Lambic e dintorni, l’anello mancante tra il vino e la birra

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     Ad eccezione di alcune digressioni di gioventù, in cui si frequentano i pub con gli amici e si trascorrono interi sabato sera a mangiare panini, patatine e alette di pollo fritte, ma soprattutto a bere birrette, ho sempre preferito il vino, e ciò mi ha condotta conseguentemente verso la sommellerie. Lambic

     Da adulta ho indirizzato le mie scelte unicamente verso lo stile delle birre trappiste belghe, che, per lo meno, mi offrivano un’emozione in più durante il pasto grazie alla loro indiscussa personalità. Mentre è solo da un paio d’anni che uno stile, in particolare, suscita il mio interesse, avvicinandosi per taluni aspetti ai miei gusti enoici.

Sto parlando dello stile Lambic, caratterizzato da una fermentazione di tipo spontaneo

     Ed è in ciò che tale stile si differenzia da quelli più convenzionali Lager e Ale, i quali ricorrono, invece, a ceppi di lievito accuratamente selezionati. Ai fini degustativi, le birre Lambic offrono sentori molto più vinosi, mentre al gusto si contraddistinguono per la loro decisa acidulità.

     Pensiamo ad un Asprinio di Aversa o ad un Vinho Verde portoghese, per intenderci. Negli anni purtroppo questo stile, seppure molto antico, è rimasto riservato a pochi estimatori, che riuscivano ad andare oltre a quegli insoliti sentori di aceto, limone, formaggio ammuffito e sudore, intravedendone unicità e complessità. Tuttavia, ultimamente, sembrerebbe riscuotere un successo di più ampia veduta e ciò è da attribuirsi all’affinamento del gusto da parte dei consumatori, sempre più esigenti e curiosi di conoscere prodotti particolari.

     Nasce così, con una Lambic Framboise, il mio percorso di degustazione alla Fiera della birra di Santa Lucia di Piave (TV), grande manifestazione birrofila, tenutasi per tre week end di fila, che ha visto protagoniste tutte le birre artigianali più interessanti del settore, da quelle regionali venete, a quelle italiane, passando per quelle estere. E, come in tutti i percorsi ascensionali che si rispettano, anch’io ho avuto il mio Virgilio alla guida: Carlo Dal Bianco, degustatore di birra artigianale e grande conoscitore degli stili. Carlo rappresenta oggi un importante punto di riferimento per chi desidera approfondire l’universo birra e acquistare i prodotti d’importazione più ricercati.

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Ma partiamo dall’inizio

     La Framboise Boon, per l’appunto, che prende il nome dal produttore belga Frank Boon. Questa lambic, che una volta era una rarità e veniva prodotta solo per poche settimane durante l’estate, oggi è divenuta una birra gradevolissima, da bere molto fredda, soprattutto come aperitivo, coi suoi 5% vol. che a stento si percepiscono. Il suo inconfondibile sentore di lampone è dato dalla presenza del 30% di lamponi freschi aggiunti in fase di fermentazione e ciò le regala eleganza, freschezza, e notevole sprint. Non ho mai particolarmente apprezzato le birre o i vini aromatizzati, ma vi assicuro che in questo caso la frutta fresca fa la differenza. E in mente mi sobilla l’abbinamento a un risotto alle fragole mantecato al pecorino e le papille gustative iniziano a danzare…

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     L’attenzione delle mie papille gustative si è invece spostata sulla Gran Cru Rodenbach, dell’omonimo produttore belga, birra agrodolce di stile Ale – Sour Ale/Ale Acida -, con i suoi 6% vol.. La miscela di questa birra rossa è stagionata per due anni in altissimi fusti di quercia, da cui poi prende il sentore acetoso, ma al gusto è assai morbida e burrosa, riuscendo da sola a stemperare l’acidulità citrina e raggiungendo inaspettato equilibrio. Veramente piacevole. L’abbinamento che mi viene in mente attiene sempre al momento dell’aperitivo, in cui vengono servite portate non ancora strutturate, ma dai sapori forti e decisi, come una papaya salad tailandese, anch’essa agrodolce, tendenzialmente molto piccante.

Esauriti questi due assaggi iniziatici, la mia formidabile guida ha iniziato ad alzare il livello della degustazione

     Mi ha presentato una birra che ha segnato definitivamente il mio percorso in questo ambito: la Duchesse de Bourgogne, del Birrificio Verhaeghe a Vichte. 6% vol., in stile Flanders Red Ale, e cioè birra rossa delle Fiandre occidentali.

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     Al naso, come al palato, ho percepito emozioni che non avrei mai potuto attribuire ad una birra prima di allora. Sorvolo sulle reminiscenze di canapa che essa ha richiamato al naso e che, di per sé, la rendono assai inebriante; le peculiarità di questo nettare sono invece rappresentate dal sapore acetico, di tipo balsamico, e dall’invecchiamento in botte. Ciò dona alla birra una complessità unica, il che la rende incredibilmente adatta agli abbinamenti più impensabili. Il produttore ne consiglia l’accostamento anche alla pasticceria, come una crostata di frolla alla confettura di prugne. Non posso esimermi dal provare al più presto tale azzardo!

