Mariusz Kapczyński sulla vitivinicoltura della Turchia – Sapore d’oriente

Articolo di Mariusz Kapczyński – Traduzione di Mario Crosta .

Dal punto di vista enologico abbiamo pochissime informazioni sulla Turchia del vino, nonostante che sia l’ultimo Paese europeo dei Balcani meridionali e abbia sempre fatto da ponte e da baluardo con l’Asia all’estremità orientale del Vecchio Continente. Il mitico Orient Express ci ricorda pure qualcosa, no? Ma non si parla tanto volentieri della Turchia a causa del suo regime dittatoriale e guerrafondaio che ammette costituzionalmente la pena di morte, continua a fare strage di Curdi dopo averla fatta degli Armeni ed è sempre in stato di guerra contro la Grecia. A scoprire qualcosa ci dà una mano Mariusz Kapczyński. Il nostro globetrotter polacco è andato proprio laggiù, anche sorvolando in mongolfiera le misteriose vigne locali, degustando alcuni dei vini che i Turchi ostinatamente vi producono e scrivendo questo reportage che vi ho tradotto volentieri e che pubblicherò in due parti. Cliccando qui potete godervi tutte quelle che lui stesso ha scattato, alcune delle quali corredano già questo suo testo.

Il traduttore: Mario Crosta

Foto dell’autore – ©

Sapore d’Oriente

La Turchia ha una delle più antiche tradizioni enologiche e, anche se è difficile considerarla oggi come uno dei Paesi principali nella produzione di vino, non c’è dubbio che sia uno dei primi posti al mondo dove si è iniziata a coltivare la vite. Le ricerche archeologiche dimostrano che proprio qui, nelle aree odierne di Turchia, Georgia, Armenia e Iran, sono state trovate dopo 6 millenni le tracce della presenza della vitis vinifera nell’antichità.

L’impero di ieri e di oggi

La Turchia è stata per lungo tempo il ponte tra la cultura del vino dell’Europa mediterranea e quella del Caucaso meridionale. Anche se l’Impero Ottomano, con l’islamizzazione del territorio e il conseguente divieto del consumo di alcool, ha pesantemente fiaccato la cultura del vino, non ha potuto distruggere però quella della vite, che ha continuato destinando le uve al consumo quotidiano di frutta o alla produzione dell’uvetta passita. È proprio questo utilizzo non enologico che ha permesso la sopravvivenza delle varietà autoctone locali durante il dominio della grande potenza (anche se una certa quantità di vino veniva ancora prodotto, ma per l’esportazione).

La storia stessa ha trovato la soluzione opportuna: dopo secoli di crisi, nel 1923 l’Impero è finalmente crollato, dando vita alla repubblica della Turchia e a una storia completamente nuova di queste terre. Con questa specifica apertura tra Oriente e Occidente e le conseguenti tensioni fra le differenze culturali e mentali, la Turchia ha elaborato uno specifico status enologico. Questo Paese oggi non manca di vigneti ed è considerato anzi come uno dei principali produttori mondiali d’uva (con un piazzamento in prossimità del 5° posto), ma si tratta soprattutto di frutta per il consumo quotidiano, di uva passa, di succhi di frutta, eccetera. Per quanto riguarda la produzione di vino non va poi tanto bene. Se ne fa un po’, anche se le statistiche ne indicano un regolare incremento. Secondo l’OIV (Organisation internationale de la vigne et du vin), nel 2006 la Turchia aveva quasi 560.000 ettari di vigneti.

In quell’anno, però, si sono fatti soltanto circa 280.000 ettolitri di vino, secondo dati che, tuttavia, potrebbero essere imprecisi e limitati. Attualmente si parla di circa 250.000 ettolitri di produzione annuale di vino. Vale la pena di ricordare che al riordino di statistiche, dati e informazioni di carattere generale ha contribuito la nascita, qualche anno fa, dell’organizzazione Wines of Turkey, che collabora con le sette cantine più importanti del Paese ed è responsabile della promozione del vino, delle questioni connesse con le sue esportazioni, eccetera. C’è ancora certamente molto da fare, ma il potenziale enologico è davvero grande, quindi ci si può aspettare dei buoni risultati. Il comparto vino cresce gradualmente, ma un gran numero di vignaioli vende ancora semplicemente le proprie uve alle grandi cantine o alle grandi industrie conserviere.

Qui la cultura strettamente enologica non è poi così sviluppata come si potrebbe sospettare. Anche le tasse elevate non la facilitano, rendendo la produzione e la distribuzione dei vini più costosa di quanto non lo sia per altri alcoolici e rinfocolando, inoltre, il commercio dei vini che provengono da fonti non dichiarate e perciò incontrollabili dallo Stato. La tassa stessa (del valore di circa 2 euro) raddoppia quasi il prezzo di ogni bottiglia, il che rende relativamente cari anche i vini base. Bere vino al ristorante è un lusso; una bottiglia di vino comune può costare perfino il prezzo di una buona cena moltiplicato più volte.

