Kerner Guldentaler Schlosskapelle Auslese-Nahe 2012 Bacchus Weinghaus Graf Eltz

Tutte le fiabe più belle cominciano o finiscono in un romantico castello e se questo castello, alto e variopinto, si erge sulla punta di un cocuzzolo fra i boscosissimi monti che si specchiano nella Mosella, allora siamo già con la testa fra le nuvole e stiamo sognando di vivere una favola d’altri tempi.

 

Nella Germania che va a confinare col Lussemburgo, nella Rheinland Pfalz, la regione dove la Mosella confluisce nel Reno, in posizione panoramica e dominante c’è l’incantevole castello di Burg Eltz. Tra il IX e il X secolo era un fortino fatto con palizzate di legno in mezzo alla foresta, ma sotto il dominio degli Hohenstaufer e col sigillo dell’imperatore Federico il Barbarossa, fra l’XI ed il XIII secolo divenne uno dei più attraenti castelli dell’intera Europa. Oggi è una delle attrattive turistiche più vive e ben preservate, in un ambiente incontaminato, appena sopra l’antico paese di Moselkern, ricco di agriturismi, vinoteche, trattorie, ristoranti e sede di sani divertimenti fra passeggiate e manifestazioni di carattere storico e culturale.

Quando si capita in luoghi così affascinanti, dove si gode il paesaggio dall’alto del mondo e ci si avvolge di storia, dopo aver visitato il castello e visto il tesoro e dopo aver ben pranzato nelle antiche sale del ristorante, non si può tornare a casa senza un ricordo di cristallo o di porcellana e senza, soprattutto, del buon vino locale. Il vino fa parte del territorio, vive in simbiosi con esso e ne diventa ambasciatore ovunque vada e quando si apre dopo tanti anni una delle bottiglie acquistate sul posto, si rinnovano le stesse emozioni provate in quella gita e l’animo ringiovanisce un po’. Ma di vini fatti apposta per i turisti ne conosciamo tanti, forse troppi, che non sono di qualità e magari hanno le bottiglie artisticamente decorate, insomma faranno pure scena, ma non valgono una cicca. Li conoscete i fiaschettini colorati di Lacryma Christi del Vesuvio, no? Però come si fa a resistere alla tentazione? Anche se non si è intenditori, vale la pena comunque rischiare, a casa c’è sempre un parente o un amico che aspetta una buona bottiglia, oppure si troverà bene prima o poi una bella occasione per aprirla e per sognare di ritornare là dond’è venuta.

 

 

Il vino in questione è stato acquistato così, alla buona, in una bella gita, senza tante pretese, tanto per mantenere un bel ricordo anche in cantina. Bevuto subito era dolce, profumato di fiori, leggerissimo, su quello stile degli Auslese che fino a poco tempo fa non aveva molta fortuna in Italia. Tra i bianchi, la nostra cucina vuole i più secchi, la dieta mediterranea non concede molto spazio ai vini dolci, che sono sempre stati confinati ai dessert, un ruolo dunque secondario, a fine pasto, una futilità. La cosa più normale di questo pazzo mondo, con questi vini, è che vengano dimenticati in cantina.

”Passano gli anni, ma otto son lunghi, però quel ragazzo ne ha fatta di strada…” cantava il nostro supermolleggiato, e così un bel giorno ci si accorge che forse è meglio dare una bella riordinata in cantina ed eccolo lì, tutto impolverato, quel Kerner Guldentaler Schlosskapelle Auslese-Nahe 2012 Bacchus Weinghaus Graf Eltz mit deutscher prädikat. Non spaventatevi per la lunghezza del nome. I tedeschi, si sa, vestono bene i loro prodotti. Si tratta di un bianco, dolce, Kerner, un vino poco conosciuto da noi ma che in Germania in pochi decenni ha fatto furore. Il vitigno è un incrocio creato a Stoccarda nel 1969 da riesling renano e schiava grossa. L’amico Wiktor Żelazny dell’enoteca Burgundia di Katowice, che da tutti i suoi viaggi torna sempre con la sacca piena di vecchie bottiglie, il suo metodo per misurare tutte le possibilità dell’incredibile, ce lo ha messo in tavola a lume di candela, nella sua tavernetta, fra la nuda pietra e i vecchi mobili, al fresco, mentre fuori scoppiava la canicola.

Come succede anche a molti altri italiani, i vini bianchi dolci non mi entusiasmano assai, ma ho imparato a riconoscere, per esempio nei migliori Malvasia di Sardegna, Moscato di Cagliari, Erbaluce di Caluso passito, Recioto di Soave, Verduzzo Ramandolo del Friuli e Gewürztraminer dell’Alto Adige, delle doti straordinarie di trasformazione dei profumi e dei sapori nel tempo, perché sono dei vini abbastanza longevi, tanto che la loro iniziale dolcezza può stemperarsi nella piacevolissima acidità che distingue la loro struttura, fino a plasmare un’armonia e un equilibio di profumi e sapori adatti ad alcune sfiziosità di formaggio.

