Il valore del gusto

Gusto

In Italia la gastronomia è quotidianamente al centro dell’attenzione. Tutti ne parlano, gli esperti si sprecano, l’agiografia del nostro made in Italy è un mantra. Tutta questa enfasi stride con un altro luogo comune del mercato: il prezzo unico delle materie prime. Se escludiamo l’uva e il vino, il prezzo del grano, del latte, della carne e via di seguito è determinato da una borsa merci collocata chissà dove e, fatte salvo alcune varianti locali, tutti lo rispettano. Se il prezzo è uguale per tutti, lo sarà anche la qualità.

Ma se, come sentiamo sempre dire e come è, la qualità del cibo dipende dalla materia prime, come è possibile che proprio questa non venga presa in considerazione? E, di conseguenza, come facciamo a parlare di qualità? Quali strumenti e chiavi di lettura abbiamo per dire che il made in Italy è superiore o che questa carne ha un livello qualitativo alto? Ma quando parliamo di qualità a cosa ci riferiamo. Io preferisco limitarmi a tre aspetti. Il cibo ci deve piacere e ha una influenza sulla salute. Nel primo caso parliamo di odore e gusto, nel secondo caso di valore nutrizionale.

Incomincio con il gusto perché a me sembra il più importante e quello meno conosciuto.

Il primo a scrivere del gusto è stato il solito Aristotele, che riuscì ad individuare 7 gusti base: dolce, salato, acido, amaro, astringente, pungente e duro. Mica male per quei tempi. Nell’Ottocento, quando entra in gioco la chimica, si scende a 4, perché a questo punto occorreva individuare i ricettori e i trasmettitori dell’impulso: dolce, salato, acido e amaro. Agli inizi del Novecento un giapponese aggiunge l’umami. Quindi, fino a pochi anni fa, si pensava che i gusti base fossero 5 e che ciascuno di questi fosse captato da papille gustative specifiche e disposte su parti precise della lingua. Negli ultimi anni le cose stanno cambiando velocemente. Nel 2017 l’americano Lee e i suoi colleghi hanno verificato che non esistono recettori specifici ma ciascuno può veicolare verso i neuroni tutti e quattro i gusti base. Lungo il percorso c’è una molecola, la semaforina, che smista il gusto verso il neurone specifico. Ma anche la lista dei gusti sta cambiando. Hartley e colleghi quest’anno hanno pubblicato un lavoro in cui propongono una nuova classificazione dei gusti basi. Oltre a quelli storici, nella lista entrano il grasso, il kokuri, i carboidrati, il calcio e il metallico. Quindi, in questo campo la scienza sta avanzando velocemente e probabilmente fra qualche anno dovremo rivedere di nuovo le nostre idee. Ma, restando alla gastronomia, quello che a noi interessa è conoscere quali siano le molecole che determinano la formazione dei gusti base e da quali fattori queste dipendano. Aspetto questo molto importante perché se sappiamo come misurare quel particolare gusto e da cosa dipende, quel livello qualitativo sarà replicabile nello stesso posto e a qualsiasi latitudine.

Partiamo dalle molecole implicate. Tutti sanno che le componenti volatili sono responsabili dell’odore e che quelle non volatili lo sono del gusto. Ma quali sono quelle non volatili? Qui entriamo in una zona grigia. Il grasso e l’amido non hanno odore e gusto. Le proteine vengono coinvolte per qualche amminoacido aromatico, l’umami è legato al glutammato, il kokuri al glutamil peptide, ma basta assaggiare la carne che troviamo nelle macellerie per capire che la relazione fra proteina e gusto è minima, quasi nulla. Cosa rimane? I polifenoli. Langfried, un ricercatore canadese ha provato a studiare la relazione fra alcuni acidi fenolici e il gusto nel grano. Ha trovato che l’acido ferulico e vanillico determinano rispettivamente il gusto amaro e astringente. Ma tutte queste informazioni non ci permettono di dare una risposta alla nostra esigenza di conoscenza e di chiarezza. In sostanza, se io assaggio un formaggio o un pane o una carne e se, per caso, il gusto è intenso, lungo, complesso, al di là se la lista disponibile ci permette o no di dare un nome a questi gusti, a quali molecole dobbiamo tutto questo? Che analisi devo fare? Non lo sappiamo. Io sono convinto che soprattutto i polifenoli siano responsabili del gusto, ma finora non ho trovato alcun collega, e ne ho consultati tanti, che sia d’accordo sui polifenoli. E se io chiedo: se non i polifenoli chi? La risposta è: dobbiamo studiare.

Quindi, il mondo scientifico non si è ancora posto il problema delle molecole responsabili del gusto. Se non sappiamo cosa misurare, non possiamo individuare i fattori che incidono sul livello di intensità del gusto.

E d’altronde, tutto torna. Se noi accettiamo che la materia prima venga pagata a peso e che la borsa merci ne decida il prezzo, non si capisce perché dobbiamo occuparci di gusto o di qualità. In fondo basta fare attenzione ai claim della pubblicità. Il pane è cotto a legna e con lievito madre; l’olio è molito a freddo; la pasta trafilata in bronzo ed essiccata lentamente; il formaggio è a latte crudo e senza fermenti. La materia prima è un oggetto sconosciuto. Quindi, se non dominiamo il sistema, la qualità è un fatto casuale e avviene all’insaputa di chi la fa e di chi non la fa.

Invece se azzardiamo una ipotesi, forse riusciamo a capirne di più. Se cioè l’ipotesi è che siano i fenoli responsabili del gusto e visto che sappiamo che questi si trovano nelle parti periferiche delle piante, perché svolgono un ruolo di difesa e che il loro livello varia in funzione dello stadio fisiologico delle piante e della resa per ettaro, allora possiamo provare a verificare se la tesi è vera.

Porto solo un esempio. È appena finito Cheese, a Bra. In quella sede abbiamo pensato di presentare due formaggi e tre pani diversi per la materia prima. Nel caso dei formaggi la cosa era facile. Sappiamo da anni che la grande differenza la fa il pascolo, perché le erbe sono ricche di volatili e non volatili (polifenoli) e perché più l’animale mangia erba e meno latte fa. Ma nel caso del grano? Come faccio ad assicurare pani fatti con grano le cui differenze siano facilmente riscontrabili? Se la tesi è che la resa per ettaro (come per l’uva) determina il livello di concentrazione delle molecole, allora abbiamo scelto grani teneri da 30, 50 e 100 q /ha. Alla degustazione i formaggi parlavano da soli per il colore e l’aroma. I pani invece avevano differenze meno marcate, anche se evidenti a tutti. Un attimo di smarrimento, ma poi il mugnaio ha detto che aveva prodotto una farina 0. Ora se pensiamo che i polifenoli sono nell’aleurone e che nella parte interna ne troviamo al massimo un 5%, si capisce bene come siano bastati quei pochi milligrammi di polifenoli per marcare la diversità. Se la farina fosse stata macinata a pietra, le differenze sarebbero state più marcate.

Aggiungo che non è la prima volta che organizziamo questo tipo di degustazione, dove mettiamo a confronto sempre gli estremi, il più scadente e il migliore e i risultati ci danno ragione.
Ma se le cose che ho scritto sono vere, se cioè non conosciamo il gusto e il fenomeno non è ripetibile, come facciamo a parlare di gastronomia di qualità?

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