circa 250 gr, un uovo, 20 gr. di pane raffermo, 10 gr di parmigiano grattugiato, del sale e del pepe a seconda dei propri gusti. Lessatele in acqua bollente per pochi minuti e possiamo passare alla composizione della zuppa.

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Scolate il pollo all’interno del brodo se non l’avete già fatto prima, prendete il cardo lessato che si sarà intanto raffreddato e lo lasciate cadere nella pentola del brodo, non prima di aver tolto l’eventuale patina di grasso formatasi su e non prima di aver strizzato per bene il cardo. Aggiungete il pollo sfilacciato, le polpettine ed i pinoli e via di gas. In un altro recipiente, 4 uova con sale, parmigiano e pepe, vengono mescolate come se dovreste fare una frittata. Quando il brodo sarà bollente versate il composto dentro e mescolate assieme al brodo. Dopo qualche istante, spegnete il gas e ancora bollente versate il cardone ed il suo brodo con la carne sfilacciata e le polpettine in ciotole per i vostri commensali. Aggiungete del parmigiano grattugiato ancora su e servite a tavola senza immergere l’alluce nella ciotola, che se distrattamente dovesse accadere, dovrete poi condire a parte per poterlo mangiare assieme al cardone. Ad ogni modo ricordatevi sempre che non fidarvi mai di un cuoco magro.

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