Wojciech Bosak sui kvevri, le anfore, cioè la tecnologia tradizionale dei vini georgiani

Wojciech Bosak ha scritto questo articolo dopo il suo ritorno da un congresso tenuto dall’OIV a Tbilisi, la capitale della Georgia caucasica, e lo ha pubblicato su Vinisfera.pl con disegni e foto dell’autore. Una vera fatica, sia nel raccogliere gli appunti delle visite presso alcuni produttori georgiani, sia nella lettura della più completa bibliografia recente (dal 2003 al 2010) su questi tradizionali metodi di vinificazione in Georgia, basata in gran parte sui testi degli interventi degli enologi georgiani come Babaturia N., Beriashvili N., Dekanosidze T., Gogitidze V., Jalabadze M., Kharbedia M., Kvavadze E., Mirvelashvili M., Nanitashvili T.S., Rusishvili N., Shakulashvili N., Shalashvili A., Targamadze I., Tsereteli L., Ugrekhelidze D., Zambakhidze N., ma anche di enologi stranieri come Lanati D., Marchi D., Mazza D., Glonti T., McGovern P.E. e altri. Ve lo traduco con molto piacere perché ci troverete spunti di riflessione sulla bontà delle vinificazioni veramente povere di tecnologia, quelle che usano per giunta delle uve coltivate con il minimo possibile di interventi in vigna. Altri profumi, altri sapori, niente di simile a ciò cui siamo abituati, emozioni che auguro a chi ha bisogno ancora di interrogarsi su cosa cercare in un vino.

Il traduttore: Rolando Marcodini

Le anfore, cioè la tecnologia tradizionale dei vini georgiani

 

Durante il viaggio dell’anno scorso nelle regioni Kakheti e Racha ho potuto vedere con i miei occhi come si fanno i vini tradizionali georgiani, quelli fermentati nei kvevri, le grandi anfore d’argilla. Ne avevo già assaggiati anche prima in varie degustazioni e già allora avevo deciso di scrivere su questa tecnologia enologica unica, ma ancora mi mancavano le basi fondamentali necessarie per raccogliere una simile sfida. Nonostante una paziente ricerca, per molto tempo non ho potuto trovare nessuno studio più approfondito su questo tema, perché non conoscevo il particolare alfabeto della lingua locale. L’occasione di rimediare a questa carenza mi è capitata soltanto durante il congresso tenuto in giugno dall’OIV a Tbilisi, dove ho potuto sia ascoltare alcune solide relazioni sulle tradizioni enologiche georgiane che parlarne con esperti di prim’ordine. Ho avuto anche l’opportunità di visitare alcuni produttori che applicano la vinificazione nei kvevri e di degustare i loro vini (una cosa che è stata anche molto istruttiva). Desidero perciò ringraziare cordialmente il Ministero dell’Agricoltura della Georgia per l’organizzazione del mio viaggio nella regione Kakheti e delle mie visite presso i produttori locali.

 

Le tradizioni georgiane.

La Georgia è senza dubbio la culla dell’enologia mondiale e le anfore d’argilla sono state usate per fare il vino fin dagli albori della sua storia. Si possono riconoscere dei prototipi di kvevri nelle grandi giare d’argilla trovate negli insediamenti neolitici della Georgia meridionale (Sulaveris-Gora, Chramis Didi-Gora). Quelle anfore preistoriche sono state sicuramente usate per fare o conservare il vino, perché proprio nel loro interno si è scoperto il più antico residuo conosciuto al mondo di questa bevanda alcoolica risalente a 6.000 anni a.C., vale a dire un deposito di sali di acido tartarico. Come testimoniano altri reperti archeologici, le anfore prodotte nel Caucaso meridionale nel III-IV secolo a.C. non differivano molto nella forma da quella dei kvevri usati attualmente e (come si suppone) erano sotterrate anch’esse come le attuali.

