Tempeh: il fermentato indonesiano
Chi incontra per la prima volta il tempeh lo guarda spesso con curiosità.
A metà strada tra un panetto bianco compatto e un formaggio fresco, ha un aspetto piuttosto particolare, perché si possono riconoscere i fagioli (di soia o altro legume) che sono alla base del processo di trasformazione tramite fermentazione, ma anche una sottile pellicola biancastra che li avvolge e li trattiene in un’unica forma regolare.
Basta assaggiarlo, poi, magari appena scottato in padella, per scoprire una consistenza soda, un profumo che ricorda la frutta secca e un sapore deciso, decisamente lontano dalla delicatezza, e per certi versi neutralità, del tofu.
Che origini ha il tempeh?
Le sue radici affondano a Giava, cuore pulsante dell’Indonesia, dove da secoli rappresenta una delle principali fonti proteiche della popolazione.
Non esistono notizie certe sulle sue origini, ma sappiamo che il termine “tempe” compare già nel XVII secolo in un manoscritto giavanese, il Serat Centhini, un’enciclopedia culturale che raccoglie saperi, canti e pratiche quotidiane.
È dunque un cibo che si lega tanto alla sopravvivenza contadina quanto all’identità culturale.
Gli olandesi, giunti come potenza coloniale nelle Indie Orientali, descrissero il tempeh nelle loro cronache alimentari e, attraverso il commercio e gli studi, lo resero noto anche in Europa.
Come spiega Ko Swan Djien il tempeh era già allora un alimento fondamentale nelle diete giavanesi, nonostante la soia non fosse originaria del Sud-Est asiatico, ma era arrivata probabilmente dalla Cina tra XIII e XV secolo[1].
La specificità del tempeh sta nel suo processo di trasformazione.
I semi di soia vengono decorticati, cotti e poi messi a fermentare grazie a un fungo microscopico, il Rhizopus oligosporus, che li avvolge in una rete di miceli bianchi.
È questo intreccio che dona al prodotto finale la sua compattezza, rendendolo facile da affettare e cucinare.
Oltre alla resa sensoriale, la fermentazione arricchisce il profilo nutrizionale: diversi studi hanno dimostrato come il processo riduca i fattori anti-nutrizionali della soia e aumenti la bio-disponibilità delle proteine, oltre a produrre vitamine del gruppo B.[2]
Per questo il tempeh è considerato più digeribile rispetto ad altri derivati della soia, pur conservando un alto contenuto proteico.
L’uso tradizionale del tempeh e la rivalutazione contemporanea.
Nella vita quotidiana indonesiana il tempeh si trova in mille varianti.
A Yogyakarta, una delle città dove è più radicato, viene fritto a immersione e servito con salsa piccante di peperoncini e arachidi, in un piatto che unisce la parte croccante e speziata.
In altre zone si cucina con latte di cocco e spezie, trasformandolo in uno stufato profumato che accompagna il riso, alimento cardine dell’alimentazione.
Un piatto molto diffuso è il tempeh mendoan, fettine sottili di tempeh immerse in una pastella di farina di riso e fritte velocemente in olio bollente, così da risultare morbide all’interno e dorate all’esterno.
È considerato uno street food da consumare in modo informale ed infatti è spesso possibile acquistarlo dai venditori ambulanti.
Fuori dall’Indonesia, il tempeh ha iniziato a circolare nel Novecento grazie alle comunità giavanesi della diaspora, e in particolare negli anni Settanta è stato riscoperto dai movimenti vegetariani e macrobiotici di Stati Uniti ed Europa.
L’attenzione crescente verso le fermentazioni e l’alimentazione a base vegetale lo ha portato ad essere oggi presente nei negozi biologici e nelle cucine di chef contemporanei.
Lo si può marinare con salsa di soia e zenzero, saltare con verdure croccanti, grigliare come alternativa alle proteine animali o persino sbriciolare e usare come ripieno per ravioli, ragù o tacos.
La sua versatilità si spiega con la struttura compatta, che resiste bene a diversi tipi di cottura senza sfaldarsi.
Tempeh homemade.
Fare il tempeh in casa non è un’impresa impossibile, anche se richiede attenzione.
Dopo aver ammollato e decorticato la soia, si procede a una cottura parziale e poi a un’asciugatura accurata, perché l’umidità eccessiva potrebbe compromettere la fermentazione.
A questo punto si mescolano i semi con lo starter di Rhizopus (oggi facilmente reperibile in commercio) e si lasciano fermentare in un ambiente caldo e aerato, idealmente intorno ai 30 gradi.
Dopo 24-48 ore, i semi appaiono avvolti da una coltre bianca e compatta: il segno che il fungo ha colonizzato il substrato e ha creato la tipica matrice del tempeh.
È un processo che richiede cura e igiene, ma che restituisce la sensazione di assistere alla nascita di un alimento vivo, trasformato da una comunità invisibile di microrganismi.
Se la fermentazione in Indonesia è sempre stata favorita dal clima tropicale, in Europa e Nord America il suo successo si deve anche alla ricerca scientifica.
Già negli anni Cinquanta e Sessanta laboratori olandesi e americani ne hanno studiato i meccanismi, con l’obiettivo di diffonderlo come fonte proteica economica e sostenibile.
Il United States Department of Agriculture negli anni Ottanta ha pubblicato manuali per la produzione su larga scala, riconoscendone l’importanza come alimento salutare e adattabile.