Ci siamo bevuti questo Kerner bianco ”invecchiato” (si fa per dire… perché 9 anni per vini di questa qualità sono soltanto l’inizio di un processo di ringiovanimento, come avviene con le donne più desiderabili, che dopo i 40 farebbero i compleanni a scalare!) appunto con un piattino di formaggi diversi, di capra, con le erbette fini, gorgonzola, roquefort, camembert, brié, con dell’uva sultanina e altra frutta morbida essiccata al sole. Abbiamo la fortuna di aver imparato a centellinare il vino, cioè di prolungare il piacere nel tempo, perché alla sorpresa iniziale, con degli apprezzamenti all’intenso fruttato del sapore, è seguita poi la meraviglia, infatti abbiamo scoperto che il vino, mano a mano che respirava aria fresca, sprigionava nuovi aromi e sapori con tutta calma e in sequenza.Il colore era giallo oro fulgido con riflessi luminosissimi ed è l’unica cosa che non è cambiata durante la degustazione. Il Kerner dapprima sviluppava un delicato bouquet di zagare e di essenza di scorza d’arancia, mentre in bocca era prorompente e ricco e il miele si è fuso con una vivace e piacevole acidità di pesca gialla e yogurt con agrumi canditi.

L’amico Darek Sajdok se ne stava andando incantato per l’aere, sembrava davvero che si sollevasse con lui la sedia intera per questa intrigante e intensa piacevolezza che l’acidulo procurava al dolce ammansito, una fresca nota di gioventù e di vitalità per questo vino, ma non è finita qui. Il Kerner, respirando aria a piene boccate, liberava degli altri bouquet con il passare dei minuti. Emergeva a un certo punto il glicine e in bocca alla pesca gialla si aggiungevano l’albicocca secca e la succosità dell’arancia tarocco, che precedevano la confettura d’arancia. Piano piano, tra le chiacchiere, nei momenti successivi abbiamo riconosciuto la menta, il garofano e infine l’eucalipto a chiudere lo sventagliamento degli aromi, quando in bocca si è raggiunta un’armonia con l’ingresso di leggere note mandorlate nel sapore che è diventato sempre più morbido e caldo nonostante il secchiello di acqua e ghiaccio.

Gran vino, eppure al primo assaggio da giovane non lo sembrava certo, per la dolcezza e forse per un basso tenore alcolico (9,5%) al quale il gusto italiano non è sicuramente avvezzo, ma anche perché al momento dell’acquisto era in una fascia di prezzo piuttosto abbordabile. La cantina che lo ha imbottigliato è la Bacchus Weinhaus Graf Eltz GmbH di Eltville am Rhein, che appartiene alla 33.a generazione della dinastia degli Eltz di quel castello, cioè al Dr. Karl Graf von und zu Eltz, Faust von Stromberg, che vive appunto a Eltville.

Un tocco di nobiltà per vini non tutti di propria produzione, ma ben fatti, con Riesling di tipologie e livelli qualitativi diversi. Mi fa piacere il fatto che si possano trovare ancora delle ottime bottiglie anche fuori dai circuiti delle aste, dei premi e delle guide famose e soprattutto che si riesca ad acquistarle a prezzi non esagerati. Al giorno d’oggi la cosa sta diventando difficile, è come se l’umiltà e la moderazione debbano essere ormai considerate sempre a scapito dei contenuti, almeno da parte dei soliti lorsignori di un mondo fortemente esclusivo (che in questa zona della Germania riserva le proprie attenzioni soltanto ai blasonati vini di Egon Müller-Scharzhof, Kiedrich Granfenberg e Robert Weil) e influenzato dal culto, dal collezionismo e dalla pubblicità, anziché dal sano buon bere quotidiano.
Sono capaci tutti di glorificare i grandi châteaux con premièr cru classé o i vini delle migliori annate dei produttori più esclusivi e osannati. Ma il bello della scoperta di emozioni fra vini delle annate andate generalmente a buca e che magari per una collina, o per un vitigno, o per il genio del vignaiolo, magari un signor nessuno, hanno fatto una benedetta eccezione, quella sì che è una vera caccia al tesoro alla quale, scusate, anche in veneranda età ci si diverte un sacco… non è vero, Renzo Cotarella? Quell’ottimo rosso gustato alla Grotta del Funaro, a Orvieto, quello da 570 lire al litro comprato dall’assessore Mauro Maiotti per il pranzo offertoci dall’Azienda Autonoma del Turismo ai primi di ottobre del 1980, non ricorda? Oppure quell’umile Santa Cristina del 1966 (l’anno dell’alluvione di Firenze) trovato dall’indimenticabile Loris Scaffei nella cantinetta del cavalier Foresi a fianco del Duomo, un vino dal glorioso passato che fino agli anni ‘60 era ancora un signor Chianti classico di provata longevità e che, pur molto semplice nella sua bonarietà d’altri tempi, era molto amato e perciò meritevole di grande attenzione, ma poi la rivoluzione dei supertuscan lo ha sposato al merlot per la gloria degli ipermercati e delle stazioni di benzina…
Altra gente, altri castelli, altre belle favole, che il tempo ritrova però volentieri sulle strade dei senni perduti, quando si scava indietro negli anni e si piange per amici che non ci sono più vicini, ma si ride al pensiero che un giorno, quantomeno lassù, torneremo con loro a brindare. Ma davanti a una vecchia bottiglia che apre la mente e scioglie i ricordi, la lingua e le lacrime non è per niente facile spiegare agli intenditori dei tesori organolettici, tutti compresi nel roteare del calice alla ricerca di qualcosa che non trovano, che il vino buono è soprattutto questo: un sorso di speranza che non muore mai.

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