È così che questo metodo di produzione del vino, diffuso tutt’oggi in molte regioni della Georgia, continua a essere impiegato da almeno diciotto secoli. Si tratta certamente della più antica tecnologia enologica ancora usata sul nostro globo! I vini tradizionali georgiani non si presentano con uno stile uniforme e la loro caratteristica comune è la vinificazione effettuata nelle anfore totalmente sprofondate nella terra, in modo che perfino l’orifizio del collo rimane sotto il livello del suolo. In Georgia tali anfore sono chiamate comunemente kvevri (in Kakheti e in Kartli) o churi (in Imereti e in Racha) e anche cinquant’anni fa erano usate perfino nella produzione dei vini di massa dei grandi kombinat. Oggi queste anfore si trovano ancora in quasi tutte le case di campagna delle regioni viticole georgiane, dove servono per produrre il vino per il proprio consumo.

Ultimamente i kvevri sono tornati di nuovo di moda anche fra i produttori commerciali, del resto non soltanto in Georgia, perché anche alcuni produttori europei hanno cominciato ad applicare quest’antica tecnologia. Non c’è però neanche una piccola possibilità che queste anfore vengano usate di nuovo per la produzione di vino su scala industriale, per almeno due ragioni. In primo luogo il cosiddetto “consumatore di massa” è già abituato a uno stile completamente diverso: vini freschi, fruttati, riduttivi. Pertanto i vini dai kvevri rimarranno piuttosto una proposta di nicchia, indirizzata ai consumatori esperti, quelli che cercano delle nuove sensazioni nel vino. E in secondo luogo è una produzione addirittura costosa e problematica. Calcolando per litro di capacità, una buona anfora costa tanto quanto la migliore botte francese, ma a questo si aggiunga che per tutto il ciclo della vinificazione esige parecchio lavoro faticosamente manuale. Immaginiamoci soltanto quanto è difficile lavare dopo la fermentazione un simile serbatoio d’argilla totalmente sprofondato nella terra e accessibile soltanto attraverso una piccola imboccatura!

La produzione dei kvevri.

Per fare il vino si usano kvevri di varie capacità da 4 ettolitri fino a 35, fra cui quelli tra i 10 e i 20 ettolitri, oggi più diffusi. Queste anfore sono modellate a mano senza usare il tornio da vasaio e dopo l’asciugatura vengono cotte in speciali forni di ceramica. È un lavoro molto impegnativo, che esige sia precisione sia pazienza, ma anche un grande sforzo fisico e oggi c’è solamente qualche vasaio in tutta la Georgia a continuare questa produzione. Una buona qualità dei kvevri può servire a fare vino per cento anni e anche di più, senza perdere il proprio valore. La qualità dei kvevri dipende da molti fattori. Sono importanti il tipo adatto di argilla, la sua scrupolosa ripulitura da eventuali sassolini e la destrezza nell’impastarla in modo omogeneo, plastico. Un’arte vera e propria è quella di plasmare l’anfora strato per strato, incollando fra loro dei salamotti d’argilla del diametro di alcuni centimetri. Ciò richiede buon occhio, per mantenere adeguatamente la forma regolare della nascente anfora, e pazienza, per appiccicare bene fra loro i successivi strati, premendo con le dita centimetro per centimetro, un po’ come per incollare un immenso tortello.

