Zia Peppa e i profumi di Sardegna: il Cannonau a territori unificati

Metteva il prezzemolo dappertutto, anche nei dolcetti di casa, quelle formaggelle che serviva tiepide quanto basta ai ”pitzinnos” di ogni età. Caffelatte a colazione? ”Éja”! No, macché: cetriolo appena preso dall’orto sotto la finestra della nonna! Insalata? ”Ója”! No, l’erba verde va bene per le capre: ”innòghe”, da noi, pomodori e cipolle! Ed è così che è entrata una volta nel mio cuore e non ne è uscita mai più.

Ero arrivato in Sardegna nel ‘73 incuriosito dalle ricerche dei geologi sulle acque delle falde sotterranee (anche sotto il fondale marino) che ne stavano dimostrando la provenienza dai ghiacciai delle Alpi. Sotto sotto, ma proprio sotto, è tutto come un gruviera. Sopra sembra un blocco unico, una terra misteriosa e solitaria. Invece non c’è niente di più ingrippato. Un mosaico di almeno novanta territori tutti diversi fra loro per suolo, flora, paesaggio, clima, lingue, dialetti, usi, costumi e… faide. Perfino quella realtà misteriosa, fiera e granitica che viene chiamata Barbagia. Non ce n’è una sola. Sono tante le Barbagie e lo capisce subito soltanto chi ama il vino perché distingue sempre ognuno dei suoi sogni in bottiglia da tutti gli altri, per vigna, parcella, mappale, fianco di collina: Barbagia Óllolai, Barbagia Belvì, Barbagia Séulo e i contrafforti Supramonte, Mandrolisài, Sarcidàno, Ogliastra.

Anche David Herbert Lawrence, l’autore de ”L’amante di lady Chatterley”, passando per queste “genne” (i valichi di montagna) concluse, nei suoi straordinari appunti di viaggio ”Sea and Sardinia”, che «c’è una Sardegna ancora non conquistata, è dentro la rete della civiltà europea, ma la rete non è stata ancora tirata in secco». Regno di sovrumani silenzi, strade dovunque quasi deserte. Le distanze tra i borghi sembrano immense e l’isolamento di alcune zone è ancora oggi quasi totale. Foreste inaccessibili, picchi granitici, gole, un migliaio di grotte conosciute dall’uomo e almeno il doppio conosciute soltanto da cinghiali e banditi. L’aspro paesaggio lunare del Monte Corrasi nel Supramonte venne scelto da John Huston per la scena del sacrificio d’Isacco nel film ”La Bibbia” e per fare quelle riprese gli costruirono apposta una strada, oggi usata per portare lassù i turisti.

La natura lì è selvaggia, ha dei sapori estremi, è un connubio di fragranze di macchia e sentori di lentisco, mirto, alloro e rosmarino che rendono inconfondibile ogni pietanza, ogni salsa, ogni ripieno e si riconoscono anche nei vini. Non lo sapevo, ma l’ho scoperto lì che il vino prende gli aromi dalla terra in cui nasce e dal verde che lo circonda: quelli più forti derivano dalla coltura precedente, zappata e interrata per far posto alle barbatelle, o dalla vegetazione e dalle colture contigue, ”iscutzinàde”, scrollate dal vento.

Zia Peppa se ne intendeva. Aveva seguito sua mamma per andare a maritarsi al mare, proprio sotto il monte Doglia, ma venivano entrambe dalla montagna e quando la nonna è morta le due donne l’hanno seppellita con il prezioso costume ingioiellato d’oro, secondo tradizione, quando potevano venderlo per vivere meglio. E invece dovevano andare ai Piani tutti gli anni a vendemmiare. Lei e la sorella erano sempre nella squadra delle più esperte, quelle che vendemmiarono un ’78 da favola, che ancora se ne parla. Un anno ci portò anche sua figlia Mariuccia, che lì conobbe un trattorista con il cappuccio sempre in testa come suo padre quando irrorava il verderame: un matrimonio riuscitissimo, con una figlia bella come il sole, Eleonora, il nome dell’indimenticata giudicessa d’Arborea. «Fanno una nuova vigna dove c’erano i carciofi, sotto l’acquedotto che scende dal lago Cuga», mi disse. E infatti il vino bianco di quel terreno lì ha continuato per qualche anno a sapere anche di carciofi, più che di torba (ogni annata però sempre di meno), mentre il rosso Vintage di Anghelu Ruju continua a profumare di eucalipti, quelli che proteggono imperterriti quella vigna.

Ero innamorato però di ben altre vigne, di quelle che trovavo su nelle Barbagie in mezzo ai boschi, specie oltre i 700 metri e, come scriveva Molière, «gli innamorati, i veri innamorati inventano con gli occhi la loro verità». Che mondo affascinante! Chilometri e chilometri di territori suggestivi con alberi di quercia, leccio, castagno, nocciolo, agrifoglio, roverella e con angoli di forte intensità naturale, vere meraviglie ambientali e luoghi dal paesaggio incantevole e cromatico, ma selvaggio. Eppure qua e là, lontanissime fra loro (ma anche dal paese) e straordinariamente in simbiosi con la foresta e le sue forre, ecco le piccole vigne di montagna, senz’altri guardiani che i corvi e le cornacchie, come ”sa binza” a Bau Sposa, sotto Talassàcciu, sulla strada da Tonara a Désulo. Per tradizione vitate ad alberello, con la vite molto bassa che si regge da sola (e raramente a spalliera, ma solo le più grandi), appartengono in genere ai piccoli ”binzatteros” che fanno il vino per la propria famiglia e per gli amici, ma se avanza qualcosa ne godono pure le cantine sociali e le grandi cantine private. I rosati vanno per la maggiore, ma i più smaliziati fanno dei rossi molto corposi, tanto che qui li chiamano neri: sono gli stessi due colori che prevalgono nei costumi barbaricini impreziositi da pizzi e filigrane d’oro o d’argento. L’oro veniva dal continente, l’argento veniva dalla miniera sotto la costa rocciosa di Palmàdula, sul ”mare di fuori”.

