Nutrinform e Nutriscore, per me pari sono inutili.

Dario Dongo recentemente ha pubblicato sul suo sito https://www.greatitalianfoodtrade.it un articolo sull’ormai spinoso problema dei profili nutrizionali da riportare sull’etichetta. Dongo ci informa che il governo italiano ha proposto l‘etichetta a batteria, NutrInform Battery , quale alternativa al sistema NutriScore, applicato in Francia e Belgio, Svizzera, Spagna e Portogallo, Olanda, Lussemburgo e Germania.

Dongo parla di “vergogna italiana” perché “è sulle politiche nutrizionali, come su quelle ambientali, che si gioca il futuro dei nostri figli” e in questo caso è evidente, secondo Dongo, l’asservimento all’industria che produce cibo spazzatura.

Io vorrei approfittare per entrare più nello specifico, provando ad osservare il problema dal punto di vista del valore nutrizionale del cibo.

Di cosa parliamo e perché c’è l’esigenza di riportare in etichetta le informazioni nutrizionali?

L’OMS, l’organizzazione mondiale della Sanità, visto l’abnorme aumento dell’obesità, sta sviluppando apposite linee guida per fornire indicazioni semplici ma efficaci ai consumatori.

L’attenzione è puntata soprattutto sugli zuccheri semplici, sui grassi saturi e sul sale.

Gli zuccheri semplici non devono superare il 10% dell’apporto energetico complessivo, i grassi non dovrebbero eccedere il 30% dell’energia assunta, il sale non deve andare oltre il 5% al giorno.

Tenendo fermo questo obiettivo, al momento sono stati elaborati due sistemi di etichettatura: semaforo e batteria, in pratica due metodi che sfruttano l’efficacia di colori diversi per mettere sull’avviso i consumatori al momento di comprare un alimento.

Nel primo caso ci sarà semaforo rosso o giallo o verde per indicare quale prodotto si può mangiare tranquillamente e quale invece sarebbe meglio consumare meno.

Nel secondo caso una batteria più o meno carica.

Serve, è utile un approccio di questo tipo?

Il ragionamento non fa un grinza, ha una sua logica, per un po’ di motivi: tutti sanno che gli zuccheri semplici alzano il picco della glicemia, il sale è pericoloso, i grassi saturi danno problemi cardiocircolatori, il calcolo della quantità che ciascuno può assumere è complicato e non è pensabile che il consumatore vada nei supermercati con calcolatrice e manuale di istruzioni per scegliere cosa mangiare.

Meglio semplificare il momento dell’acquisto con messaggi elementari ed efficaci, tipo il semaforo o la batteria.

Però, come si diceva una volta, la verità è rivoluzionaria quanto è tutta. In questo caso l’errore fondamentale è che sono stati presi tre parametri che saranno sì importanti ma poi non più di tanto.

Premesso che chi è bulimico o sovrappeso non va certo a leggere l’etichetta, e che tutti saprebbero ridurre il sale o lo zucchero se lo volessero, ci si accorge facilmente se un cibo è troppo dolce o salato, anche perché il flavour sarebbe poco allettante.

Sui grassi saturi un ragionamento va fatto e ne parlerò più avanti. Ma è tutta qui la nutrizione? Prendiamo il pane, quello insipido della Toscana.

Non ha sale, non ha zuccheri, il contenuto dei grassi saturi è minimo e ininfluente, quindi a tutti i prodotti che derivano dai cereali, ma anche dai legumi, daremo semaforo verde o batteria carica? E poi, sono tutti uguali?

Ma il grano contiene proteine ed amminoacidi, contiene molecole volatili responsabili dell’aroma, carotenoidi responsabili del colore ma anche del potenziale antiossidante, contiene polifenoli, responsabili anch’essi in parte del colore e in parte (per me in gran parte) del gusto. Ma soprattutto, il contenuto di queste molecole può essere molto diverso da un grano all’altro.

grano cappelli
Photo Mario Salzarulo

Andiamo al latte così parliamo dei grassi saturi.

Nel latte e nei formaggi i grassi saturi sono presenti, eccome.

Ma variano molto in funzione dell’alimentazione degli animali.

Il rapporto saturi/insaturi va da 80/20 in animali alla stalla e che utilizzano mangimi non di qualità, a 45/55 in animali al pascolo.

La differenza è enorme ma non è tutta qui.

Perché, se gli animali sono al pascolo, non solo gli insaturi saranno più elevati ma anche il rapporto omega6/omega3 sarà migliore, così come il contenuto dei volatili, dei carotenoidi e, soprattutto dei polifenoli.

Quindi, in questo caso, il dato dei saturi in etichetta ci aiuterebbe a capire il livello qualitativo di quel latte o di quel formaggio.

Però, così come è riportato in etichetta non è di grande aiuto, perché noi ritroviamo il dato assoluto e non in percentuale, che noi non sappiamo e possiamo interpretare, per cui bisogna ogni volta calcolarne la percentuale sul grasso totale.

Quindi, se si mettessero a punto degli indici come il rapporto saturi/insaturi, forse arriveremmo a comunicare in maniera semplice il livello qualitativo e nutrizionale di un prodotto.

Ma come inserire i volatili e i polifenoli?

Sono complessi e costosi da analizzare e poi le ricerche sono continuamente in evoluzione.

Ma la questione vera riguarda l’approccio al cibo dei nutrizionisti.

Si parla sempre al singolare: la carne bianca fa bene, quella rossa fa male, il latte contiene colesterolo, il pesce azzurro fa bene, i molluschi no, così via. Invece, le materie prime non sono tutte uguali.

Un solo esempio.

Nel mondo un gran numero di ricercatori si sta concentrando sui polifenoli perché antiossidanti, antibatterici, anticancro, etc. Il loro contenuto, nelle materie prime è molto variabile.

Nella cipolla varia da pochi milligrammi a 4000 mg. Le differenze, all’interno dello stesso alimento, possono essere enormi.

E la cipolla non ha zuccheri, sale e grassi saturi.

Quindi non hanno senso l’etichetta nutrizionale e nemmeno il semaforo o la batteria, anzi questo tipo di comunicazione rischia di darci informazioni fortemente sbagliate. Io ritornerei ad Ippocrate: è la dose che fa il veleno.

Meglio l’etichetta del vino, soprattutto quelle etichette artistiche, minimali, dove c’è solo il nome, anche difficile da ricordare. Se piace, lo ricompri, altrimenti passi appresso.

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