Questo lavoro dev’essere suddiviso in più fasi: dopo la formazione di ogni strato di altezza tra i 30 e i 40 cm circa, bisogna asciugare l’argilla affinché le pareti appena formate non cedano deformandosi a causa del proprio peso. Segue quindi un’asciugatura di tutta l’anfora modellata, prima della cottura. Questo processo non può procedere troppo violentemente (per esempio, al sole), perché si potrebbero generare delle microfessure nelle pareti d’argilla. L’asciugatura avviene dunque in un locale all’ombra e in caso di necessità s’inumidisce l’anfora con degli stracci bagnati. Una volta asciugati, i kvevri vengono cotti a fuoco di legna in forni di mattoni a volta. Anche questo processo deve avvenire lentamente, a temperatura non troppo elevata, per non causare incrinature nell’argilla. L’eccessiva velocità di produzione è stata la causa principale della cattiva qualità dei kvevri prodotti in gran numero a metà del secolo scorso per soddisfare le esigenze dei grandi kombinat enologici. Le anfore di quel periodo sono ancora oggi facilmente accessibili a buon prezzo in Georgia, ma se ne possono trovare di buone soltanto in via eccezionale, perché la maggior parte ha invece numerose crepe e cricche (spesso riparate con cemento e fil di ferro). Una volta si usavano dei dischi rotondi accuratamente ricavati da lastre di ardesia per la chiusura dei kvevri. Se ne trova ancora oggi qualcuno qua e là, ma è da molto tempo che nessuno non ne fa più. Attualmente si utilizzano a questo scopo piuttosto dei coperchi di legno, e ultimamente (anzi, sempre più spesso) anche dei coperchi di robusto vetro temperato, che offre il vantaggio di controllare visivamente il processo di vinificazione senza dover aprire l’anfora. Queste chiusure vengono sigillate con la creta, a volte anche con la cera d’api. Qualche volta si riveste con uno strato di cera d’api anche tutto l’interno, ma oggi quest’usanza non è più così diffusa.

 

Le cantine tradizionali

Nella Georgia orientale e particolarmente nella regione Kakheti i vini si fanno tradizionalmente nelle cantine in muratura, chiamate marani. Sono dei locali pianoterra oppure seminterrati, con dei grossi muri di pietra e con le finestre piccole oppure del tutto senza finestre, per mantenere all’interno la temperatura più costante possibile. I kvevri vengono sotterrati sotto il livello del pavimento della cantina o dell’aia, in modo che l’orifizio dell’imboccatura si trovi in una specie di bacino incassato nel terreno, di solito lastricato con mattoni o pietre. Invece nella Georgia occidentale, dove il clima è parecchio più mite, le anfore si sotterrano direttamente nel suolo “a cielo aperto” nel frutteto oppure in una parte di cortile ombreggiata dagli alberi, quando non in una capanna di legno o sotto una tettoia aperta: un posto così si chiama tradizionalmente chur-marani. Attiguo ai marani e ai chur-marani spesso si trova il locale della pigiatura, chiamato satsnakheli (come il tradizionale torchio georgiano).

 

Il metodo “kakheto” passo per passo

I più straordinari e arcaici tra tutti i vini georgiani tradizionali sono senza dubbio i vini kakheti bianchi, macerati per alcuni mesi su bucce, vinaccioli e peduncoli in anfore sotterrate nel terreno. Questo antico metodo “kakheto” è ancora ampiamente usato nella regione Kakhetia dai piccoli vignaioli che producono vino da consumare in proprio. Ultimamente si osserva anche una sua rinascita nella produzione di vini commerciali, condotta su scala certamente maggiore. I vini kacheti tradizionali derivano in genere da alcuni vitigni bianchi locali, come rkatsiteli, mtsvane, khikhvi, kisi, mtsviviani kakhuri (sebbene si sperimentino anche altri vitigni come per esempio il chinuri kartli). Questi vitigni sono caratterizzati da aromi relativamente neutri (a basso contenuto di composti terpenici) e da un elevato contenuto di composti fenolici nelle bucce, che danno al vino le caratteristiche note pepate.