È anche difficile parlare di facile accesso per quanto riguarda i vini turchi. Anch’io ho avuto qualche problema con lo shopping. I prezzi delle bottiglie più economiche che ho comprato oscillavano intorno ai 12 – 15 euro.

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L’occhio del Profeta

La moderna Turchia è ancora un paese laico, anche se la religione dominante è, come sapete, l’Islam. Tutte le questioni relative all’importazione e alla distribuzione dell’alcool sono regolate dal diritto civile, tuttavia i luoghi maggiormente conservatori, dov’è più forte l’influenza dell’Islam, ovviamente, non sono favorevoli allo sviluppo e al commercio del vino. In ogni caso qui si nota la differenza con i Paesi dove vige la legge islamica (per esempio l’Arabia Saudita), nei quali il divieto di alcool riguarda addirittura tutti i cittadini. Va notato che nell’Islam, il vino è considerato l’incarnazione del male, il divieto del suo consumo è uno degli elementi essenziali della legge islamica.

Il Corano parla di questo anche nella Sura, 5:90-91: “O voi che credete! Il vino, il gioco d’azzardo, le pietre idolatriche, le frecce divinatorie sono immonde opere di Satana. Evitatele affinché possiate prosperare. Satana vuole seminare inimicizia e odio tra di voi e allontanarvi dal ricordo di Allah e dalla preghiera. Ma la Turchia non è un Paese troppo conservatore. Il consumo di alcool è abbastanza comune; c’è una birra come la Efes che non ha molta concorrenza, c’è il vino, anche se il consumo non è granché (secondo le statistiche ufficiali è inferiore a 0,5 litri pro capite l’anno) e c’è il più popolare liquore locale: il Raki. La base per la produzione del Raki è l’alcool etilico distillato dalle uve (a volte dall’uva passa dai fichi), cui si aggiungono anice e finocchio per conferirgli un aroma e un sapore particolari con la caratteristica torbidezza che si manifesta quando si aggiunge acqua. La storia del raki, però, la lasciamo per una prossima volta. Adesso siamo più interessati ai fatti che riguardano Mustafa Kemal Atatürk (1881 – 1938), il primo presidente turco, il più importante della storia della Turchia moderna. Atatürk è un personaggio particolare per i turchi, lo spiritus movens di molte trasformazioni estremamente importanti per il Paese, collegate alla sua modernizzazione ed europeizzazione. Questo presidente leggendario ha ridotto drasticamente, fra molti altri cambiamenti, l’interferenza dell’Islam nella politica dello Stato, ha introdotto l’alfabeto turco-latino al posto di quello turco-arabo, ha dato la possibilità ai cittadini di scegliersi per la prima volta un cognome, ha fatto ripulire la lingua turca dai barbarismi arabi. Uno degli effetti di queste riforme e delle “aperture” della Turchia è stato il riconoscimento ufficiale del primo vigneto commerciale della Turchia. Ciò è avvenuto nel 1925, data che può essere considerata come l’inizio della moderna enologia turca.

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Occhio di bue e altre storie

La Turchia ha i suoi tesori enologici. Può vantare numerose varietà autoctone della specie vitis vinifera. Gli ampelografi ne hanno identificate oltre 600, ma soltanto una quindicina è commercialmente sfruttata e fornisce ai vini uno spaccato stilistico completo: ne nascono molti bianchi, un po’ meno rossi, ma anche alcuni rosati e dolci (p. es. si sta provando a fare vini liquorosi e ice wines). Le aree in cui le viti sono coltivate si trovano in condizioni climatiche diverse e spesso difficili. La mappa del vino della Turchia appare concentrata nelle regioni della Tracia e dell’Anatolia. La Tracia (Marmara), cioè la parte “europea” della Turchia. Il Mar di Marmara vi ha un forte impatto sul clima. Ci sono un sacco di vigneti; qui nasce circa il 40% di tutti i vini turchi.

Prevale il mite clima mediterraneo, che è come quello della Bulgaria meridionale e della Grecia nord-orientale. Dominano le terre argillose, sabbiose e ghiaiose, i vigneti si trovano su dolci pendii (fino a 200 metri s.l.m.). Per la distribuzione e lo sviluppo economico della Tracia è importante la vicinanza a Istanbul, con la sua marea di turisti, perché i ristoranti consentono di smaltire facilmente la produzione. E proprio in questa regione c’è anche la prima ambiziosa, moderna cantina d’autore, Sarafin, impegnata nella produzione di vino da vitigni europei. L’area produttiva più importante dovrebbe essere quella del golfo di Saros, la zona intorno a Tekirdağ, Mürefte, o l’isola di Bozcaada. In Tracia si coltivano Gamay, Cinsault, Sémillon, Merlot, Cabernet Sauvignon e Riesling, ma ci sono anche i vitigni autoctoni turchi Yapincak e Papazkarasi (Papaskara).