Avevo già placato la mia curiosità da neofita quando poi è arrivata lei, la Deus del Flandres.

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     E lì il Dio biondo per antonomasia ha vinto oggettivamente sulla Duchessa più sensuale delle rosse fiamminghe. Dal Birrificio Bosteels deriva la Deus del Flandres in stile Champenoise – sì, avete capito bene, è lo stesso metodo degli champagne -, coi suoi 11,5% vol., che non si percepiscono minimamente. In pratica, una birra quanto a ingredienti, uno champagne quanto a processo di produzione. Per cui le prime due fermentazioni avvengono in Belgio, mentre la rifermentazione in bottiglia avviene in Francia, nella regione dello Champagne appunto, seguendo pari pari il metodo classico. La birra che ho degustato è un Brut, il che si traduce in un tenore zuccherino molto basso. La si può tranquillamente sostituire allo champagne negli abbinamenti tradizionali, quali molluschi di mare, formaggi stagionati e primi piatti strutturati. Ma forse con questa birra si può osare di più. L’argomento è da approfondire..

     Concludo questo mio splendido viaggio nel mondo degli affezionati birrofili con una chicca rimasta rinchiusa per 20 anni nella sua caratteristica bottiglia scura dalla forma larga e dal collo basso, come si addice alle birre da meditazione scure leggermente alcoliche e dalla schiuma ricca. Sto parlando della Chimay Grande Reserve, birra in stile Trappista, dell’Abbazia di Notre-Dame de Scourmont, in Belgio. Grado alcolico: 10,5% vol.

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     E, per meglio apprezzare l’evoluzione che tale gioiellino ha avuto in questi ultimi vent’anni a partire dal 1996, la mia guida ha chiesto di confrontarla con la stessa tipologia dell’anno in corso. Ringrazio pubblicamente l’appassionato collezionista che ha voluto condividere con me e Carlo questa follia degustativa (pensate che il valore di mercato della Chimay in questione si attesta sui 150€), ma Mauro Doria, proprietario del famoso pub Granny’s nel centro di Oderzo (TV), è un uomo assai generoso e l’amore che ha per la materia lo porta spesso alla condivisione.

E dunque veniamo all’ultima degustazione comparativa della serata.

     Mi sono sempre detta che i monaci sanno come trattarsi bene. Non solo erigono monasteri in posti panoramici e silenziosi, ma producono per sé e per gli altri anche cibo e alcolici paradisiaci. Lo stile trappista significa questo: che la birra è prodotta all’interno di un monastero trappista, osservante cioè strettamente la regola benedettina, e che la comunità monastica è coinvolta in tutto il processo di produzione della birra. I proventi della vendita del prodotto finito sono utilizzati per le necessità della comunità e per le opere sociali. In tutto il mondo solo 11 monasteri trappisti producono birra e la Chimay è senza ombra di dubbio la più importante. La tipologia Grande Reserve è, d’altra parte, anche la più apprezzata in Belgio proprio per la grande capacità di evoluzione nel tempo.

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     Dopo vent’anni di sedentarietà, il deterioramento del sughero mi è sembrata una circostanza inevitabile; fortunatamente il sentore di tappo, che dapprima ho percepito nel bicchiere, è poi svanito lasciando trapelare tutto il resto. Ho lasciato che il liquido si risvegliasse dal suo torpore per un buon quarto d’ora, dopodiché i sentori di lieviti, oramai esausti, e le reminiscenze non più frizzanti di torrefazione, hanno lasciato la scena a profumi più maturi di prugne in confettura, in primis, e di frutta secca quale noci e fichi, in seconda istanza.

     La spuma ha proseguito la sua corsa in una lenta rarefazione, perdendo la tonalità luminosa del crema in virtù di un color nocciola chiaro più sbiadito. Al gusto, la pungenza di una vivace effervescenza era oramai svanita, distendendosi morbidamente nella bocca e lasciando percepire in chiusura una lieve eco balsamica di olio d’oliva. D’un tratto mi è giunto alla mente il ricordo gusto olfattivo di una passata verticale storica di Vernaccia di Oristano.

Quali assurdi collegamenti riescono a fare talvolta le vie retronasali!

     Questa è una birra su cui si ragiona, si discute, difficile pensare agli abbinamenti. Tuttavia ammetto che la prima cosa che mi è venuta in mente è un erborinato di media stagionatura come il Castelmagno.

     Da neofita della birra mi auguro di aver stimolato la curiosità dei lettori al pari di quanto sia stata stimolata la mia nell’approfondire l’argomento. Per eventuali chiarimenti potete contattare la mia guida dantesca sulla sua pagina facebook Il Brindisi di Carlo Dal Bianco. Vedrete che spasso!

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