Nelle condizioni della regione Kakheti le uve in piena maturazione raggiungono in genere un contenuto abbastanza elevato di zucchero (non di rado circa il 15% di alcool potenziale) e una moderata acidità (circa 5 o 6 g/l). A causa della macerazione molto lunga della polpa, durante la produzione di questi vini si attribuisce alla maturazione ottimale e allo stato di salute delle uve un’importanza maggiore di quella che si nota nella produzione dei vini bianchi più convenzionali. La decisione del periodo di vendemmia non è determinata tanto dal tenore zuccherino, quanto dalla maturazione fenolica delle uve, altrimenti dai vinaccioli e dai peduncoli si diffonderebbero nei vini dei tannini troppo duri, acerbi. La vendemmia si fa di solito dalla metà di settembre alla metà di ottobre, a seconda del vitigno, del terroir e dell’andamento climatico dell’annata. Nella versione più purista di questa tecnologia, le uve vendemmiate finiscono in un arcaico “torchio” chiamato satsnakheli. È una vasca di legno caratteristica, spesso ricavata da un massiccio ceppo di tiglio, sul cui fondo viene collocata una specie di graticola fatta di vimini di salice piangente. Una volta si usavano anche delle vasche di pietra, simili ai lagares usati per produrre il Porto. L’uva viene pigiata a piedi scalzi e il mosto fiore si raccoglie sul fondo della vasca, dove attraverso un foro viene travasato nei kvevri appositamente preparati. Al mosto che rimane sul fondo del satsnakheli si aggiunge in seguito la cosiddetta chacha, cioè le vinacce (bucce, peduncoli, vinaccioli, raspi). Di regola la chacha viene aggiunta per intero, però in alcuni casi qualche vignaiolo decide di gettarne una parte (per esempio le parti verdi, immature, i raspi). Dipende dalla qualità dell’uva e dal carattere del vino che si intende ottenere. Il contatto (anche molto breve) delle vinacce con l’aria, in seguito al drenaggio del mosto nel satsnakheli libera certi composti aromatici (per esempio le aldeidi alifatiche) che daranno poi a questo vino le note di mela secca e canditi.

Oggi però molti produttori usano, al posto degli ingombranti satsnakheli, delle pigiatrici convenzionali, che sono molto più comode per l’uva, la cui polpa non viene divisa suddivisa tra mosto fiore e chacha e finisce per intero nei kvevri. In questo modo non avviene la sopra citata parziale ossidazione delle vinacce e ciò influirà certamente sul carattere del vino che in questo caso rimarrà più fresco e fruttato, ma spesso senza conseguire la tipica complessità degli aromi. I kvevri si riempiono più o meno per tre quarti, in modo che la ribollente massa in fermentazione non possa “tracimarne” fuori.

Durante la fermentazione alcoolica, che dura di solito circa 10 giorni, l’anfora rimane totalmente aperta per “immergere” più volte al giorno il “cappello” di vinacce che galleggia sopra la chacha, favorendo l’estrazione dei polifenoli e degli altri composti contenuti nelle bucce, nei vinaccioli e nei peduncoli. Grazie all’interramento dell’anfora si riesce a mantenere la temperatura di fermentazione a un livello relativamente basso, intorno ai 20°C, senz’alcun bisogno di interventi speciali. I vignaioli di regola utilizzano la fermentazione spontanea innescata dai lieviti selvatici, cosa che nelle condizioni climatiche locali riesce di solito senza grossi problemi. Però ultimamente alcuni produttori commerciali hanno cominciato a utilizzare le colture di lieviti selezionati per avere un controllo migliore su tutto il processo di vinificazione, anche per i vini prodotti nei kvevri. L’effetto sul vino è spesso un tenore alcoolico troppo elevato, perfino sopra il 15%, perché le colture “pure” di Saccharomyces cerevisiae hanno di solito un rendimento maggiore nella trasformazione degli zuccheri in alcool rispetto ai “miscugli” dei lieviti selvatici. Ma questi vini hanno anche una minore complessità di aromi.

