Guglielmo Vuolo: la tradizione si fa avanguardia

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Sono passati poco più di due mesi dal convegno Acqua d’a-mare, nel quale si è parlato dell’impiego dell’acqua marina, sperimentata nell’impasto per le pizze di Guglielmo Vuolo.
Ritorno con la mente al nostro incontro, dopo quell’evento, al seguito del quale poi stampa e internet hanno rimandato a raffica la notizia e i relativi commenti, e rivedo ancora come Guglielmo Vuolo si sedette al tavolo della sala ancora vuota di Eccellenze Campane e con fare quasi esausto si tolse gli occhiali per dare la stura a un sospiro importante.
Gli ultimi giorni, culminati col convegno e la sua eco, quasi una tortura, per lui, un uomo e un artigiano che ogni santo giorno si ripete, come un mantra salvifico, io faccio ‘e pizze, cioè io svolgo un mestiere, sono un lavoratore, anche se mi appellano maestro, anche se mi invitano professori universitari, anche se divento di fatto l’esecutore di un progetto importante del CNR, anche se addirittura mi si costruisce attorno un convegno scientifico che ha per oggetto le mie pizze.
Proprio non è nelle sue corde, farsi fotografare, rispondere a un fuoco di domande, passare per un fenomeno che ha fatto qualcosa di eccezionale, quando questo qualcosa lo fa da quarant’anni, per lui l’esposizione mediatica è come la kriptonite per Superman.
Io faccio ‘e pizze, e com’è vero Guglielmo Vuolo quando lo dice, quando lo rivendica come un’identità che dal passato, dalla tradizione, si rivela l’unico modo di proiettarsi nel futuro, come le migliori avanguardie.
Era stupito, frastornato, anche un tantino irritato: perché ci svegliamo adesso? Perché stiamo tutti ronzando attorno a ‘sta benedetta pizza che esiste da prima che emettessimo il nostro vagito iniziale e che sembra intenzionata a sorpassarci per molti lunghi anni a venire? Perché gli elementi di questo mestiere antico e futuribile, con i quali ogni pizzaiolo si confronta da sempre quotidianamente, oggi sembrano diventati oggetto di curiosità, evento da piazzare sotto i riflettori, trasformando l’uscita di una pizza in un carrozzone, gridando all’evento epocale quando la sperimentazione scientifica è partita già da tempo, in silenzio, come tutte le cose serie?
Un ragionamento lucidissimo, il suo, che ricorda quello del Socrate platonico quando scopre che i filosofi in città credono di sapere ma non sanno: noi tutti che abbiamo sfilato davanti a lui in occasione di questa cosa strana, la pizza fatta con l’acqua di mare, crediamo di sapere l’importanza di questo evento e invece non sappiamo nulla, se siamo qui è innanzitutto per avere qualcosa da raccontare che faccia il botto.
E in questo modo spostiamo l’attenzione dalla serietà del progetto che c’è dietro – che non si limita a fare quattro pizze ma che aspira a diffondere l’uso dell’acqua marina al punto da dare un serio contributo al controllo dei problemi cardio-vascolari – all’effimera luce dell’evento raro con degustazione di qualcosa di unico e inedito, da ripiazzare sui social per dire c’ero anch’io.
A questo gioco per nulla divertente e puerile Guglielmo non ci sta, così come alle accuse velate, alle frecciate fuori luogo, ai travisamenti di questa e di tutte le altre iniziative che lo vedono coinvolto.
Il progetto in questione si intitola “Sale, meglio poco…” ed è sorto a opera dell’Università popolare di Scienza degli stili di vita di Trani, il cui presidente, Vincenzo Di Donna, è specialista in chirurgia vascolare e ha a cuore – è il caso di dirlo – proprio le problematiche insorgenti all’eccesso di cloruro di sodio.
Poiché nell’acqua del mare di cloruro di sodio ce n’è circa il trenta per cento, sono altri i sali e i minerali che apportano sapidità, oltre agli effetti benefici sulla circolazione e sull’equilibrio ormonale, dovuti al ferro e allo iodio.
Alla fine, Guglielmo è riuscito, dopo molte prove, a realizzare un impasto che funziona e che a quanto pare non fa registrare, al palato di chi lo assaggia, differenze significative.
Eppure non è stato semplice, poiché il sale, o meglio, il cloruro di sodio che normalmente usiamo per cucinare e anche per impastare la pizza, ha un ruolo determinante nel costruire la maglia glutinica e nel moderare l’effetto degli zuccheri, e se ne facciamo a meno – come nel caso della pizza con acqua marina – dobbiamo affrontare un nuovo ordine di problemi.
Questo vuol dire che le delicatissime fasi della lievitazione e della cottura possono risultare ostiche anche a un maestro dell’impasto come lui.
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Perciò, la pasta all’acqua di mare ha un tempo ottimale di lievitazione inferiore alle ventiquattr’ore, e la cottura va controllata con grande sollecitudine, perché l’assenza del cloruro di sodio produce una colorazione più rapida del cornicione, prima che però la pizza sia davvero cotta a puntino.
Qui si coniugano dunque la dimensione artigianale del pizzaiolo con quella del chimico, le quali vanno a corroborare l’altra faccia della medaglia, quella medico-sanitaria, visto che la pizza che ne viene fuori è iposodica, leggera – in termini di vero e proprio peso specifico – e più digeribile, il che costituisce un forte sgravio sull’apparato cardio-vascolare e digerente di chi la mangia.
Eccezionale, verrebbe da dire, per l’importanza e l’innovazione di tutta l’iniziativa.
Invece no, e Guglielmo ha ragione: tutti coloro che hanno ribattuto la notizia, che sono andati a bussare alle porte di Eccellenze Campane per parlargli, che hanno azzardato romantici paragoni con le freselle spugnate nell’acqua del mare per far sembrare il tutto un riagganciarsi a una tradizione pittoresca, dovrebbero sapere che questo è solo un episodio di un film molto più lungo, che il CNR e la Steralmar – l’azienda di Bisceglie che realizza quest’acqua di mare depurata, frutto di filtraggi tecnologicamente avanguardistici che conservano le caratteristiche organolettiche originarie – hanno iniziato a girare già nel 2012, ma ovviamente nessuno ne parlava, nessuno sapeva che chiuso nel laboratorio Guglielmo dava il suo contributo di artigiano silenzioso a un’impresa che, se avrà modo di affermarsi, davvero porterà un contributo epocale.
Questa vicenda dell’acqua di mare, dal punto di vista di Guglielmo, conferma la distorsione che la dimensione mediatica sta causando al mondo reale dell’enogastronomia: come una lente deformante, fenomeni del tutto quotidiani, normali, perfino storicizzati nella vita di ogni singolo pizzaiolo o cuoco, diventano un fatto, una notizia, una novità, un oggetto da immortalare in foto da condividere e chi arriva primo è più bravo.
Senza comprendere che la velocità di esposizione alla dimensione mediatica è direttamente proporzionale alla morte stessa della notizia: se un giorno tutti parlano della pizza all’acqua di mare, il giorno dopo tutti si butteranno su qualcos’altro, e nulla mai sarà veramente, ma veramente importante, e capace di fare la differenza.
In questo modo non si fa informazione ma banalizzazione, e si rischia di non cogliere la reale importanza dei fatti.
Chi ha voluto leggere l’evento della pizza all’acqua di mare come una furbata mediatica, come un prezzolamento del pizzaiolo al servizio dell’azienda produttrice, o semplicemente ha voluto stigmatizzarlo facendo battutacce sulla percentuale di coliformi fecali nelle nostre acque marine, o non capisce o è il classico concorrente in malafede.
Il lavoro serio, quello lontano dagli altoparlanti e dalle casse di risonanza, continua nonostante tutto, ma solo in pochi sanno notarlo, apprezzarlo, valorizzarlo.
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Chi sa che, mentre siamo appena usciti dall’ondata veneta della pizza gourmet fatta con farine ad alto contenuto di fibra, Guglielmo già da tempo usa immettere una piccola percentuale – massimo un quinto – di farina 1 – del molino Agugiaro e Figna – nell’impasto per aumentare profumi e digeribilità?
Chi sa che, mentre tutti fanno a gara a chi ha il pomodoro più raro e antico, Guglielmo già da anni ha riscoperto il pomodoro tigrato selvatico, la cui produzione oggi è affidata all’Agriselva?
Chi sa che un tempo, di solito nel fine settimana, nei mercati rionali, era possibile comprare un’insalatina, la pucchiacchella, ossia la portulaca, e che quindi ritrovarla oggi sulla pizza di Guglielmo non è l’ultima trovata per farsi pubblicità, ma uno dei tanti solidi passi indietro per andare ancora più avanti, alla ricerca delle radici che permettono di far crescere la pianta della pizza verso un domani felice?
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E le prove col grano arso? E il ritorno al legno di alberi da frutto, come il ciliegio, al posto del solito faggio, per alimentare il forno? E le pampuglie realizzate da legnami certificati?
Chi sa che, per un pizzaiolo serio e innamorato della sua professione, mettersi in gioco ogni giorno è il solo modo per conservare un profilo alto e rispettabile, e non la pagliacciata del momento per farsi vedere sulla cresta dell’onda per accaparrarsi una manciata di “mi piace”?

