Uvaggio, assemblaggio, taglio, cuvée, puzzle o alchimia?

Uvaggio, assemblaggio, taglio, cuvée, puzzle o alchimia?

Fin dal 2001, quando sollevammo per la prima volta il problema sulla rivista on-line “Wine Report“, c’è un problema reale nel mondo del vino e cioè una latente omologazione del gusto di cui ho iniziato a parlare su queste pagine nell’articolo precedente (”Ma diventeranno davvero tutti uguali?”). Ne scrivo ancora adesso perché quando si va in ferie nelle località turistiche il fenomeno sembra aggravarsi. Basta vedere la ressa dei carrelli nei grandi ipermercati dove si trovano centinaia, se non migliaia, di bottiglie esposte sugli scaffali senza il supporto del consigliere fidato, il sommelier o l’enotecaro cui dovremmo invece fare sempre ricorso per decidere di assaggiare e di comprare vini che già non conosciamo. Ci troviamo da soli di fronte a una marea di offerte e finiamo per scegliere in base al prezzo o per come ci affascina un’etichetta, anche per il tenore alcolico, però senz’alcuna certezza che il contenuto poi non ci deluda. Suggerisco sempre di leggere anche le retroetichette, che in genere contengono anche qualche informazione aggiuntiva che può far comodo, ma sono scritte in genere per enfatizzare il prodotto e assomigliano maggiormente agli spot pubblicitari.

La realtà è che le bottiglie di indiscusso valore per un buon rapporto tra qualità e prezzo e quelle dei produttori più famosi, ma che costano un occhio della testa, sono mischiate a una grande quantità di bottiglie senza alcun valore prodotte anche secondo disciplinari DOC e DOCG che permettono ancora purtroppo di tutto e il contrario di tutto, perché sono fatti per garantire l’origine, non la qualità, e in qualche modo l’assenza di difetti tecnici. Alcuni di questi vini di dubbio valore sono immessi a caterve sul mercato a prezzi stracciati che inorridiscono perfino gli appassionati di vino stranieri. Scoprirli nella massa è quasi impossibile se non te lo suggerisce un intenditore, un cameriere, un sommelier, lo stesso proprietario del locale in cui ci rifocilliamo e vengono così penalizzati. Com’è successo a me nel 1980 con il mio primo vino di Mondragone, il Gaurano Castel Monte Petrino 1971 di Michele Moio fu Luigi al Ristorante del Sole sulla terrazza delle mura di Perugia che guardano verso Assisi.

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Per capirci, faccio l’esempio di un amico esperto di enologia dell’università di Cracovia che era capitato a Firenze per fare le ferie e godersi (com’era giusto immaginarsi) delle ottime bottiglie di Chianti Classico alla portata di un normale portafoglio e invece se n’era tornato così deluso da scrivermi scandalizzato dopo avere versato nel lavandino una bottiglia da 50 euro, brontolando ”come se da qualche parte a Firenze esistesse un enorme tino dove si mescolano tutti i vini del circondario per imbottigliarli ed etichettarli come vino DOCG per diversi produttori. Un miscuglio ovviamente privo di tutto ciò che è importante nel vino, cioè la personalità, il carattere, l’anima. Ma che sicuramente si vende bene”.

Per non parlare di alcuni consulenti enologi di grido (e cassetta) chiamati da qualche casa vinicola tra le più osannate per cominciare a inseguire le nuove mode enologiche lanciate dai guru per gli allocchi. Questi nuovi ”maghi” (ma direi più stregoni) sono abituati a giocare con l’apporto di vitigni dal nome altisonante e con le botti dai legni più costosi anche quando inadatti, tipo il soprannominato ”monsieur Merlot” (oggi ”monsieur Petit Verdot”, perché la moda nel frattempo è cambiata) che consiglia di piantare uno o l’altro fra i vitigni francesi e aspettare 3 o 4 anni per usarne le uve come ammorbidente in tutti i vini fin troppo tradizionali e passati ormai di moda grazie alla complicità della grande distribuzione organizzata che sulle novità ci specula benissimo. Quindi nessuna esaltazione della biodiversità fra i vini e delle differenze organolettiche che costituiscono la vera ricchezza del patrimonio enologico delle diverse regioni italiane, ma un’operazione tendente a ridurre sempre più le loro caratteristiche distintive, ad aumentare piuttosto le somiglianze, a massificare il gusto.

Conosco aziende, alcune con qualche secolo di esperienza e altre fondate da poco, che hanno il grande coraggio e le idee chiare di introdurre in campo e in cantina delle coraggiose modifiche, nuove tecnologie, ma per migliorare l’offerta di vini alla clientela, non certo per inseguire le mode né per fare cassetta facile vantando gli astronomici punteggi che verranno poi sicuramente assegnati sotto le luci della ribalta dalla pletora degli amici di quei maghi, dal solito teatrino mediatico. Come quelle in cui ha dato il suo fondamentale contributo fin dal 1957 l’enologo campano Severino Garofano in Puglia.

Uvaggio, assemblaggio, taglio, cuvée, puzzle o alchimia?

