Le spine e..la gola. I ricci di mare tra Legge, etica alimentare e degustazione.

Le motivazioni per cui la gastronomia popolare pugliese si contraddistingue per l’elevato il consumo di carne equina, è cosa abbastanza ovvia, sia per le ragioni storiche ed economiche che connotavano lo status delle popolazioni ippofaghe, sia per altri motivi che costituiranno, eventualmente, oggetto di nuove esternazioni.
Ma quando si passa al pescato e, soprattutto al crudo di mare, c’è da farsi venire i brividi.
Nonostante il pesante retaggio ereditato dal passato in ordine a vari episodi segnalati e documentati circa focolai di COLERA per il consumo di cozze nere crude, in epoche vivaddio in cui vi era una assoluta latitanza legislativa che potesse, in un modo o nell’altro, garantire un livello accettabile di sicurezza alimentare, il pugliese medio è tracciabile, fuori di confini regionali, per l’approccio piuttosto rituale al consumo di FRUTTI DI MARE CRUDI e, tra questi, il riccio di mare.
E’ tanto rinomato il litorale pugliese, ben ricco di quasi 900 km di affaccio sul mare , ovvero il 12% dei km di costa italiani , per la ricchezza dei fondali e delle adiacenti scogliere, che frequentemente si assiste al pellegrinaggio di comitive, di appassionati e di “degustatori” orientati all’assalto al RICCIO DI MARE:
Chi in Salento legge queste note, o vi è stato di passaggio in vacanza, cosi’ come analogamente accade dalle parti a sud di Monopoli, intuirà il nome dei luoghi “tanto rinomati” ed ambiti;
qui grotteschi personaggi bardati di muta e retino, o addirittura pseudo ristoranti realizzati con pannelli per prefabbricati al limite del codice penale e con servizi igienici da far arrossire (se non vergognare), dove, tra le altre assurdità, il mollusco è servito in pseudo vassoi (sottovasi da giardino in resina, materiale cioè non autorizzato come MOCA (materiali e oggetti per contatto con gli alimenti), saccheggiano la costa al limite della decenza, in perfetta sintonia con le migliori intenzioni di pirateria marinara ed angustiano, flagellandolo anche con inspiegabili e fantasmagorici conti, il turista malaccorto, affamato ed inconsapevole.
La politica orientata al marketing territoriale attraverso il richiamo gastronomico oltre che paesaggistico dovrebbe tener conto di questi scempi che andrebbero opportunamente monitorati, se non già tollerati …..
Dunque torniamo al buono del mare.
Allo stato attuale la pesca al riccio è regolata dal Decreto Ministeriale 12 gennaio del 1995 adottato dall’allora reggente Ministro per le Politiche Agricole, la nostra ministra salentina Adriana Poli Bortone, ed è composto di cinque articoli che pongono una serie di limiti di seguito riassunti.
L’art. 1 di detto decreto stabilisce che la pesca del riccio di mare è consentita a pescatori subacquei professionisti e sportivi, che possono effettuarla solo per immersione e manualmente, utilizzando attrezzi da raccolta limitati all’asta a specchio e al rastrello.
L’art. 2 precisa che il pescatore professionista non può catturare giornalmente più di 1000 esemplari; al contrario il limite giornaliero per il pescatore sportivo è fissato in 50 ricci.
L’art. 3 fissa la taglia minima di cattura del riccio di mare: non inferiore a 7 cm di diametro totale compresi gli aculei.
Secondo quanto stabilito dall’art. 4, la pesca professionale e sportiva del riccio di mare è vietala nei mesi di maggio e giugno.
L’ultima disposizione, art. 5, stabilisce le sanzioni che scaturiscono dall’inosservanza delle precedenti norme, ai sensi degli articoli 15, lettera a, e 26 della legge 14 luglio 1965, n. 963.

Questo abitante dei fondali marini, insieme alla stella di mare e al cetriolo di mare, appartiene alla categoria degli echinodermi (dal greco ekhînos = riccio e dérma = pelle).
Il riccio di mare tanto caro al nostro e vostro palato è il Paracentrotus lividus, volgarmente detto riccio femmina che, in virtu’ di un pigmento spinocromo, assume colorazioni con tinte che variano dal marrone al rossiccio, dal giallognolo al violaceo, in contrapposizione all’Arbacia lixula (detto riccio maschio), nero cupo.
Questi animali sono dotati dei due sessi co-presenti nella polpa rossa, ed è per questo un ermafrodita classico, in cui l’incontro tra gameti in fecondazione produce embrioni pelagici che saranno cosi’, in preda alle correnti, dei perfetti impollinatori costieri.
La colonizzazione del litorale avviene grazie a particolari strutture anatomiche che, come ventose, consentono lo spostamento o la fissazione alla roccia del mollusco, mentre il nutrimento attraverso l’apparato buccale dotato di 5 robusti denti situati in posizione ventrale, opposto a quello fecale che rimane invece in posizione dorsale.
Peculiare caratteristica anatomica del riccio di mare è, oltre agli aculei, la presenza di queste micro strutture, pedicelli ambulacrali, costituiti da piccoli tubicini terminanti con ventose che, riempiendosi d’acqua, si allungano e si induriscono, permettendone la dinamica, oltre che alla presenza di un vero e proprio apparato branchiale. Si nutrono di alghe, oltre che di piccoli animali vivi o morti.
La degustazione delle gonadi offre al palato sensibili note espressive legate al profumo della costa avviluppata nel velluto algale, le cui fragranze lo rendono particolarmente gradito al consumo che, in virtu’ di una succulenza intrinseca alla polpa, in cui troviamo percentuali di acqua prossime al 95%, ne favorisce un improprio uso del parenchima addirittura per condire la pasta come se fosse burro (ben 80 ricci a porzione).
Riteniamo doveroso sottolineare la non sostenibilità di un siffatto consumo di un prodotto selvaggio che comunque rappresenta uno stock condiviso e che richiederebbe tempi e ritmi di prelievo orientati al rispetto della biologia della specie cosi’ come delle esigenze VERE di subacquei professionisti e dei ristoratori tutti che, dubito, traggano sostanze e voluminosi profitti per il sostentamento delle proprie attività, dalla pesca e somministrazione del riccio.
Ai biopirati resti la facolta’ di saccheggio, al consumatore la dignità di una rinuncia.
Comoda e garbata sarà, per chi vuole operare un assaggio, la tranquilla consuetudine di sorbire il prezioso parenchima con l’utilizzo di un cucchiaino da caffè; ripetuto l’ingresso in bocca dopo una preliminare impomatata orale con il primo assaggio, si potrà godere, ed è un gran bel godere, dei profumi algali e di una sensazione tattile trigeminale linguale, di succulenza e debole untuosità conferita appunto dalla solubilizzazione, a contatto con le mucose del cavo orale, del prezioso frutto.
Il connubio, invece, con il pane, utilizzato per la piu classica delle “scarpette”, non farà tremare i piu osservanti di un bon ton a tavola, ma, si sa, “meglio grattarsi dove prude che essere Re”.
Una esperienza tutta marinata, è quella di spadellare un ciuffo di spaghetti con aglio e prezzemolo, ed arrotolarvi la forchettata di pasta fino ad avvinghiare la polpa e concedersi, cosi’, una vera esperienza gastronomica sulla quale concludere e poter fondare la propria conoscenza del nostro preziosissimo abitante costiero.

di Michele Polignieri
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