La “Varchiglia” cosentina. La madre di ogni pasticciotto! E non c’è Salento o Napoli che tenga.

Varchiglia

Molti di noi conoscono benissimo il pasticciotto.

I lettori napoletani quello “napoletano” formato da una pasta frolla ripiena di crema pasticcera e amarene e i lettori salentini, in particolar modo quelli di Lecce e più segnatamente di Galatina (LE), la versione tradizionale con sola crema.

Varchiglia

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Proprio gli abitanti di Galatina farebbero risalire l’invenzione del pasticciotto all’anno 1745.

Zeffirino Rizzelli, ex sindaco di Galatina, giornalista e cultore di storia locale, scomparso nel 2007 avrebbe condotto degli studi su documenti storici per ricostruire le vicende di Andrea Ascalone, pasticciere locale che nel 1745, a seguito di sperimentazioni effettuate per migliorare le sotri della propria attività commerciale avrebbe dato vita alla nota creazione che fu donata per prima a tal Don Silvestro, parroco locale, il quale ne sarebbe rimasto entusiasta.

A Lecce detta cronologia degli avvenimenti sarebbe anche accolta ma precisando che comunque il dolce non nasce dal nulla ma da una precedente creazione, ancora oggi in voga, dal suggestivo nome di Fruttone o Barchiglia.

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Il fruttone o barchiglia come anticamente veniva chiamato è un antico dolce tradizionale salentino composto da una pasta frolla e farcito con marmellata, pasta di mandorla e altri ingredienti legati con albume d’uovo e cotto in forno.

La salentinità del dolce sarebbe sostenuta dagli amici del “tacco” d’Italia dagli ingredienti che non lascerebbero alcun dubbio sulla loro provenienza. Originariamente, e non è difficile reperirlo ancora oggi così, il Fruttone era un involucro ovale di pasta frolla con ripieno di crema di mandorle e marmellata di pere o mele cotogne, ricoperto superficialmente da uno strato di cioccolato fondente.

Pieno riconoscimento e dignità verrebbe conferito a quello napoletano senza spiegare se i due prodotti siano coevi ma slegati tra loro o se sia discendente da quello salentino. Mistero. Esiste ed è fatto con le amarene.

Sia di ulteriore informazione sapere che in tutta la campania il pasticciotto ha al suo interno delle amarene intere sciroppate. Unica eccezione Atrani dove alle amarene sciroppate si sostituisce la confettura di amarene. Tradizionalmente si trattava di amarene nere e non delle rosse.

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Nel panorama delle nostre regioni la Calabria, subito dopo il Molise e fino a prima di Matera 2019 la Basilicata (o Lucania) , è da sempre considerata una regione priva di grandi espressioni gastronomiche.

Se provate a chiedere a qualcuno che non è calabrese cosa si mangia di “buono” in Calabria vi sentirete rispondere (in ordine sparso): “la cipolla di Tropea, il peperoncino, la ‘nduja, le melanzane… ah si! la pitta!!!…. il caciocavallo della Sila… eeee……..(silenzio e sguardo al cielo come se vi si potesse trovare scritto qualcosa)”

Ecco a questo punto si dovrebbe proseguire lasciandolo a bocca aperta (ma so che alcuni di voi farebbero la stessa faccia) dicendo: ”capocollo azze anche, moscato di Saracena, sardella di Cirò, ricotta affumicata crotonese, pecorino del Monte Poro, ricottone salato della Locride, pane di Cerchiara, Sguta, pane pizzata, pane di Mangone, fagiolo poverello bianco di Borgo Laino, Lenticchia di Mormanno, spianata piccante, la liquirizia, i gelati di Pizzo e quelli di Reggio Calabria, le fragoline dei boschi di Gioia Tauro, la stroncatura, la treccia di fichi infornati…” e mi fermo qui per esigenze di spazio.

Tra i tanti prodotti ignoti ai più  la Calabria ha dato la luce al progenitore indiscusso di tutti i pasticciotti, fruttoni e altro italiani.

A Cosenza dalla fine del ‘400 la dominazione spagnola si fece particolarmente sentire consentendo alla città calabrese di essere la seconda del Regno di Napoli ad avere una cartografia, un’Accademia (quella cosentina) ed essere considerata la città più importante dell’intero Regno per il diritto, dove cronache del tempo riportano che vi si eccelleva per pensiero e ars oratoria.

Qui le Carmelitane Scalze (ordine monastico spagnolo), sul colle Triglio della città di Cosenza dove erano tra le mura del loro monastero, furono le prime a confezionare in quest’epoca le Barquille, un dolce a forma di barchetta (come tutti i pasticciotti esistenti in Italia- ndr).

Come alcuni linguisti calabresi hanno evidenziato il vocabolo barquilla potrebbe non essere riferito solo al termine “barchetta” che ha una sua perfetta “aderenza” al nome del dolce ma anche al termine (s.m. stavolta) barquillo che vuol dire “cialda” che, anche in tal caso, risulterebbe pertinente al dolce.

Sta di fatto che le Varchiglie alla monacale, come saranno chiamate successivamente dai cosentini prima e dai calabresi poi, inizialmente sarebbero state bianche (senza copertura di cioccolato) e ripiene di mandorle e zucchero. Poi con l’importazione del primo cacao e uso del cioccolato, avvenuto grazie agli spagnoli sempre agli inizi del 1600 (ndr 1610 per la precisione) si sarebbe proceduto a ricoprirle in superficie con il cioccolato. In talune versioni sormontate anche da amarene candite.

Sarebbero state le giovani ragazze di buona famiglia ad imparare questo particolare dolce in convento dalle monache. Di qui la sua diffusione in tutta la città di Cosenza.

Così appare chiaro come la diffusione monastica tra suore abbia contribuito al trasferimento di questa sapienza tutta cosentina e, viva Dio, calabrese tra le regioni italiane sino a giungere in Salento per il pasticciotto salentino o di Galatina o ancora prima il Fruttone, a Napoli per il pasticciotto napoletano e forse più su in Molise per il bocconotto.

Ognuno ci avrebbe messo poi ciò di cui il territorio offriva e disponeva…un po come accaduto per la sfogliatella di Lama dei Peligni… ma questa è un’altra storia.

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