Nel settembre del 2015 sono approdata, per la seconda volta nella vita, in terra trevigiana. Avevo già vissuto in Veneto nel biennio 2009 – 2011, e, indirettamente, avevo potuto apprezzare alcuni vini del territorio, per quanto priva di quella consapevolezza con cui mi trovo ad affrontare oggi l’argomento. Ricordo che era tempo di vendemmia e, ovunque mi dirigessi a passeggiare, vi ritrovavo uomini e donne di tutte le età intenti con cura certosina alla raccolta delle uve. Dopo un 2014 assai funesto, il 2015 si preannunciava, invece, come una buonissima annata: la particolare attenzione dei viticoltori era giustificata, pertanto, dalla ferrea volontà di riscattarsi dalle cospicue perdite dell’anno precedente.
Da allora è trascorso più di un anno e la vendemmia 2016 è da poco terminata
Di vini del territorio ne ho conosciuti e bevuti a iosa, apprezzandone soprattutto la franchezza, che poi è esattamente la peculiarità del carattere dei trevigiani. E’ mio desidero però raccontare di un vino in particolare, un vino che negli ultimi anni sta facendo parlare di sé tutto il mondo e che persino l’Inghilterra, nonostante sia uscita dall’Unione Europea, non ha rinunciato a importare in grosse quantità: il Prosecco. Il clamore suscitato dalle vicende mediatiche degli ultimi giorni ne reclama ulteriore attenzione.
Da campana quale sono, ammetto di aver degustato, negli anni addietro, molta più falanghina, greco e fiano spumantizzati che bollicine di glera. Nella mia regione ahimè, o per fortuna, a seconda dei punti di vista, siamo molto campanilisti e il concetto di km 0, che applichiamo al cibo, lo applichiamo pure al vino.
Sorvolo sui grandi nomi commerciali di prosecco, che sono riusciti ad attecchire al sud. E sorvolo pure sul business che impazza vertiginosamente dietro a questo fenomeno di settore. Vorrei soffermarmi piuttosto su quella che è la materia prima del prodotto prosecco, e cioè il vitigno Glera. Che poi è un po’ come dire: “mettiamo a nudo un essere umano da tutti i suoi vestiti, i suoi trucchi, i suoi profumi artificiali, e facciamone riemergere l’anima”.
Ecco. Se alla fine di questo mio piccolo viaggio nell’universo prosecco avrò trasmesso a qualcuno quella che è la vera essenza di un’uva tanto esaltata quanto bistrattata, discrezionandone l’autenticità e la tipicità dalle catastrofiche conseguenze del business suddetto, allora sarò riuscita nel mio intento di fare uscire allo scoperto la sua anima.
Innanzitutto, partiamo dal frutto.
Di vitigno glera ce ne sono diversi biotipi, tutti semiaromatici, chi più chi meno, e tutti prediligenti terreni collinari piuttosto asciutti. Nella docg hanno compreso molto bene gli effetti negativi dei terreni umidi sulla qualità delle uve. La suddetta fatidica annata del 2014 ha determinato una produzione assai mediocre e scarsa a causa delle piogge incessanti. E sì, l’umidità è la più grande nemica della glera, soprattutto di quella allevata biologicamente, e nulla può talvolta l’uomo contro l’imprevedibilità di certi fenomeni atmosferici. E, mi duole dirlo, ma pure quest’annata 2016 è stata caratterizzata da forte piovosità e improvvise grandinate: parecchie aziende si sono infatti ritrovate a fare i conti con una perdita di circa il 30% della produzione.
Correte subito ad acquistare Prosecco del 2015, verrebbe quindi da suggerire! Peccato che questa tipologia di vino, realizzata con Metodo Charmat, non si presti ad un lungo affinamento in bottiglia. Insomma, l’affare salta a piè pari.
Sono sempre più rari i casi in cui si riesce a degustare un Signor Prosecco. E questo a causa di un’omologazione generalizzata del prodotto finito, che i più attribuiscono al disciplinare. Un giorno, un produttore di vini naturali mi portò a riflettere sulla questione. Egli asserì: “Poniamo 10 grandi nomi affermati del prosecco dinnanzi ai loro 10 prosecchi e vedrai che nessuno sarà in grado di riconoscere il suo”.
Possibile? Una madre che ha partorito il proprio figlio dovrebbe essere sempre in grado di riconoscerlo, purchè questi mantenga inalterate le proprie specifiche caratteristiche.
E dunque, cosa sta accadendo?
Succede che negli ultimi anni la domanda da parte del consumatore si è essa stessa omologata: tutti a bere prosecco e tutti a berlo Extradry. In Italia come all’estero. Perchè il prosecco è un vino di facile beva e si presta ad accompagnare gli aperitivi – che ora sono di gran moda – sia a pranzo che a cena. Liddove il Metodo Classico non riesce ad assecondare la richiesta, anche e soprattutto per i costi più elevati, subentra e vince quello Charmat. Liddove la richiesta proviene invece da palati un poco più esigenti, subentra e vince lo Charmat lungo. L’equazione è semplificata e tutti sono più contenti. E invece no.
