Imre Kaló e i suoi vini ”alla boscaiola”

Imre Kaló

Non prendetevela se colgo proprio quest’occasione per affrontare un tema delicato come quello dei vini ”controversi”, ma sono rimasto letteralmente affascinato da un Kékfrankos ben fatto, sì, ma alla boscaiola, sebbene ammaliante come un paio di gambe meravigliose in calze velate nere a 20 den.

Un vino senza gioghi né briglie derivato dal vitigno kékfrankos (blaufränkisch), di cui si sono trovate le tracce più antiche in Austria, ma che si è diffuso in tutta l’Europa orientale, dov’è chiamato anche Frankovka o Franconia, e in Germania, dov’è tuttora chiamato Lemberger.

Nel 1875 era stato registrato come un clone di gamay per via della casuale somiglianza morfologica con quel vitigno di Borgogna, ma le recenti ricerche sul DNA dell’Ufficio federale per vigneti e frutteti di Klosterneuburg lo classificano piuttosto come un incrocio tra il gouais blanc (weisser heunisch) e un altro ”fränkisch” esportato dai Franchi ai tempi di Carlo Magno ancora da definire, anche se si fanno largo le ipotesi del blauer Silvaner o del blauer Zierfandler.

Imre Kaló

L’autore di quel sensualissimo vino è Imre Kaló, un vignaiolo che a Eger, in Ungheria, va per conto suo, è autodidatta, ha imparato solo dal nonno, dal padre e dai libri e sta continuando a imparare da altri produttori che aiuta nelle loro vigne. Un guardaboschi che coltiva ceppi di oltre quarant’anni in modo biologico ad alberello, non ha mai utilizzato fertilizzanti, erbicidi e pesticidi, usa solfato di rame solo quando l’invadenza delle muffe diventa estrema e riduce all’osso le rese, lasciando al massimo 1 kg di uva sulla pianta in piccoli grappoli.

Da 24 vitigni coltivati in 20 ettari nei vigneti Gyűr, Mácsalma, Ispánberki, Vénhegy, Jatótető, Csájszél e Poletár produce una trentina vini diversi e tutti soltanto a piccole partite che vinifica all’antica con strumenti anche arcaici, fa macerazioni lunghe come la fame (110 giorni per un Cabernet Franc, 150 per una cuvée di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon parzialmente attaccati dalla botrytis cinerea, 70 per un Grüner Veltliner…) in una cantina dalle pareti tanto nere come la pece che si fatica addirittura a credere che possa rispettare l’igiene almeno come si deve.

Imre Kaló

 

A Eger lo trattano con sufficienza, lo prendono alla leggera, come uno che ha perso la trebisonda per i propri metodi enologici.

Ogni tanto lo prendono in giro, sovente lo ignorano del tutto. I vignaioli interpellati si pronunciano più spesso con riguardo, ma quando parlano dei suoi vini scuotono la testa. Come se appartenesse a un’altra dimensione, infatti direi che fa davvero parte di un’altra… favola poiché penso che sia davvero illuminato da Bacco e che il suo approccio ai vini è emozionale, con il cuore. Li fa sempre secondo il proprio capriccio e non gliene frega nulla delle opinioni dei colleghi di professione.

Qualcuno tra questi lo chiama ”őrült borász”, cioè l’enologo folle, forse soltanto perché con i suoi metodi sembra aver perso enologicamente la trebisonda. Altri arricciano il naso in quel dedalo di tunnel della sua cantina incrostata di una pelliccia scurissima di color grigio topo che lascia crescere dovunque, anche sulle antiche botti e sulle sue attrezzature primitive, cosa che farebbe venire i brividi a un enologo moderno. Dà perfino l’impressione di essere un tipo un po’ caotico, eppure progetta tutti i suoi processi di produzione e non lascia nulla, ma proprio nulla al caso, anzi tiene i mosti e i vini sotto perfetto controllo.

Questi sono il risultato di una spontaneità di vinificazione genuina, sì, ma che è al guinzaglio del suo capriccio, non di un calcolo tecnologico progettato a freddo, non di un affarismo enologico prostituito al marketing.