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Queste casate di serietà riconosciuta hanno sperimentato per lunghi anni, con grandi sacrifici, investimenti e rischi, molti uvaggi tra uve locali e forestiere o assemblaggi dei loro vini senza esagerazioni né forzature, creando vini di ottima beva e di sicuro successo che piacciono al pubblico ed questo che è fondamentale.

È nella difficile fase della vendemmia che ci si gioca il carattere e l’armonia del vino che ne uscirà. È dalla valutazione della maturazione di uve diverse in campo che si decide di adottare il sistema dell’uvaggio, in cui le uve di viti diverse coltivate nella stessa parcella vengono raccolte e vinificate tutte insieme nello stesso giorno pigiandole insieme in percentuali prescelte così da ottenere un mosto unico anche se hanno diversi gradi di maturazione e di sviluppo dei polifenoli nei tannini delle bucce, oppure di raccoglierle ciascuna nel proprio momento ideale e, farne vinificazioni separate per provvedere in seguito all’assemblaggio dei singoli vini.

Non vedo elementi di verità assoluta in tasca a qualcuno più che a qualcun altro, ma vorrei poter contare sulla serietà, la competenza, l’onestà professionale dei sommelier e degli opinionisti, degli intenditori e degli amanti del vino affinché non si facilitino le alchimie, i vini puzzle di quegli imbonitori che mortificano il valore degli agronomi e degli enologi delle cantine produttrici. Ma non solo. Come ha sempre sostenuto un altro grande interprete dei vini del soleggiato Meridione, Cosimo Taurino, ci si deve ficcare bene in testa che il vino si fa prima in vigna, progettandola fin dalla nascita, dalle ricerche scientifiche sulla composizione del terreno, dalla scelta dell’esposizione ideale e dell’angolo di orientamento dei filari, affrontando tutti i particolari e applicando tutto lo scibile, investendo prima di tutto in cervelli e poi in attrezzature con il meglio della scientificità a disposizione.

Uvaggio, assemblaggio, taglio, cuvée, puzzle o alchimia?

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Questa è stata la vera chiave del successo, per esempio dei vini fatti dagli indimenticabili Michele Moio, Severino Garofano, Cosimo Taurino, Giulio Gambelli, Bianca Alberici, Domenico Triacca e Giorgio Grai, veri esperti eppure molto umili, tanto lavoro e poche parole, senza mai sgomitare per farsi notare.

E poi, diciamolo chiaramente, il sacrificio paga. Forse paga un po’ troppo alla lunga, con gli stessi tempi della Giustizia, qualche sostegno lungo la strada non sarebbe male, ma paga sempre. Si tratta di decidere se è la comodità o l’applauso della claque il feticcio da adorare, oppure se abbiamo il carattere adatto per sostenere i sacrifici, ciò che si chiama etica del lavoro (che è tutto il contrario dell’etica del guadagno facile), per non soccombere alla tristezza di quei prodotti, un po’ come gli Squallor cantavano nella canzone 38 Luglio… ”Il capo indiano che si chiamava “mo’ vengo anch’io” non venne mai e non si fece vedere perché era un timido”. Ne va del futuro dei vini, quello prossimo che potremo giudicare noi stessi fra qualche lustro, ma anche della sopravvivenza di vitigni e tecnologie che non possiamo bruciare in fretta andando dietro alle mode. Per carità, non deprediamo i nostri figli e nipoti di quel futuro remoto che a loro a ben diritto appartiene, più a loro che a noi! Ogni anno con il Premio intitolato a Giulio Gambelli un giovane enologo può distinguersi e affermarsi. Si premia sempre il più genuino, come avrebbe voluto proprio lui, che soprannominavamo ”bicchierino” e, come sanno tutti, aveva un naso finissimo, ma era… astemio!

Uvaggio, assemblaggio, taglio, cuvée, puzzle o alchimia?

Uvaggio, assemblaggio, taglio, cuvée, puzzle o alchimia?

Se l’uvaggio e l’assemblaggio diventassero invece un gioco, un’alchimia, un puzzle, addio miei cari vini di ogni parte del nostro bel Paese, colpevoli di genuina onestà contadina, rei di aver difeso per ogni ettaro almeno un filare di vite del bisnonno, uve dal nome che nessuno rammenta più. È come se capovolgessimo il mondo anziché tenerlo in pista e lasciarlo andare dov’è giusto che vada, con qualche bacchettata ogni tanto sulle chiappe come si fa coi maialetti ribelli, per non fargli perdere la strada.

Vino è civiltà, dov’è la vite e stanno le botti, non si cullano sogni di egemonia sul mondo, ma si fa scuola a strappare alla sabbia del mare e alle rupi dei Grigioni un lembo di terra e un nettare di vita, come hanno fatto veramente il nonno Moio a Mondragone e i fratelli Triacca a Villa di Tirano. Quanti misurini di Merlot, di Petit Verdot e (perché no?) di Sara-pandas o Sara-kabah suggerirà mai l’apprendista stregone a degli artigiani, a degli artisti di questo calibro per spezzare le reni a vini eccellenti come sono ancora i loro?

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