In vino veritas… ma per quanto tempo ancora?

Nessuno (tranne forse l’Inquisizione, Pol Pot, Ceausescu e i Talebani) si è mai sognato di poter fermare il progresso. In campo enologico, per esempio, se non ci fossero stati gli esperimenti di Dom Pérignon e della Veuve Nicole Cliquot-Ponsardin non potremmo oggi godere dell’ottava meraviglia del mondo, cioè lo Champagne.

Ma in seguito alla polemica sull’uso degli OGM in vigna e degli additivi (dai trucioli fino alla gomma arabica) o dei concentratori in cantina per modificare artificialmente il vino c’è davvero da domandarsi in quali guai si stia nuovamente cacciando quello che è ancora il re della nostra tavola…

Quando l’amico Wiktor Bruszewski tornò per la prima volta dalla Repubblica Sudafricana e raccontò agli amici di aver visto delle botti di acciaio inossidabile rivestite all’interno con delle assi di legno di rovere facilmente intercambiabili dopo un certo periodo di uso, scelte come sistema di abbattimento dei costi in alternativa alla barrique e in genere a tutte le botti con le doghe a spacco, non mi si sono certo rizzati i capelli sulla testa.

Finché un’innovazione non fa male alla salute, ritengo che sia lecito cercare soluzioni diverse per poter ridurre il costo di produzione di un vino a vantaggio dei consumatori con disponibilità finanziarie minori di quelle dei magnati che possono permettersi di spendere diverse per una bottiglia decine decine di euro (quando non centinaia). Anche il povero topolino vorrebbe la sua parte di formaggio, vero Speedy Gonzales?

Ma poi al primo MiWine i sommelier che stavano preparando la degustazione dei Tokaji organizzata dal nostro Fabrizio Penna mi dissero che avevano recentemente degustato in prova dei vini aromatizzati artificialmente con gocce di essenze fruttate e speziate, vaniglia, rovere, cuoio e altri aromi che a volte nobilitano dei vini molto costosi.

Allora avevo cominciato a sudare freddo perché mi avevano confessato che quasi nessuno al mondo sarebbe stato in grado di individuarne l’eventuale presenza per esempio nei vini di discutibili cantine proposti a prezzi slealmente concorrenziali con i grandi cru dei migliori terroir del nostro pianeta, in vendita nella grande distribuzione sugli scaffali più bassi.

Già si aggiunge (entro certi limiti) l’anidride solforosa, anche se la sua funzione igienica sta cominciando a essere sostituita dalla microfiltrazione. Già si aggiunge l’alcool etilico in certe regioni vitivinicole molto calde, come si fa in Portogallo per il Porto. Ma si è arrivati anche a dopare di nascosto i vini con la gomma arabica e il tannino sintetico, si stanno strombazzando i trucioli e in certi Paesi si è autorizzati perfino ad anabolizzarli con glicerina e acido tartarico a volontà. E queste bottiglie sono tutte regolarmente in vendita sugli scaffali. Per non parlare di sostanze chimiche proibite in Europa, ma autorizzate da leggi enologiche di altri paesi extracomunitari come l’Australia.

Se andiamo avanti di questo passo, in quali guai si ficcherà ancora il nostro re della tavola? Preciso che non si tratta, almeno in questo caso, di sostanze o di manipolazioni pericolose per la salute dei consumatori. Anche i concentratori a osmosi inversa non modificano in meglio la sostanza, ma la concentrano soltanto e per togliere in questo modo l’acqua in eccesso se ne va in parte anche qualcos’altro.

Se diamo all’olfatto e al gusto la prevalenza nel giudicare la bontà di un vino, addizionare alcuni elementi e usare determinate tecniche può anche essere consentito, purché il loro impiego sia dichiarato esplicitamente almeno in etichetta e non sia proibito dalle leggi vigenti in materia di sanità e di concorrenza leale, che devono rimanere.

