C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui eravamo gente civile. Un tempo nel quale anche il più piccolo ed insignificante dei semi aveva un valore, un impiego.
Oggi la “barbarie” del cibo che imperversa ne ha cancellato la memoria consegnando molte tradizioni ed usanze all’oblio, all’archeologia alimentare, al silenzioso nulla.
Certo molti obietteranno che una volta si era spinti dalla fame e che per fortuna oggi tale problema non esiste più. Personalmente credo che il problema alimentare odierno non sia legato a migliori stili di vita ma ad una perdita di etica del cibo, ad un lento e continuo collasso del rispetto che avevamo per esso e che non abbiamo più.
Uno degli esempi principe è quella famosa frase di quando eravamo bambini che riecheggiava nelle orecchie di tutti noi, scuotendoci sin dentro l’angolo più recondito del nostro io, “il pane non si butta mai”. Oggi il pane finisce in pattumiera e non è retorica ma constatazione.
Tra le mille “forme di rispetto” del cibo ne ho reperita una in Puglia che mi ha colpito particolarmente. La Farinella di Putignano.
Si tratta di una farina ottenuta dalla macinatura di ceci e orzo tostati addizionata di sale. Un prodotto che veniva preparato nella bella cittadina pugliese in epoca remota e che potremmo definire trasversale a tutte le classi sociali.
Anche se a seconda dell’impiego e dell’uso se ne poteva distinguere la classe sociale di chi l’adoperava.
I contadini la portavano, avvolta in un sacco di tela chiamato “u’ volz”, nei campi e la consumavano con i fichi secchi. A sera finiva come condimento ulteriore nel “macco” (sorta di purea di fave e cicoria mischiati) nel quale veniva mescolata.
Nelle case signorili ed in quelle di classi più agiate era adoperata come un vero e proprio insaporitore finendo su pasta al sugo, minestre, insalate di verdura, olive condite o su fichi freschi e frutta.Talvolta mescolata allo zucchero diveniva anche un dolce.
Intendiamoci serviva ad agglomerare ingredienti spesso liquidi, rendendoli più pastosi e facili da mangiare anche con il pane onde saziarsi di più, ma aveva anche un suo perchè organolettico. Una sorta di destinazione del gusto che oggi è riservata a bustine di supermercato contenenti spesso intrugli di dubbia qualità.
Io l’ho riscoperta grazie a Piermarino Notarnicola che la vende nel suo bel negozietto e l’adopero spesso con grande soddisfazione e continua sorpresa. Ha un sapore di ceci secchi con una gradevolissima nota di tostato.
La trovo molto gradevole con il sugo e particolarmente indicata come condimento di patate o di olive conciate, ma quella che potremmo definire la “sua morte” è decisamente sui fioroni di fichi freschi.
Qui il connubio tra il dolce intenso del fico e il tostato della farinella è sublime. Il risultato finale da una maggior pastosità al palato al fico e, nello stemperare il dolciastro intenso, esalta i sentori tipici del fico con un finale che ti lascia indeciso a metà strada tra un piatto dolce ed uno salato.
Alcuni documenti conservati nella Biblioteca di Putignano riportano che sulla fine del settecento fosse in uso anche una farinella nera ottenuta da farina di ceci neri tostati e macinati.
Oggi è rara a trovarsi e ogni anno che passa se ne produce sempre meno benchè “Farinella” sia anche la maschera tipica di Putignano dove si svolge uno dei Carnevali più belli d’Italia.
L’invito è a provarla e a creare ricette con questo semplice prodotto che nasconde una versatilità in cucina davvero infinita. Del resto, se tornerà la fame, vi sarà di certo che una farinella, forse, ci salverà.
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