Dopo la fine della fermentazione le fecce solide dell’uva si depositano sul fondo e solo allora si possono riempire i kvevri attraverso l’orifizio dell’imboccatura, dove poi si appoggia appena il coperchio, in modo che durante la fermentazione malo-lattica l’eccesso di anidride carbonica possa ancora evaporare. Soltanto quando cessa ogni attività dei lieviti e dei batteri (di solito dopo la metà di dicembre) l’anfora viene ermeticamente chiusa. Il coperchio viene sigillato con l’argilla o con la cera e seppellito sotto uno strato di terra o di sabbia, per assicurare un isolamento termico migliore. Per altri 3 o 4 mesi il vino matura sulla chacha e sulle fecce dei lieviti che sono morti dopo la fermentazione. Questo processo avviene a una temperatura relativamente costante tra i 12 e i 15°C circa, cosa che è anch’essa resa a sua volta possibile grazie al sotterramento dei kvevri. Nel frattempo il vino si arricchisce di una serie di sostanze derivanti principalmente dalle bucce, dai peduncoli e dalle fecce dei lieviti. Invece i vinaccioli, che si depositano per primi sul fondo dopo la fermentazione, grazie alla forma fusiforme dell’anfora hanno soltanto un limitato contatto col vino, cosa che evita un’eccessiva estrazione di tannini amari. In marzo o aprile si preleva il vino da sopra il sedimento depositato sul fondo e lo si travasa in un’anfora pulita. Qui si deposita abbastanza velocemente sul fondo un successivo sedimento successivo e più o meno dopo due mesi (di solito a cavallo tra maggio e giugno) il vino viene travasato nuovamente in un’altra anfora pulita, ma stavolta è completamente chiarificato. È consuetudine lasciar maturare il vino nei kvevri per altri 2 o 3 anni, ma può capitare che stagioni perfino per oltre 20 anni. Attraverso le pareti porose d’argilla dei kvevri, durante la maturazione, malgrado la chiusura ermetica avviene una lenta ossidazione del vino, ma anche una limitata evaporazione. Perciò ogni quindici giorni circa si controlla il livello e in caso di necessità si rabbocca, in modo che l’anfora sia sempre piena fino all’orlo.

Il carattere unico dei vini kakheti

I vini prodotti con il metodo “kakheto” tradizionale sono assolutamente diversi da tutti gli altri vini bianchi del nostro globo. È intrigante già il colore, scuro, quasi aranciato, tra il tè e l’ambra, a volte con una sfumatura rosa. La dote che li distingue però maggiormente è l’elevato tenore di composti polifenolici, rarissimo negli altri vini bianchi, che supera spesso i 2.000 mg/l. Questo tenore è tipico piuttosto dei vini rossi più leggeri, invece nel comune vino bianco europeo i polifenoli superano raramente i 300 mg/l. Le ricerche dimostrano che la fonte di polifenoli qui si trova soprattutto nei vinaccioli (il 47% circa) e nei peduncoli (il 42% circa) e soltanto una minima parte nelle bucce (l’11% circa). Sembra dunque che questa tecnologia assolutamente unica di lunga macerazione dei vini bianchi con i peduncoli abbia un influsso cruciale sul carattere dei vini kakheti tradizionali. I peduncoli sono la fonte soprattutto dei preziosi flavonoidi, inoltre arricchiscono il vino di numerosi composti aromatici (esteri complessi, aldeidi, terpeni, alcool aromatici ecc.). L’elevato contenuto di composti polifenolici rende i vini kakheti tradizionali relativamente poco sensibili all’ossidazione e ai cambiamenti microbiologici sfavorevoli (principalmente grazie alle doti antisettiche dei flavonoidi), cosa che permette tra l’altro di limitarne la solforazione. Molti produttori non ricorrono nemmeno alla solforazione durante la produzione, limitandosi soltanto a un piccolo apporto di SO2 tra i 25 e i 40 mg/l) soltanto prima d’imbottigliare. I ricercatori sottolineano anche le doti salutari e profilattiche attributi a questi vini, paragonabili a quelle dei vini rossi.

 

Il metodo “imereto”

Fin qui il metodo “kakheto”, che costituisce una sorta di corrente estrema della tradizione enologica georgiana (è difficile infatti immaginare dei vini ancora più tipici). Invece l’ala moderata è costituita dal metodo “imereto”, che è una tecnologia usata da secoli nella Georgia occidentale (soprattutto nelle regioni Imereti e Racha) per produrre vini bianchi da vitigni locali come tsolikouri, tsitska, krakchuna, tetra e altri. Si differenzia dal metodo “kakheto” per la chacha, che esclude i peduncoli e viene aggiunta al mosto appena pigiato in quantità limitata (più o meno un decimo). Il resto del processo produttivo avviene in sostanza allo stesso modo.