Parallelamente, riviste scientifiche come Critical Reviews in Food Science and Nutrition hanno discusso i benefici legati agli isoflavoni della soia e al loro ruolo nella prevenzione di alcune malattie croniche, studi che sembrano essere avvalorati anche dalle ultime ricerche in merito.[3]
Il ruolo del tempeh è cambiato
Oggi il tempeh non è più soltanto un cibo “etnico” o un sostituto della carne, ma un ingrediente che viaggia tra culture culinarie diverse.
In Italia alcuni produttori lo preparano artigianalmente a partire non dalla soia ma da legumi locali, come ceci, lupini o fagioli, adattando il sapere indonesiano alle materie prime del territorio.
Nascono così versioni radicate sul territorio locale che uniscono le tecniche di fermentazione alla tradizione dei legumi mediterranei.
Sebbene il tempeh sia di facile inserimento in primi piatti o piatti unici, la ricetta che vi propongo questa settimana è pensata per offrire l’esperienza vegetale di un secondo piatto, perché spesso è una delle pietanze più difficili da replicare nell’ambito di una cucina vegetale.
Le tecniche di cottura, unite alle caratteristiche di base del tempeh e al suo aroma di nocciole e funghi, permettono di conferire al tempeh un sapore intenso e familiare come quello del brasato, qui accompagnato da una purea di patate e di zucca per la tua tavola vegetale d’autunno.
Tempeh brasato, purea di patate e di zucca.
Ingredienti per 4 persone:
600 g di tempeh di soia (o del legume che preferisci); 3 patate di media grandezza; ½ zucca Delica; 4 bicchieri di bevanda vegetale non zuccherata; 2 cucchiai di lievito alimentare; 1 bicchiere di vino rosso secco; ½ bicchiere di salsa di soia Shoyu; 1 foglia di alloro; ½ cucchiaio di rosmarino secco tritato; 2 foglie di salvia; 1 cucchiaio di burro vegetale; noce moscata; aneto o a piacere altra erba aromatica fresca per guarnire.
Procedimento:
Monda, lava e taglia a cubetti le patate.
Cuoci le patate e vapore, poi schiacciale e mescolale insieme alla bevanda vegetale, un pizzico di sale e la noce moscata.
Porta a ebollizione e mescola fino a ottenere una consistenza morbida e non grumosa.
Se ti fa piacere, puoi mantecare il purea con un un cucchiaio di lievito alimentare e del burro vegetale.
Nel frattempo cuoci al forno la zucca intera, adagiando la parte tagliata verso la superficie della teglia, che avrai ricoperto con un foglio di silicone o di carta da forno.
Una volta cotta (ci vorranno circa 40′ a 200°C, controllala con uno stuzzicadenti), togli i semi con un cucchiaio e recupera tutta la polpa e schiacciala coi rebbi della forchetta.
Mettila in un pentolino insieme a 2 bicchieri di bevanda vegetale, sale e noce moscata a piacere.
Mescola bene finché non otterrai una consistenza morbida e priva di grumi, poi togli dal fuoco e lascia riposare.
Taglia a cubetti regolari il tempeh.
In un wok, scalda mezzo cucchiaio di burro vegetale e rosola il tempeh per qualche minuto finché non avrà fatto una bella crosticina dorata.
Aggiungi le aromatiche secche e sfuma con mezzo bicchiere di vino.
Una volta evaporato aggiungi la salsa di soia e, quando si sarà assorbita, sfuma con il restante bicchiere di vino.
Prosegui la cottura per circa 15 minuti, poi spegni e copri con un coperchio.
Riporta a temperatura i due purea, poi con l’aiuto di due cucchiai prepara delle quenelle di zucca e di patata.
Servi il tempeh accompagnato dalle quenelle, qualche foglia di aneto o altra aromatica a piacere, pepe nero e il sugo formatosi cuocendo il tempeh.
Note
[1]Un posto speciale nella storia del tempeh va riservato alla tesi di dottorato di Ko Swan Djien, discussa all’Università di Wageningen (Paesi Bassi) nel 1962 e intitolata Tempeh: A Microbiological and Nutritional Study. Questo lavoro, uno dei primi a unire osservazione etnografica e analisi scientifica, ha aperto la strada agli studi moderni sulla fermentazione della soia. Ko non si limitò a descrivere il prodotto finito, ma indagò a fondo i microrganismi coinvolti, isolando il ruolo centrale del Rhizopus oligosporus e documentando come la fermentazione migliorasse la digeribilità delle proteine e la disponibilità di vitamine. Le sue ricerche furono anche il punto di partenza per successive collaborazioni con Clifford Hesseltine, microbiologo del United States Department of Agriculture, che negli anni Sessanta contribuì a diffondere il tempeh negli Stati Uniti. Senza quella tesi pionieristica, oggi probabilmente il tempeh sarebbe rimasto confinato al solo contesto indonesiano.
[2]https://pmc.ncbi.nlm.nih.gov/articles/PMC9958738/; https://luk.staff.ugm.ac.id/itd/artikel/Shurtleff-Aoyagi-HistoryOfTempeh.pdf
[3]Si veda in particolare la ricerca di Putriana Rachmawat, Exploring the health benefits of tempeh: enhancing pharmacological potential through soybean combinations, reperibile qui: https://www.jptcp.com/index.php/jptcp/ article/view/3238/3224 (ultima consultazione 27/08/2025 ore 17:00).



