Gli insegnamenti di un viaggio…gelato!

     Se qualcuno dovesse mai chiedermi quali sono, a mio giudizio, i tre prodotti alimentari cui non potrei rinunciare, nell’ipotesi di dovermi trasferire su di un altro pianeta, nell’ordine risponderei: vino, pizza, gelato.

     Ebbene sì, tra le tante bevande che ci sono al mondo, non rinuncerei al vino, complice di goliardiche cene in compagnia e compagno, a sua volta, d’indispensabili serate contemplative; alla pizza, di base margherita, con cicoria catalogna, radicchio trevigiano, colatura di alici di Cetara e olive taggiasche, come piace a me; e dulcis in fundo, al gelato. Ovviamente artigianale; quello, per intenderci, che si vende nelle gelaterie dove fuori c’è scritto: “alcuni gusti di gelato qui non li troverete perché non ottenibili con le sole materie prime”.

A fine novembre sono stata alla 57a Mostra Internazionale del Gelato Artigianale di Longarone (MIG).

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     Uno dei miei sogni si è realizzato. E questo grazie ad una famiglia di gelatai trevigiani, emigrati in Germania, e precisamente a Francoforte, negli anni in cui nei paesi mittleuropei impazziva il culto del gelato italiano.

     La famiglia Modenese, oramai di casa alla fiera, mi ha condotta, praticamente per mano, in questo meraviglioso mondo freddo, fatto di ore e ore di lavoro, sacrifici e rinunce. Lo sapevano bene le famiglie venete delle valli già verso la fine dell’800, costrette a lasciare un territorio – quello della Serenissima – oramai in crisi, per cercar fortuna nelle più importanti città dell’Impero Austro-Ungarico. E lo sapevano bene anche le famiglie bellunesi della valzoldana, che, godendo di ottime materie prime quali latte, panna, uova, frutti di bosco, e neve e ghiaccio naturali, avevano compreso le potenzialità di un commercio di gelati d’Oltralpe, attraverso l’unico mezzo loro a disposizione: il carrettino.

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     Non doveva essere stato facile: la nostalgia per le persone care e per la terra d’origine, infatti, non sempre aiutavano nella vendita di un prodotto che tutt’oggi necessita del sorriso. Soprattutto quando lo si deve proporre ai bambini. E forse proprio questo è da sempre stato il segreto dell’affermazione del gelato a livello globale: ricondurci tutti al nostro lato infantile, facendoci riappacificare con esso per il forte senso di appagamento che riesce a donarci.

La mia esperienza in fiera è stata entusiasmante.

     Appena arrivata, dopo avermi fatto testare alcune tra le più pregiate miscele di caffè torrefatte nel nordest – perché avere una gelateria, in Austria come Germania, vuol dire innanzitutto essere in grado di saper fare anche un ottimo caffè; di qui tutti gli Eiscafè distribuiti un po’ ovunque nei paesi del centro europa -, la famiglia Modenese mi ha letteralmente affidata ad uno dei mastri gelatai più importanti del Veneto, Ennio Speranza, il quale mi ha aperto le porte del suo laboratorio proprio col sorriso.

     Ennio mi ha innanzitutto declamato i 3 comandamenti del gelataio: lavoro, pappa, nanna. Poi si è soffermato sulle diverse lavorazioni, spiegandomi la differenza tra le percentuali di aria e quelle dei grassi, che sono di gran lunga inferiori nel gelato artigianale rispetto a quello industriale. Infine mi ha mostrato i prodotti in uso, dalle paste tribolate in purezza (di pinoli, di pistacchi, di nocciole, etc.), ai variegati alla frutta (di amarene, di fichi caramellati, di maracuja, etc.).

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Ma l’insegnamento più interessante ha riguardato i sistemi di refrigerazione.

     Nello specifico, la differenza tra le vetrine e i pozzetti. Vi siete mai chiesti perché i pozzetti sono tanto diffusi? E’ certo che le vetrine vincono in quanto a estetica, perché danno la possibilità di scegliere il proprio gusto di gelato con gli occhi, prima di tutto. Tuttavia il pozzetto, che nasconde il prodotto alla vista del cliente, è di gran lunga migliore in quanto a conservazione, perché mantiene la cremosità del gelato omogenea e non consente alle molecole di acqua in esso contenute di cristallizzare. Io non ne avevo idea.

     Però sono solita diffidare di vetrine variopinte e vaschette stracolme di gelato, e preferisco scegliere i gusti del mio cono – eh sì, anche la cialda ha la sua importanza! – quanto più semplici e naturali possibili.

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     Ognuno di noi ha un parametro di riferimento nella valutazione della qualità della gelateria in esame: c’è chi ne testa il gusto cioccolato, chi il gusto nocciola, chi quello alla vaniglia. Il mio parametro è rappresentato dal pistacchio: verde spento, tendente al sapido per la ricchezza di sali minerali, e vellutato sulla lingua per la presenza di sostanze oleose.

     Ogni vetrina in circolazione presenta inevitabilmente il gusto pistacchio. E così anche in fiera. E questo la dice lunga sull’onestà di alcuni gelatai, che spacciano per pistacchio di Bronte DOP ciò che proviene invece dall’Iran, dalla California e peggio ancora dalla Cina.

     Bronte è una cittadina di nemmeno 20.000 abitanti. Produce non più di 3000 tonnellate di pistacchio all’anno, ed è solo al settimo posto nella produzione dello stesso. Significativa la presenza in fiera di alcune aziende brontesi, come I Dolci Sapori dell’Etna, piccola realtà siciliana, attenta alla genuinità dei suoi prodotti e all’etica che vi sottende. Impossibile resistere davanti al barattolo da 5 kg di pura pasta di pistacchio!

Di sicuro la frutta secca l’ha fatta da padrona quest’anno alla MIG

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     Ovunque stand di nocciole tonde gentili del Piemonte IGT; mandorle della Val di Noto Presidio Slow Food; e poi ancora noci, anacardi, arachidi, pinoli. Per non parlare delle bacche di vaniglia, che frutta secca non è, ma spezia, prodotta dai frutti di una meravigliosa orchidea chiamata per l’appunto vaniglia. Non potevo farmi sfuggire la spiegazione di una esportatrice autoctona del Madagascar e così ho ascoltato con interesse il racconto della produzione lunga e meticolosa di una spezia il cui estratto, nel 2016, è arrivato a costare ben 11mila dollari al chilo!

     Ma la cosa che ha destato in me maggior interesse è una certa tipologia di gelato, quello vegano. L’estate scorsa esso ha raggiunto il top delle vendite sia nei paesi del centro Europa, che nel nord Italia. La richiesta è in continuo aumento e sono sempre più le gelaterie che si convertono a questa nuova filosofia alimentare.

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     Ero curiosa. Convinta che sarebbe stata l’ennesima delusione. Mi aspettavo banalissimi gelati di soia dai soliti banalissimi gusti. E invece no. Sono rimasta talmente sorpresa che, a fiera conclusa, ho individuato in quello vegano della Albert, azienda trevigiana, attiva dal 1981, il mio preferito tra tutti gli infiniti assaggi della giornata.

     Pochi ingredienti: materie prime vegetali accuratamente selezionate ed olii essenziali per aromatizzare. In pratica una base vegana bianchissima e profumatissima. Di eucalipto, rosmarino, melissa, limone. Gusti talmente persistenti e puliti al palato da farmi decidere di concludere così le mie degustazioni golose.

     La loro freschezza resterà stampata a lungo nella mia memoria. Perché in fondo il gelato cos’è se non un dolce momento rinfrescante?

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