Ne risulta un vino molto più vicino agli standard europei, non così tannico come i vini kakheti tradizionali, sebbene anche in questo caso la lunga maturazione nei kvevri conferisce l’innegabile impronta della Georgia. Qualcosa d’intermedio tra lo stile “kakheto” e quello “imereto” si trova nei tradizionali vini bianchi della regione Kartli, dove al mosto appena pigiato si aggiunge più o meno un terzo di chacha (ma con i peduncoli).

Le tradizioni di produzione dei vini rossi

Oggi il prodotto di punta delle esportazioni dell’enologia georgiana è un Saperavi rosso secco, ma non facciamoci ingannare dalle apparenze: fino a pochi anni fa di questo tipo di vino in Georgia se ne produceva abbastanza poco. Per secoli infatti il vino quotidiano dei Georgiani, fatto per il consumo famigliare in quasi tutte le case di campagna, era quello bianco, mentre i vini rossi venivano sempre destinati alle occasioni speciali.

In un lontano passato la loro produzione era sostenuta in gran parte dalla chiesa ortodossa georgiana, nella cui liturgia della santa messa si usa esclusivamente vino rosso. Non sappiamo molto sui vini rossi secchi nell’antica Georgia, perché la loro produzione commerciale si è ampiamente sviluppata soltanto nel XIX secolo, quando i vini georgiani hanno cominciato a essere esportati in Russia e altri Paesi. I Georgiani non hanno dunque elaborato un metodo “nazionale” principale di produzione di questi vini, al contrario per esempio di ciò che hanno fatto per quelli amabili (di cui parlerò più avanti). Oggi nelle varie regioni della Georgia si producono vini rossi secchi in anfora, ma non sempre questo corrisponde alle antiche tradizioni. In molti casi ben documentati sono gli influssi occidentali che hanno dato luogo a questa produzione (per esempio con la visita dei produttori georgiani a Bordeaux e in Borgogna, con l’assunzione di enologi europei ecc.).

Attualmente il metodo più “tradizionale”, ponderato, coerente sembra quello della produzione di vini rossi elaborato a metà del XIX secolo nella regione Kakheti, comunque sotto la netta influenza dei famosi vini europei. La base di questi vini è soprattutto l’uva saperavi. Questo vitigno si distingue per un elevatissimo tenore di composti polifenolici (anche i coloranti come i tannini) e anche dopo aver raggiunto la piena maturità resta comunque un’acidità relativamente elevata. Questo dà dei vini Saperavi secchi dapprima spesso crudi e ruvidi, ma che maturano perfettamente e si ascrivono fra i più longevi del nostro globo. Si fanno anche prove con altri vitigni georgiani come shavkapito, tavkveri e perfino cabernet sauvignon (di solito tagliato con saperavi).

All’inizio la tecnologia della produzione non si differenzia da quella dei tradizionali vini bianchi kakheti: l’uva dopo la vendemmia viene pigiata in satsnakheli e poi il mosto, insieme con tutta la chacha finisce nei kvevri. La fermentazione in anfore aperte dura di solito circa due settimane e nel frattempo si mescola il mosto e vi s’immerge il “cappello” per almeno quattro volte al giorno, in modo da accelerare l’estrazione dei tannini. Poi si svina il vino giovane dalla chacha e lo si travasa in un’anfora pulita dal coperchio appena appoggiato, non sigillato, dove lentamente avviene la fermentazione malolattica e si deposita il fondo. Dopo circa sei settimane si preleva il vino da sopra il fondo. Un’ulteriore maturazione avviene già nei kvevri ermeticamente chiuso in grandi botti di legno di rovere caucasico, comunque ogni quindici giorni circa si controlla il livello e si rabbocca, se necessario, per riempire l’anfora.

I vini che maturano nei kvevri hanno bisogno di solito di alcuni anni per liberarsi dai tannini duri e dall’eccesso di acidità. La maturazione in botte avviene molto più velocemente e questi vini sono spesso imbottigliati già dopo alcuni mesi. Certi produttori stanno provando a produrre vini rossi con lo stesso metodo “kakheto” che è tradizionalmente usato per quelli bianchi, con una macerazione del mosto per alcuni mesi in kvevri sigillati. È difficile dire se in questo c’è un legame con le autentiche antiche tradizioni oppure si tratta di speculazioni accademiche su come possano essere stati prodotti per secoli anche i vini georgiani rossi. Gli effetti di tali esperimenti possono essere interessanti, ma spesso suscitano ugualmente delle controversie.

