Quello scoglio dei carciofi…

L’altro ieri mi sono bevuto un Barbaresco di Angelo Gaja soltanto per una raptus improvviso, perché bottiglie così importanti vogliono come minimo un preavviso, se non tutta una procedura, nonché un abbinamento regale, anche preparato da tempo con tutti i crismi del caso. E poi va celebrato in compagnia, invece ero proprio da solo e ancora in pigiama.

Ma non avevo proprio nessuna voglia di andare fuori a comprare un vino quotidiano da quattro soldi. Nevicava. Ma sì, dai, apriamone una di quelle buone… però poi con che cosa me la bevo? E così sono andato a studiarmi il frigorifero…

Con l’emmenthal? No. Con il prosciutto di tacchino? Puah! Con il gorgonzola piccante? Piace di più alla moglie. Ci sarebbe solo un filettino di maiale da abbinare eventualmente a cotanto vino. Nient’altro che quello e tutto sommato non ci stava neanche poi tanto male, magari per farne delle cotolettine impanate, delle scaloppine al limone, delle bracioline alle erbe aromatiche, insomma qualcosina di appetitoso. Il guaio è che stavolta mi è mancata del tutto anche la voglia di cucinare. Bollito… Che cosa? Bollito. Ma siamo matti? Quella lì non è mica una carne da bollire! E chi l’ha detto? In ospedale ai malati gliela fanno così. Ma scherziamo, con un Barbaresco di Angelo Gaja? Meglio pucciarci dentro le fragole, piuttosto.

E perché no? Ma non c’è niente di peggio della carne di maiale bollita per un signor vino del genere! Siamo proprio sicuri? Ecco, pensate che ero indeciso se mangiare o addirittura saltare il pranzo e se davvero valesse la pena tirar su dalla cantina quella bottiglia di lusso in un giorno qualsiasi, non una festa, e stapparmela in tempo, un paio d’ore prima per gustarmela da solo.

L’acquolina in bocca (per la prospettiva del vino, non della carne) mi ha fatto però scendere le scale di corsa, A salire no, anzi le ho fatte al rallentatore per non agitare quel ben di Dio della bottiglia. E così alla fine quel filetto l’ho buttato nell’acqua bollente con due patate, una cipolla e una carota, proprio come si fa per i malati in ospedale. Sento già l’eco delle proteste di voi sani: bere così bene con un mangiare così da “dieta”…

Eppure me lo sono davvero gustato quel Barbaresco, con le due patate lesse e un filo di olio extravergine veronese. Con la cipolla bollita, sbucciata, affettata. Non con la carota, ma che schifezza la carota, pussa via! E ogni tanto un bocconcino qua e un bocconcino là di quel bollito “da ospedale”, ma solo per non scolarmi la bottiglia intera senza mangiare nulla, perché poi si sta male sul serio.

Ancora adesso però sto riflettendo su questa grande cazzata che ho fatto e che ho confessato subito anche sul blog di Lavinium.it dove scrivo di solito, complice il tema (praticamente lo stesso) ben impostato da Roberto Giuliani. Eppure mi sento la coscienza a posto, quel vino mi è piaciuto un casino, è riuscito a farmi mangiare perfino una carne “in bianco” (il che, lo ammetterete, lo rende ancora più grande) e vuoi vedere che la prossima volta lo rifaccio ancora? Ah, per inciso, il sale ovviamente era quello grosso, sbriciolato al momento sulla carne gia’ tagliata sul piatto. Non si mette mai durante la bollitura. In Piemonte si fa così.

Adesso però c’è un tarlo nella testa che mi domanda continuamente cos’avrei fatto se avessi avuto soltanto due uova e un vasetto di carciofini sott’olio. O tre bei carciofi della Riviera Ligure che sarebbero una favola crudi e tagliati finemente “à la julienne” con un po’ d’olio, limone e sale. Rispondere non è assolutamente facile. Bevete acqua, gente, che l’acqua è buona anche da bere, pulite-vi-ci…(-si-ci-vi… eccetera) bene la bocca prima di farle toccare ancora del vino. Ma non rinunciate mai al piacere di gustarvi tutto quel che vi manda in tilt. A me sembra giusto bere vini quotidiani con il pranzo quotidiano e bere vini della festa con il pranzo della festa.