Non dubito che Imre Kaló conosca i suoi vini di gran lunga meglio delle proprie tasche; ha una memoria fenomenale, tanto che non ama nemmeno scrivere le date e l’ora degli appuntamenti o i numeri di telefono e gli indirizzi, eppure se li ricorda tutti.

Imre Kaló ha cominciato a fare il vino a Szomolya presso Eger agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, ma gli ci sono voluti ben 14 anni per ottenere il primo vino che lo soddisfacesse in pieno, con l’annata 2000, e ancora altri 2 anni per farne uno fantastico, quello che mi ricordo meglio, con l’annata 2002. Riesce a ricavare un reddito modesto, ma sufficiente alla famiglia, da una produzione totale di circa 30.000 bottiglie, anche se ne regala una caterva agli altri vitivinicoltori con cui collabora per averne pareri, suggerimenti, critiche. Vende molto poco e non nei negozi. So che l’inaccessibilità è uno dei più comuni sotterfugi delle strategie di marketing, ma nel suo caso, credetemi, non lo è. Si tratta di una sua scelta e non posso aggiungere altro. Provare per credere.

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Imre Kaló con la figlia Júlia

La sua vinificazione infrange praticamente ogni regola possibile che si possa trovare in un moderno libro di testo.

Alla figlia Júlia, quand’era impegnata a studiare enologia, ha sempre detto che con i vini la prima cosa da imparare non è quello che si deve fare, ma quello che non si deve fare.

Imre fermenta grappoli interi senza inoculare lieviti, utilizza solo il mosto fiore drenato dai tini e dalle vasche di fermentazione, li lascia riposare (sia bianchi sia rossi) sulle loro fecce normalmente da 3 a 4 anni in vasche, botti o anfore. La maggior parte dei bianchi viene poi affinata in serbatoi, mentre i rossi maturano in vecchie botti di quercia esclusivamente ungherese per molti anni ancora prima dell’imbottigliamento (normalmente aspettano ancora da 3 a 7 anni, a volte anche 10 anni) e potete stare certi che non ne butterà mai via una finché non comincia a perdere un po’ troppo.

Se descrivete questo tipo di vinificazione a dei produttori di vino, alcuni sarebbero tentati di dirvi esattamente quali dei vini fatti in questa cantina dovrebbero mostrare anche degli spiacevoli sentori di aceto, madera, yogurt, per non parlare del carico di tannini duri e dell’acidità volatile, perché hanno la mania di fare di ogni erba un fascio specialmente quando si parla di vini artigianali cosiddetti “naturali”. Questo loro giudizio severo può valere certamente per tanti altri vini di questa tipologia, va detto, perché ce ne sono ancora in giro prodotti da fattucchiere e stregoni che cavalcano le mode senza però impegnarsi a fondo in modo scientifico, ma non vale per quelli che fa invece Imre Kaló.

I suoi non sono vini fatti per sedurre il turista sprovveduto che raggiunge la cantina direttamente con gli autobus dei vacanzieri

Anzi sono proprio molto lontani da quelli osannati nei salotti più scintillanti dagli spacciatori della naturalezza. E non sono nemmeno quelle autentiche bombe di fruttato che ricordano le confetture della nonna, tipo i vini ”pompati” del Nuovo Mondo.

Meritano una degustazione lunga in quanto si aprono lentamente, esigono più tempo, riflessione, conversazione, ma Imre non sa parlare, purtroppo, nessuna lingua straniera (la figlia, quando c’è, l’aiuta, altrimenti bisogna portarsi dietro l’interprete) ed è un peccato, perché farebbe veramente piacere comprendere in diretta le parole che l’autore dedica a ognuna delle sue creature, che sono tante.

Imre Kaló

Tra i suoi vini si trovano i bianchi in purezza o in cuvée dai vitigni grüner veltliner, traminer, leányka, sauvignon blanc, chardonnay, pinot gris, irsay olivér, olaszriesling, sylvaner e i rossi in purezza o in cuvée dai vitigni kékfrankos, turán, cabernet franc, cabernet sauvignon, merlot, pinot noir, syrah, menoir.