Le varietà europee come Sémillon, Grenache e Carignan, il Merlot e Cabernet Sauvignon sono coltivate nella parte occidentale del paese, sulla costa egea, intorno alla città di Izmir. Ma le zone di produzione più importanti e pregiate sono Denizli, Manisa e Çal. I vigneti di questi terreni molto poverisi arrampicano fino a circa 1.000 metri s.l.m. e producono circa il 20% dei vini turchi (per lo più bianchi). Qui si sente maggiormente l’impatto del clima mediterraneo, con inverni relativamente miti ed estati calde e secche. I Vigneti, arroccati per lo più su terreni calcarei e argillosi, spesso lavorando a pieno regime, senza limiti di resa, cosa che ovviamente si riflette nella qualità. Fra le varietà locali si coltiva il delicato vitigno rosso Çal Karasi. L’Anatolia vanta una delle più antiche culture del vino, le cui tracce archeologiche risalgono fino al Neolitico.

Sono state scoperte le tracce della vite selvatica che ha dato origine a molte varietà locali. Nella parte centrale e in quella orientale di questo altipiano, fra un gran numero di microterritori sparsi, nasce il resto dei vini turchi. L’Anatolia centrale (Cappadocia) ha un clima rigido, severo. I vigneti raggiungono altitudini anche superiori agli 800 metri s.l.m. e devono dimostrare resistenza ai gelidi inverni (la temperatura in queste zone scende fino a -25°C, una vera minaccia per le colture) e alle secche, calde estati. La media delle temperature è comunque alta e subisce l’influsso di non più di 12 ore di pieno sole al giorno. L’Anatolia centrale ha un sacco di terreni calcarei, che favoriscono la struttura dei vini. Una delle varietà locali è la Narince, prettamente originaria di queste terre, che dà vini bianchi aromatici. Condizioni un po’ migliori si trovano nella parte orientale dell’Anatolia, nei vigneti situati nel bacino dell’Eufrate e intorno alle città di Elaziğ, Diyarbakir e Malatya. Qui dominano le varietà locali rosse Oküzgözü (traduzione: Occhio di bue) e BogÏazkere (da cui nasce il succoso vino Buzbağ, tipico della regione e ricco di tannino). I vini manifestano uno stile tradizionale, un po’ rustico, spesso intrigante. La resa per ettaro non è alta, spesso è meno di 35 hl. Questa zona è interessante anche perché secondo la Bibbia sarebbe la località in cui Noè, dopo il diluvio, stabilì sulle pendici dell’Ararat il primo vigneto (Genesi 9:20).

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Risalire alle radici

La Turchia sta cambiando sul serio l’aspetto del suo vino. Anche se i cambiamenti avvengono lentamente e il Paese non ha un ruolo ancora affidabile nel mercato internazionale, offre vini sempre più promettente e originali. Oggi la produzione è dominata dai grandi produttori, come Tekel e Kavaklidere in Anatolia e Doluca in Tracia. Va notato che negli anni ’90 si sono importati con entusiasmo sia i vitigni europei sia gli specialisti (per esempio dalla Francia) e i cambiamenti economici hanno permesso di creare piccole aziende vinicole interessanti e di elaborare dei vini d’autore. Sebbene per molto tempo lo standard non è stato certo quello delle vasche di acciaio inox con fermentazione a temperatura controllata e di altre moderne attrezzature, nelle cantine ambiziose la situazione è cominciata a migliorare in modo significativo dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. Tuttavia si evidenzia uno spiccato bipolarismo. Questo è un altro punto cruciale: l’enologia della Turchia è divisa in maniera ben distinta tra produttori di vini senza pretese, semplici, con prodotti di massa e produttori piccoli, ma ambiziosi, di vini costosi. Manca un centro forte che possa diventare la spina dorsale di questo settore e calibrare meglio i prezzi con la qualità. Per i grandi cambiamenti bisogna aspettare ancora un po’.

Per ora la gran parte dei vini viene consumata da una massa di turisti, ai quali le formule “all inclusive” forniscono proprio i vini non molto ricercati. Inoltre, molti produttori turchi pensano ancora alle massime rese in vigna. Questa concezione enologica è stata adottata acriticamente per lungo tempo direttamente dal settore della produzione di uva passa, dove nulla impedisce di utilizzare appieno la capacità produttiva delle viti. È soltanto da poco che nelle cantine turche è apparsa la consapevolezza, invece, di limitare la produttività e di un’adeguata riduzione delle rese. L’enoturista, comunque, a parte i monumenti fantastici che offre la Turchia, dovrebbe provare perlomeno a sfiorare gli aspetti enologici di questo Paese. La Turchia ha tutta la potenza delle sue attrazioni allettanti, ma la scoperta delle potenzialità dei suoi vini può costituire anche un’avventura. Si può provare da diverse direzioni. Una delle più grandi aziende vinicole che inizialmente apparteneva al monopolio statale è Tekel. È famosa la già citata cantina moderna Sarafin nella penisola di Gallipoli in Tracia. Degna di riconoscimenti, anche se produce vini di stile modesto, è la cantina Pamukkale. Negli ultimi anni sono cresciute le piccole cantine che utilizzano il potenziale del territorio e le varietà autoctone; personalmente credo che proprio queste saranno sempre più al centro dell’attenzione.

Mariusz Kapczyński

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