Vini dai profumi decisi, morbidi e caldi, si sente la montagna sotto il sole fra il canto delle cicale. Ricordano la mora e i piccoli frutti di bosco. Sapori fruttati, immediatamente avvolgenti, con tenori alcoolici da capogiro: è una vera fatica trattenerli sotto i 15 gradi per venderli più facilmente, perché il Cannonau (in spagnolo garnacha, in francese grenache) va fuori di testa in pochi giorni se non lo tieni coi piedi per terra. Di acqua se ne beve il meno che si può e quella poca che c’è serve alle bestie per non morire. I bambini imparano fin da piccoli ad amare il vino e a temere l’acqua, con la favola de ”sa mamma de sa funtana”, la strega cattiva che abita in fondo ai pozzi d’acqua, quella che le nonne raccontano volentieri, in modo da tenere i nipotini lontani da tentazioni pericolose…

Fare il vino qui è sempre costato molta fatica e ha sempre prodotto poco reddito, per le condizioni climatiche e ambientali, il frastagliamento e l’isolamento del territorio. Resta un mondo ancora chiuso anche per la diffidenza dei barbaricini per tutto ciò che viene da fuori, fin dalle invasioni cartaginesi, romane, pisane, genovesi, spagnole, tutte respinte a fil di spada sulle soglie delle Barbagie, rimaste inviolate per secoli.

Il codice barbaricino è così radicato da sovrastare le leggi mutevoli degli Stati che si sono avvicendati sul territorio. Sono rimasto affascinato una notte dalla musica e dai canti di gruppi di giovanissimi che si divertivano al buio pesto nel bosco oltre le ultime luci di Tonara e le ragazzine che ne sbucavano fuori per venire a rifornirsi di gelati per tutti e rientrarvi, mentre i genitori potevano dormire sonni tranquilli perché nessuno avrebbe osato anche soltanto pensare di provarci. Invece a Milano, Torino e in genere nel continente, nonostante l’Europa, la Legge e le forze dell’ordine, per le donne vige praticamente il coprifuoco. Il detto ”furat chie furat in domo o chie venit dae su mare” (ruba chi ruba in casa o chi viene dal mare) è frutto delle tristi esperienze del Regio Editto sulle Chiudende che nel 1820 autorizzò a recintare territori fino ad allora rimasti collettivi per millenni, introducendo in pratica la proprietà privata dove non c’era: è ovvio che i più ricchi avevano squadre di operai e potevano chiuderne più degli altri, innescando così feroci contese sul diritto di libero passaggio delle greggi sui tratturi, perché gravati a loro volta dalla Tassa sul macinato inventata per mantenere ”s’ischifosos” in divisa ed in toga che comandavano a Gasteddu (Cagliari) in nome dei Savoia.

Ecco perché faccio appello alla coscienza di chi legge. Oggi c’è un rinnovato interesse a difendere la peculiarità dei suoli dallo scempio del paesaggio, dall’invasione turistica incontrollata, dal saccheggio dei siti archeologici, dall’apertura di cave e discariche e da tutti i fenomeni dell’inciviltà moderna, perciò cerchiamo di dare una mano al barbaricino che fa il vino, anche se occorreranno generazioni perché non si senta ”solu che sa fera” (solo come una belva) contro tutto e contro tutti e con l’unico desiderio di lasciare tutto com’è… ”che già va bene”.
Le produzioni a denominazione protetta vanno regolate di nuovo in modo corrispondente alla vitivinicoltura reale, cioè con una maggiore specificità.

Le regole dell’attuale disciplinare in vigore per tutto il Cannonau di Sardegna, per esempio, valgono da decenni e riguardano tutta l’isola, dai mari alle montagne ed è semplicemente assurdo: furono fissate all’origine da un precario equilibrio di compromessi tra alcuni limiti fissati col bilancino del farmacista e altri con la superficialità del politico, ma le varietà organolettiche di quei vini, pur provenendo da un unico vitigno sono sempre state differenti per territorio, per terreno, per vallata.
Con il miglioramento della qualità, oggi si sono ulteriormente differenziate, si sono ”alterate” (ecco, l’ho detto!) e non corrispondono più a ciò che pretende di leggere in etichetta, con maggior precisione, l’appassionato di vino.

Un’unica DOC Sardegna era vista allora come un grande veicolo pubblicitario comune per i vini sardi in generale, ma che erano già tipicamente diversi, tanto da ”brigare” l’un contro l’altro perfino sotto lo stesso marchio. Se ne accorgono ormai in tutto il mondo e non è più il caso di prolungarne l’agonia. Lasciando pure un bel marchio della Regione Sardegna sulle bottiglie, che si facciano finalmente altrettanti diversi disciplinari DOPG di zona e che in etichetta si sappia davvero cosa bolle in bottiglia: come si fa a tenere ancora insieme i vini delle coste, fra loro lontanissime, con quelli della pianura del Campidano o delle colline calcaree coltivate a sughero oppure delle granitiche montagne?
«Ajó!… ispizzàresi, ca b’amus galu meda de fàghere!» avrebbe detto zia Peppa.

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