Rispetto ai trend enologici attuali, Imre Kaló fa maturare molto, ma molto a lungo i vini (sia bianchi che rossi), normalmente per 4 anni circa prima di imbottigliarli e decidere quando può darli alla luce. E spesso questa decisione contrasta completamente con tutto quello che è solito fare.

Nei suoi vini io non ci trovo poi tutte quelle controversie di cui ho sentito parlare.

I suoi vini sono generalmente vinificati accuratamente, decentemente e con gusto, quindi cosa c’entra l’impopolarità delle sue idee? Lo stile è completamente opposto alla moda, ma sarebbe questo il motivo della controversia? Questo stile vecchia scuola (che è molto vicino al mio cuore) corrisponde meravigliosamente alle aspettative di molti enoamatori. Sì, certo, qualche volta dà un po’ fastidio l’eccesso di alcool, cosa che di solito compare nel tratto finale di una degustazione, ma vale la pena ricordare che l’elevato tenore alcoolico di gran parte dei vini di Imre Kaló deriva da una maturazione dei grappoli molto lunga, conquistata con metodo e che combacia bene con la stilistica dei vini.

Parecchi vini di questa cantina sono strutturati in un modo che mi ricorda intensamente le vinificazioni tradizionali georgiane, cioè leggera ossidazione, un contatto molto lungo del vino con le bucce, cosa che dà una sostanza di essenze vinose che deve servire soltanto a una lunga maturazione.

Chi cerca invece delle verdi freschezze resterà deluso, ma chi ama lo stile vecchia scuola, affiancato da una solida acidità, se ne innamorerà. Anche se Imre Kaló permette uno sviluppo naturale del vino e prolunga al massimo la sua vitalità in botte, questo non significa concedergli piena spontaneità e perderne il controllo. Chi degusta i suoi vini e ha qualche idea delle tecniche di vinificazione, si rende conto subito che quest’uomo non è caduto dalle nuvole e che i risultati che possiamo avvertire nel bicchiere sono il frutto degli interventi pienamente coscienti delle sue attività enologiche.

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Mi ha entusiasmato il kékfrankos, un vino molto intenso e succoso che proviene dalle vigne più recenti. Fermentato per 70 giorni, è davvero straordinario.

Attacca con un profumo di succo di amarena tra sfumature di minestra di barbabietole, funghi porcini e sottobosco che introducono un bouquet ricco di aromi perfettamente concentrati di ibisco, rose, piccoli frutti neri, tabacco, noccioli di amarena. In bocca è equilibrato e carnoso e incanta per lo stile tipico di Eger cui aggiunge note di legno, cuoio vecchio, sigaro, terra, muschio e felce. Anche da giovane (si fa per dire…) ha già uno stile solido e nel finale emergono anche il kirsch (liquore di amarene) e il céklaleves (zuppa di barbabietola rossa). Tenore alcoolico elevato come tutti i vini di questo autore, ma ben integrato con il resto della materia, che è notevole. Si evolverà ancora in bottiglia, perdendo la sottile dolcezza giovanile e diventando asciutto e secco.

Non so quanti di questi vini si prestino a considerazioni intellettuali e sfoggi di erudizione da elargire elegantemente ai lettori. Questi vini sono l’effetto di una spontaneità di vinificazione alla sua maniera (perché sottoposta al capriccio dell’autore) più che di un calcolo tecnologico progettato a freddo. Spesso perdono strada facendo il carattere del vitigno, mentre avanza in primo piano l’interpretazione dell’autore, l’idea personale di ciò che dev’essere quel vino.

Non sono dunque vini facili da vendere e Imre Kaló non è un affarista enologico.

È un romantico cavaliere errante della terra di Eger. I suoi vini non si comprano in negozio, sono difficilmente accessibili. Inoltre non parla purtroppo nessuna lingua straniera (gli è d’aiuto, quando c’è, la figlia Júlia). Questa è una lacuna che si sente molto, perché farebbe davvero piacere comprendere in diretta le parole che questo artigiano dedica ai vini, anche se sono più da bere che da raccontare. Ma bisogna andare da loro. Il sito dell’azienda con i recapiti si trova sul web.

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