Né polpetta né salume: ecco a voi la pitina!

PITINA

È stato pubblicato il 2 luglio 2018 nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea il regolamento comunitario che sancisce la definitiva registrazione della Pitina tra i prodotti a indicazione geografica protetta (IGP), consentendole di entrare nel ristretto club di cui fanno parte in Friuli Venezia Giulia i DOP Prosciutto di San Daniele, Formaggio Montasio, Olio Tergeste e Brovada, nonché l’IGP Prosciutto di Sauris. Ma che cos’è la Pitina? Un prodotto unico e irripetibile delle vallate e della montagna pordenoneseVal Tramontina, Valcellina, Val Colverafatto con carni ovicaprine o di selvaggina ungulata, conservato grazie a un processo di affumicatura e a uno strato protettivo di farina di mais.

Se la Pitina ha ottenuto l’IGP da parte dell’Unione Europea, buona parte del merito va a Mattia Trivelli, macellaio di Tramonti di Sopra, scomparso nel 1992. All’inizio degli anni ’80 fu il primo ad avere l’intuizione che quel cibo umile, quella  “polpetta” nata in una economia di sopravvivenza, in ambito strettamente familiare, poteva incontrare il gusto del consumatore. E diede inizio alla produzione a livello artigianale. Mattia non si limitò a vendere la Pitina nella sua macelleria: andò a proporla nelle più importanti fiere della Regione, facendola diventare prodotto apprezzato e a rischio di imitazione: tant’è che il 04 aprile 1989 Trivelli presentò all’Ufficio Italiano Brevetti la domanda di registrazione del marchio “Pitina”. 

Oggi la Pitina è Presidio Slow food, che così la descrive: di origini contadine, nascper soddisfare l’esigenza di conservare la carne nei mesi autunnali e invernali, in zone tradizionalmente povere, come quelle delle valli a nord di Pordenone: se si uccideva un camoscio o un capriolo (anche di frodo…) , se si ammalava una pecora o una capra (troppo preziose per essere macellate), si doveva trovare il modo di non sprecare nulla. Da queste esigenze di conservazione delle carni nacque la pitina e le sue varianti peta e petuccia, che differivano per le diverse erbe aromatiche aggiunte nell’impasto e, nel caso della peta, per le dimensioni più grandi. La carne, riserva alimentare per i mesi invernali, veniva triturata finemente nella pestadora (un ceppo di legno incavato. Si aggiungevano sale, aglio, pepe nero spezzettato, rosmarino selvatico e altre erbe selvatiche locali a seconda delle zone. Con la carne macinata si formavano delle polpette del peso di 200-300 grammi, poi passate nella farina di mais e si facevano affumicare sulla mensola del fogher (camino), bruciando soprattutto legno di pino mugo. La caratteristica forma a polpetta è dovuta al fatto che nelle zone montuose delle Valli pordenonesi non era facile reperire budella per insaccare la carne, ecco il motivo dell’infarinatura e della successiva affumicatura, senza bisogno di particolari competenze o strumenti. Dopo l’asciugatura venivano cotte spesso nel brodo di polenta insaporito da ginepro. Oppure si tagliava la pitina a fette e la si scottava in un tegame con un po’ di burro. Nel frattempo si preparava la polenta con la classica cottura della farina in acqua salata e quando l’impasto era ancora semi liquido lo si versava sulle fette di pitina cotte nel burro, lasciando rapprendere, prima di servire.

Oggi il gusto deciso e sapido della pitina è ingentilito da una parte di carne di maiale (lardo o capocollo) che smorza il sapore intenso e un po’ selvatico della carne di capriolo, capra o pecora. L’affumicatura si realizza per una durata di 3-4 giorni con diversi legni aromatici, con prevalenza del faggio. Dopo circa un mese di stagionatura può essere servita cruda, sottilmente affettata. Può essere scottata nell’aceto e servita con la polenta, rosolata nel burro e cipolla e aggiunta nel minestrone di patate, o ancora fatta al cao, cioè cotta nel latte di vacca appena munto. Ogni anno da alcuni anni un concorso intitolato a Maria Trivelli vede i fra ristoratori della zona gareggiare per il migliore piatto con la pitina come ingrediente principe.

PITINA

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