Vini rossi amabili

Nella tradizione georgiana è radicata anche la produzione di vini rossi amabili, che accanto al metodo “kakheto” rappresentano forse l’espressione più originale dell’enologia locale. Oggi questi vini sono prodotti con tecnologie moderne in tini di acciaio inossidabile raffreddati a una temperatura tra i 2 e i 3 gradi sotto zero, però all’origine erano prodotti nelle anfore e il loro carattere rispecchiava in modo naturale gli specifici terroir montani e pedemontani. La zona più classica di produzione dei vini amabili comprende le valli profondamente incassate di Racha e Lechkhumi. Questi posti sono caratterizzati da una grande varietà di microclimi locali, con inversioni frequenti di temperatura ed escursioni termiche notevoli sia su base giornaliera che stagionale. Nella zona dei vigneti, una fascia tra i 450 e gli 800 metri circa s.l.m., regna un clima abbastanza mite, però a distanza di pochi chilometri si possono già trovare dei posti dal clima tipicamente rigido delle montagne. Nelle valli locali si coltivano dei vitigni locali rossi come aleksandrouli, mujuretuli, tavkveri, ojaleshi e usakhelouri che in genere raggiungono un contenuto zuccherino elevato, per un tenore alcoolico naturale spesso tra il 15 e il 16%.

Anche nel recente passato, prima di cominciare a usare i tini raffreddati d’acciaio, le uve destinate a produrre i vini amabili erano trasportate tradizionalmente nei paesi situati ad altezze maggiori, dove le gelate autunnali arrivano prima, per essere vinificate in chur-marani all’aperto. La lenta fermentazione del mosto avveniva nelle anfore, come nella produzione degli altri vini rossi, ma a causa della bassa temperatura ambientale questo processo riusciva raramente a completarsi e a dare un vino secco. Quando la fermentazione s’interrompeva, il vino veniva separato dalla chacha e versato in un’anfora pulita, dove lo si tappava ermeticamente per fargli passare tutto l’inverno. Il clima freddo proteggeva il vino dalla ripresa della fermentazione e in primavera, dopo l’apertura dell’anfora, lo si trovava leggermente spumeggiante, con un fresco aroma fruttato e un contenuto abbastanza elevato di zuccheri naturali residui. Vini simili venivano prodotti anche in altre zone dalle condizioni geografiche simili, per esempio nelle località pedemontane della regione Kakheti (principalmente a base di saperavi), ma anche in altre regioni situate ad altezze maggiori di quelle delle regioni Kartli, Imereti e Guria. Diversamente dalla maggioranza dei vini europei di questo tipo, questi vini amabili georgiani non sopportano l’invecchiamento e vanno bevuti entro la vendemmia successiva.

Non dimenticatevi di guardare anche quest’altro filmato sui tradizionali metodi georgiani di vinificazione!

 

 

Wojciech Bosak

Giornalista e critico enologico (collabora con Magazyn Wino i Czasem Wina), giudice di concorsi enologici internazionali. Da diversi anni si occupa di educazione al vino, conduce corsi e formazione, è autore di programmi di formazione e libri di testo. È docente di studi post-laurea in Enologia presso l’Università Jagellonica. Ideatore e co-fondatore dell’Istituto Polacco della Vite e del Vino. Fornisce consulenza per l’impianto di vigneti. Vincitore del Grand Prix di Wino Magazine 2013 come promotore della cultura del vino in Polonia. Si occupa, tra l’altro, della storia della vinificazione, del diritto del vino, dell’economia della vinificazione nonché l’influenza dell’habitat sulla viticoltura. Co-fondatore dell’Istituto della Vite e del Vino di Cracovia e della Fondazione Galicja Vitis per lo sviluppo e la promozione della vinificazione.

 

 

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