Perchè come in tutte le storie di fenomeni economici fuori misura c’è il rovescio della medaglia. E qui esso è rappresentato dal fatto che la domanda di cui sopra, oltre ad essersi omologata, ha pure superato di gran lunga la disponibilità dell’offerta. Succede che molte cantine, nel giro di pochi mesi dalla messa in commercio del prodotto finito, hanno già esaurito pure le riserve. Ma il prosecco, sia doc che docg, non è una bevanda effervescente e zuccherina riproducibile in quantità stratosferiche in una qualsiasi parte del mondo, avendone a disposizione la ricetta perfetta; né tanto meno è un manufatto complesso, che può essere assemblato con una catena di montaggio e un determinato numero di operai a disposizione.
Il Prosecco è prima di tutto un vino.
E il vino è la bevanda alcolica che si ottiene dalla fermentazione totale o parziale del frutto della vite, l’uva. La canzone per bambini “Ci vuole un fiore”, di Gianni Rodari, d’improvviso mi balena nella testa ed, anche se può sembrare banale, essa ci porta a riflettere sulla questione: in pochi anni abbiamo trasformato in seriale e globalizzante il frutto di madre natura. E, assuefatti da questo super prodotto, ne richiediamo sempre di più, finendo coll’esigere dalla natura stessa uno sforzo sovrannaturale.
Non intendo muovere in questa sede un’ulteriore polemica contro lo sfruttamento delle colline trevigiane, né tanto meno contro l’impiego spregiudicato di concimi e pesticidi da parte degli allevatori della vite. Già qualcun altro di maggior levatura ci sta pensando in questi giorni.
Mi piacerebbe, però, fare un viaggio nel tempo
Tornare al secolo scorso, quando tra queste colline pascolava ancora il bestiame e si addomesticavano maiali con cui approvvigionarsi di cibo per tutto l’anno; si produceva seta per la diffusa presenza di alberi di gelso, le cui foglie alimentavano i bachi; si coltivava mais al fine di ottenere la farina per la polenta quotidiana e si allevavano le viti, con parsimonia.
Il prosecco che i contadini e alcune aziende agricole facevano allora – quello dei nonni, per intenderci -, veniva chiamato “colfondo”.
La sua vinificazione consisteva in una sorta di metodo classico, con seconda fermentazione in bottiglia, ma senza sboccatura. Ne derivava un vino frizzante, torbido, asciutto, con sentori e sapori fragranti e sinceri di lievito, il quale accompagnava meravigliosamente il freddo pranzo di salumi e formaggi al sacco, che i contadini portavano con sé a lavoro nei campi. Come per l’antica fiaschetta impagliata a mano del chianti classico, anche il prosecco aveva il suo particolare packaging: tappo a fungo e tipica legatura a spago. L’ultima tendenza di oggi pare sia proprio questa. Assieme ad un ritrovato gusto per il dosaggio zero. Deo gratias!
Tempo di innovazioni…
Tale situazione sarebbe stata ben presto spazzata da tutta una serie di innovazioni di specializzazione colturale e metodologie di vinificazione, che già alla fine dell’800 erano state introdotte da due grandi luminari della Scuola Enologica di Conegliano, Carpenè e Vianello, col solo scopo di ridimensionare le colture promiscue esistenti ed ottimizzare quella che già allora sembrava la più vocata a far girare l’economia: l’uva. Negli anni fu un susseguirsi di piccoli, ma repentini, cambiamenti, che iniziarono a modificare irrimediabilmente l’assetto territoriale. Finché, col rivoluzionario boom degli anni ’90, cambiò drasticamente tutto, con un’escalation nella seconda metà degli anni 2000 e un’ulteriore definitiva impennata negli ultimi due anni.
Ma se da un lato il Prosecco è divenuto il vino italiano più esportato all’estero, superando, nel 2014, addirittura lo Champagne per numero di bottiglie vendute nel mondo, d’altro canto non si può restare ciechi dinnanzi alle profonde mutazioni del territorio: gli incessanti disboscamenti, intensificatisi a dismisura negli ultimi anni, stanno trasformando del tutto l’aspetto originario di queste colline, al solo fine d’impiantare nuovi vigneti di glera e produrre altro prosecco per rispondere all’incessante richiesta.
Eppure, un’incontaminata natura boschiva ancora oppone la sua resistenza da qualche parte. Quella stessa natura che mi ha incantata più di un anno fa, facendomi decidere di restare. Essa ha ancora un universo di segreti da raccontare, ma solo a chi la sa guardare e soprattutto ascoltare.