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Il bello è che durante tutta la chiacchierata, Guglielmo si fa accompagnare, ora nel laboratorio, ora dietro al banco, si racconta, spiega come e perché fa quello che sta facendo, mi fa persino sollevare con le mani le pizze sfornate per sentire che forse una piuma risulterebbe addirittura più pesante.
Da uomo dedito al lavoro, e quindi da uomo che sa che cos’è il rispetto per le persone, ha giustamente approfittato dell’occasione per rivendicare quello per sé, e che tutti gli dobbiamo per la fedeltà al suo mestiere.
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E quante cose ho imparato io stesso da questo incontro, sulla serietà che io stesso devo incarnare quando vado a ficcare il naso dietro un bancone o in una cucina, sul rispetto che devo trasmettere sempre e comunque a persone che sono lì innanzitutto per sopravvivere con i propri familiari, sui sentimenti che inevitabilmente si muovono dietro la facciata del professionista che svolge il suo lavoro.
Uomini come Guglielmo hanno tanto da dire e da trasmettere, e hanno il difficilissimo compito di dover condensare tutta la loro esperienza e ricchezza in quei dieci minuti nei quali assaggi la sua pizza, col rischio di non coglierne tutta la complessità, se non ti dai tempo.
Come il mare stesso, che gli dona l’acqua per le sue incredibili pizze, anche Guglielmo Vuolo è di tutti quelli che lo sanno ascoltare.

di Sergio Cima

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