Manca ancora qualche giorno alla vendemmia….L’uva attende ancora un poco sui filari per acquistare dolcezza col sole di questa fine estate che non è stata benefica per molta parte d’Italia ma, qui, in Toscana, come ha confermato Donatella Cinelli Colombini, del Casato Prime Donne, potrebbe essere, comunque, una buona annata per il Brunello.
Ma non voglio parlare di vino, data la mia poca conoscenza nello specifico che lascio ai veri conoscitori del settore, ma del mosto cotto….
Questo succo, denso, scuro e dolcissimo, è conosciuto, da tempi passati, nelle case contadine dell’Emilia, della Romagna, delle Marche e di tutto il sud Italia e pure della Sardegna dove però, si otteneva anche dai fichi d’India e dal frutto del corbezzolo, quando non si conosceva ancora l’esistenza dello zucchero di canna o di barbabietola ed era chiamato Saba o Sapa.
Si deduce che il nome sia una derivazione dal latino della parola “sapor”, sapore ma, in Romagna, è facilmente confondibile con un’ altra preparazione chiamata “savor”, il cui nome è di provenienza dialettale ma ha lo stesso significato: sapore.
Ma, lasciando da parte le origini, ripenso a quanto fosse ed è difficile ottenere il mosto, al termine della fermentazione e pronto per la vinificazione considerando che, per fare due litri di Saba, servono sei litri di mosto filtrato che deve bollire a lungo fino a ridursi di due terzi.
Ma perchè tanto interesse per questo che veniva definito erroneamente, anche miele d’uva? La Saba, oltre ad essere un condimento, utilizzato per i legumi e le erbe lessate, si utilizza per la preparazione di dolci e pure per inzuppare i classici “sabadoni”, tipici tortelli romagnoli dei quali parlerò un’altra volta ma c’è pure un ricordo di bambina, quando, con la caduta della prima neve, ne facevamo una granita che, niente, avrebbe da invidiare alle granite siciliane.
Ma l’uso primario, per il quale non poteva esserci casa contadina che lo facesse, era il “Savor”. In realtà si tratta di una marmellata che, con la raccolta della frutta di ogni stagione, partendo da mele, pesche, albicocche, buccia di popone e cocomero, noccioli di albicocca per conferirle il classico sapore di mandorla amara, fichi, uva appesa alle travi nella dispensa, dell’anno precedente e frutta secca, quali noci, pinoli, mele cotogne che si raccolgono proprio in questo periodo e le pere volpine ricordo, anche questo, della mia infanzia.
Tutta questa frutta, tagliata a cubetti, veniva fatta bollire nella Saba, per cinque o sei ore, finché non raggiungeva la densità desiderata. Come si evidenzia, era una preparazione molto calorica dedicata alle giornate invernali più gelide, quando la “galaverna” ricopriva alberi e campi e si doveva spaccare lo strato di ghiaccio negli abbeveratoi. Non posso fare a meno di pensare a questa marmellata spalmata sul pane fatto in casa e inzuppato nel latte, munto e bollito la sera precedente, e un cucchiaio di quello strato di panna che si formava nella notte, gentile concessione di nonna, e che si utilizzava per fare il burro. Oggi, che la frutta non viene più conservata come una volta, nelle dispense, è difficile reperire questa marmellata ma, per chi si volesse togliere la soddisfazione di provare a farla, questa è una ricetta più semplice anche perché, mi risulta che, nel Cesenate, prov. di Forlì, ci sia un’azienda che produce la Saba.
Vediamo come si fa.
Occorrono:
2 litri di Saba;
mele cotogne;
pere e mele;
fichi;
uva sultanina;
buccia di cocomero, popone, di arancia e limone;
cannella;
frutta secca quale: noci, pinoli, mandorle e qualche nocciolo di albicocca.
Si taglia tutta la frutta a pezzi e cubetti e si fa bollire a lungo nella Saba finchè non raggiunge la consistenza desiderata e si mette ancora bollente in vasetti sterilizzati. Provatela per accompagnare formaggi freschi quale “squaquarone”, nella piadina e mescolata con la ricotta per farne un veloce dessert e per la merenda dei bambini.
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