Pasta war!
- Il provvedimento nasce da una procedura periodica, attiva dagli anni Novanta, riaccesa su istanza di produttori americani e focalizzata su un campione di imprese italiane.
- Le controdeduzioni dei pastai e delle associazioni di filiera insistono su due piani.
- Gli effetti attesi di un dazio al 107% sarebbero rilevanti lungo l’intera catena.
- La reazione delle imprese si è articolata su tre direttrici:
- La difesa legale ha tempi incerti; la diversificazione commerciale, pur necessaria, non compensa nell’immediato la perdita di un mercato a elevato valore.
- Gli esiti possibili spaziano da una conferma dei margini preliminari, con entrata in vigore dal 1° gennaio 2026, a una parziale ricalibratura delle aliquote.
- Quali contromisure di filiera sono credibili nel breve?
- Ed infine un piano di comunicazione integrato contro l’italian sounding, che in un contesto protezionistico tende a proliferare e a cannibalizzare la reputazione costruita nei decenni.
- In definitiva, la partita dei dazi sulla pasta non è solo una controversa tecnica.
Gli Stati Uniti hanno preannunciato un super-dazio sulla pasta italiana che potrebbe arrivare a circa il 107% dall’inizio del 2026.
Sommando un’aliquota antidumping del 91,74% alla tariffa del 15% già applicata, con possibili effetti retroattivi sulle spedizioni del 2025 secondo gli esiti finali della revisione in corso presso il Dipartimento del Commercio statunitense.
Il provvedimento nasce da una procedura periodica, attiva dagli anni Novanta, riaccesa su istanza di produttori americani e focalizzata su un campione di imprese italiane.
I risultati preliminari su alcune aziende sono stati poi estesi in via amministrativa a un perimetro più ampio del comparto, con margini provvisori giudicati eccessivi dall’industria e dalle istituzioni italiane.
Il tema, politico ed economico insieme, riguarda un mercato chiave per i pastifici.
L’export di pasta verso gli USA vale intorno ai 700-800 milioni di dollari l’anno ed è uno dei pilastri del made in Italy alimentare, accanto a vino, olio e formaggi.
L’accusa americana è quella classica del dumping.
Vendite negli Stati Uniti a prezzi inferiori al valore “normale”, individuato sulla base dei listini domestici o dei costi; a cui, in alcuni casi storici, si affiancano profili antisussidio già oggetto di dazi compensativi dagli anni Novanta, tuttora rinnovati annualmente.
Le controdeduzioni dei pastai e delle associazioni di filiera insistono su due piani.
Da un lato, nei canali retail USA i prezzi al consumo della pasta italiana risultano mediamente superiori rispetto all’Italia, elemento che metterebbe in discussione l’ipotesi di sistematica sottofatturazione commerciale.
Dall’altro, la metodologia di calcolo del margine di dumping e l’estensione “per analogia” ad aziende non campionate rischiano di trasformare uno strumento tecnico in una barriera protezionistica de facto.
Sullo sfondo agire due driver:
- la pressione competitiva dei marchi locali;
- il valore simbolico della pasta italiana, che in America coincide con qualità percepita e disponibilità a pagare un premium price, rendendo appetibile l’innesco di contenuti amministrativi in nome della tutela del mercato interno.
Gli effetti attesi di un dazio al 107% sarebbero rilevanti lungo l’intera catena.
In prima battuta, un aumento secco dei listini all’import tale da erodere la competitività della pasta italiana, con rischio di sostituzione della domanda verso prodotti “italian sounding” o verso produzioni USA.
In seconda battuta, una ridistribuzione dei volumi verso l’Europa che comprimerebbe i margini dei trasformatori e, a cascata, dei cerealicoltori, già esposti alla volatilità dei prezzi del grano duro per shock climatico e geopolitici.
La reazione delle imprese si è articolata su tre direttrici:
- azioni legali negli Stati Uniti per contestare margini e metodo;
- diplomazia economica, con un lavoro congiunto tra governo italiano e Commissione europea in sede amministrativa;
- piani industriali di mitigazione, dall’eventuale confezionamento o produzione in stabilimenti nordamericani per neutralizzare l’effetto tariffario, alla diversificazione verso mercati meno esposti in Nord Europa e Asia-Pacifico.
Non si tratta di scelte indolori: la delocalizzazione richiede capitali, scala e orizzonte pluriennale, e non è alla portata di tutti i player.
La difesa legale ha tempi incerti; la diversificazione commerciale, pur necessaria, non compensa nell’immediato la perdita di un mercato a elevato valore.
Sul piano istituzionale, la Farnesina ha attivato una task force permanente sui dazi statunitensi e ha depositato una memoria formale a supporto delle aziende.
Nel frattempo la Commissione europea ha confermato il coordinamento con Roma e la disponibilità a intervenire nella fase finale della procedura americana.
La sequenza regolatoria prevede una determinazione conclusiva entro fine anno.
Gli esiti possibili spaziano da una conferma dei margini preliminari, con entrata in vigore dal 1° gennaio 2026, a una parziale ricalibratura delle aliquote.
Fino a giungere a soluzioni transattive che modulino il dazio per produttore in funzione della collaborazione documentale e della ricostruzione puntuale dei prezzi di riferimento.
La storia dei contenziosi sulla pasta indica che le revisioni amministrative annuali possono correggere in parte gli esiti.
Ma questi effetti non azzerano l’incertezza dei costi di compliance, che nel frattempo si scaricano su listini, investimenti e occupazione.
Quali contromisure di filiera sono credibili nel breve?
Primo, una strategia di “value defence” sui brand premium, con focalizzazione di gamma su formati, grani e ricette a maggior valore percepito, per sostenere un eventuale differenziale di prezzo senza collassare i volumi.
Poi, in secondo luogo, un rafforzamento delle filiere miste, valutando il confezionamento locale di semilavorati laddove economicamente sostenibile.
Ed infine un piano di comunicazione integrato contro l’italian sounding, che in un contesto protezionistico tende a proliferare e a cannibalizzare la reputazione costruita nei decenni.
Parallelamente, sul versante agricolo, sarà cruciale una gestione coordinata degli stock e dei contratti di coltivazione del duro.
E ciò per evitare oscillazioni disordinate nei prezzi all’origine se una quota di produzione venisse riallocata dai pastifici verso mercati alternativi.
È un esercizio di ecologia industriale. Riallineare produzione, trasformazione e sbocchi commerciali in un quadro regolatorio mobile, tenendo insieme competitività e coerenza identitaria del prodotto.
In definitiva, la partita dei dazi sulla pasta non è solo una controversa tecnica.
Tocca l’architrave del sistema agroalimentare italiano nei suoi asset soft power (reputazione), hard power (capacità industriale) e potere di mercato (posizionamento prezzi).
La risposta più efficace non può che essere multilivello:
- contenzioso amministrativo tempestivo;
- diplomazia economica ferma e informata;
- innovazione di processo e di modello go-to-market per gestire l’eventuale tariffario shock senza cedere terreno al falso Made in Italy.
Anche qualora la misura venisse attenuata in sede finale, il segnale resta chiaro: l’accesso al mercato USA è sempre più condizionato da strumenti para-tariffari e revisioni ricorrenti.
Prepararsi a viverli come variabile strutturale, e non come eccezione, sarà la vera prova di maturità per l’intera filiera della pasta.