Ma il buon vino è frutto di un’armoniosa simbiosi di terra, sole e genio del vignaiolo. Se anche una sola di queste tre componenti virtuose prevalesse sulle altre, chiamiamolo pure vino, ma io non avrei il coraggio di definirlo buono. Il vino è percepito dai consumatori come un prodotto naturale, ricco della cultura del suo territorio, e proprio qui nasce il suo grande fascino.

Di più: quando si parla di qualità concordo in pieno con il prof. Giovanni Cargnello di Conegliano, che ci ricorda sempre come sia meglio parlare di un insieme di diverse qualità sostanziali, tra cui c’è anche (ma non solo, anzi soprattutto) quella organolettica, oltre a qualità salutistica, qualità economica, qualità sociale, qualità X e Y (l’elenco è lungo, aggiungete pure tutti gli aggettivi che preferite per definire le vostre aspettative in fatto di qualità). Per tradurla in soldoni, come dicevano i nostri vecchi nelle osterie, per valutare un vino lo si deve guardare, lo si deve annusare, lo si deve gustare, lo si deve digerire, lo si deve discutere e lo si deve, infine, poter… pisciare!

Nessuno vorrebbe bere un vino assolutamente naturale ma difettoso, quando magari con una semplice manipolazione corretta e consentita si potrebbe eliminare quel difetto senza strane alchimie da fattucchiere.

Perciò, cari vignaioli e cari enologi, siate trasparenti e sinceri, dichiaratelo in etichetta, scrivetelo a caratteri chiari e ben leggibili! Le lucciole non dovete spacciarle per lanterne.

Anche se, come al solito, quegli azzeccagarbugli dei legislatori troveranno comunque il sistema di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per non scontentare né gli onesti né i disonesti, visto che oggi anche per pochissimi voti si vincono le elezioni e pure i voti dei disonesti non puzzano, penso che i consumatori abbiano come minimo il diritto di essere pienamente informati sul contenuto della bottiglia. Che la legge lo imponga o no. Come direbbe Totò: ”siamo uomini o… caporali?“.

Proporrei perciò una semplicissima regola di vinificazione, simile a quella indicata dal Codice canonico, anche se non è da meno la regola di produzione dei vini Kosher. Il canone 924 del Codice di Diritto Canonico dispone che per le celebrazioni liturgiche ”Vinum, quod in sacrosancti eucharistici Sacrificii celebratione adhibetur, debet esse naturale, de genimine vitis, merum et non corruptum, extraneis substantiis non admixtum. […] Sedula cura caveatur ut vinum ad Eucharistiam destinatum perfecto statu conservetur nec acescat. Omnino vetitum est vinum adhiberi, de cuius genuitate et provenientia dubium occurrat”… e alla via così.

Vale a dire. “Il vino che si usa nel santo sacrificio eucaristico deve essere naturale, d’uva, puro e incorrotto, non mescolato con altre sostanze. […] Bisogna fare attenzione affinché il vino dell’eucaristia sia completamente conservato e non si sia inacidito. È assolutamente vietato utilizzare vini di dubbia autenticità o provenienza”.

Per semplificare, dalla Bozza di regolamentazione sul vino da Santa Messa approvata dal Tribunato di Romagna nella tornata del 23 febbraio 1993 cito alcune semplicissime disposizioni che devono essere scrupolosamente osservate per produrre quell’ottimo vino che nel calice elevato sull’altare diventa il sangue di Cristo: ”Il vino deve provenire da uve mature (anche passite) e sane almeno in gran parte, può essere chiarificato con colla di pesce o albume d’uovo, non deve essere aggiunto tannino, è ammesso l’impiego di metabisolfito di potassio durante la vinificazione e non nel vino già fermentato, nonché la filtrazione purché non ceda al vino materiali estranei”. Scusate, ma vi sembra per caso che si pretenda la Luna?

Sono duemila anni che i monaci, i preti e le suore dedicano cure certosine alla coltivazione della vite e alla vinificazione delle uve, ed è senz’altro grazie alla loro devota umiltà che la civiltà del vino si è diffusa nel mondo. Perché non fare ancora affidamento su queste loro regole tanto concise ed elementari, ma dal profondo contenuto qualitativo, per impedire al nostro re della tavola di cacciarsi nuovamente nei guai?

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