Però con il Chianti Classico Santa Cristina (quando era ancora un signor Chianti, non un Igt, ma che signore!) il marchese Nicolò ci godeva anche le zucchine bollite e poi condite con l’olio extravergine delle sue tenute. E l’indimenticabile amico Loris Scaffei il Sassicaia me lo consigliava anche con un panino appena sfornato al salame artigianale. Insomma, forse a volte esageriamo anche troppo nel rimandare i vini speciali agli abbinamenti speciali. A volte questi mancano, però di speciale ci sono anche quelle piccole voglie di sua maestà lo stomaco, cioè un bel bocconcino di roba buona almeno una volta ogni tanto per riuscire a tirare ancora la carretta quotidiana con buonumore e fiducia nella vita. Non c’è sempre bisogno di lepre in salmì o di piccione in salsa nobile o di cinghiale all’agrodolce o chissamai cos’altro ancora di stratosfericamente godurioso. Se il panzerotto è veramente buono, va bene anche il panzerotto, no?

Bastano anche due patate bollite o un boccone di pane fresco e profumato. Ho smesso da un pezzo, per fortuna, di tenere corsi di degustazione e di abbinamento in Polonia, dove abito ormai da un quarto di secolo, ma vi lascio molto volentieri a chi li sa fare. Io mi sono sempre e soltanto limitato a provare l’unica vera regola, quella di sfatare le regole, specialmente quelle assurde della vecchia, pomposa, sommellerie francese che vietava praticamente una marea di sfiziosità con il vino. Un bel giorno sono riuscito a gustare, con grande meraviglia, e poi a bere, con immensa goduria, un buon rosso invecchiato di ottima qualità con il cioccolato fondente, ma prima lorsignori lo vietavano, lo ricordo bene, tanti anni fa. Per non parlare di un ottimo liquoroso dolce con il gorgonzola piccante, e anche questo era allora perlomeno da verbale. Perfino un Tokaji 3 puttonyos con gli asparagi al burro e uovo, roba da mandarci addirittura in galera, se non erro, a quei tempi.

I falsi miti, li abbiamo demoliti tutti: il vietato tanto per vietare, la vecchia scuola con le sue obiezioni sui cavoli a merenda e tante certezze come la soppressata che odia il vino, il pesce che pretende il bianco e la carne invece sempre con il rosso, lo spumante che è buono per il dolce, il caviale che non lo sopporta, mai con le uova e nemmeno con il gelato… insomma chi più ne ha ne metta. Rimane però uno scoglio, proprio “quello” scoglio: i carciofi. Si è sempre sentenziato che non ci sia nulla di più sbagliato, perché i tannini reciproci si farebbero una guerra, provocando un terribile squilibrio, portando in bocca un gusto amaro quasi stridente e legando i denti. In poche parole un disastro. Ma sui carciofi con il vino c’è da giocarsi davvero una Champions League. Vincerebbero sempre loro, almeno così mi sembrava. Invece la sfida mi ha sempre attirato.

Non avevo trovato nessun vino che potesse portarseli a spasso come si vorrebbe, e sì che di vini ne ho cercati perfino fra quelli ancora sconosciuti, dai vitigni antichissimi delle steppe e delle montagne dell’Eurasia finanche a quelli dei Balcani. Forse una volta sola, un vecchio Ghemme del ‘74, così almeno mi sembrava, fatto ancora da Giuseppe Imazio detto ”al muretu”, il padre di Alberto, un compagno di scuola e di lotta, ma poi più nulla. Ma con i carciofi alla giudìa il vino bianco abboccato di una tipica pulcianella dei castelli romani è andato giù in pompa magna con il tappeto rosso e la banda in piazza. Il luogo comune è quello che carciofi e vino sono incompatibili. Sì, certo, c’è anche un fondo di realtà, ma non esiste la verità assoluta e possono sempre esserci delle eccezioni. E poi, almeno a tavola (e speriamo che duri) non c’è un pretesto sanitario, una sfilza di decreti del premier senza approvazioni parlamentari, un pensiero unico e una vita da galera con l’obbligo a inginocchiarsi ai guru e ai vati delle TV. Un abbinamento ben scelto può valorizzare il gusto di certe preparazioni di carciofi senza nessuna delle controindicazioni che farebbero invece consigliare l’acqua (un vade retro a quest’ultima concedetemelo, suvvia…).

Se ci fosse però qualche lettore con un po’ più di esperienza della mia, lo pregherei vivamente di farsi vivo con Giustino Catalano e Di Testa E Di Gola, perché se non mi rassegno certamente all’idea che per bere un Barbaresco ci voglia per forza la selvaggina, ma non posso però neanche dormire con quelle spine dei carciofi che mi torturano nei dubbi. Sarà pure un fiore, ma che pretese che ha!

Mario Crosta

 

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