Chiude il Noma di Copenaghen: “L’alta cucina non è più sostenibile”

Chiude il Noma di Copenaghen.

La notizia è del New York Times e sta facendo disperare i cultori del fine dining internazionale, da sempre appassionati di questo ristorante simbolo della “nuova” cucina mondiale, che è stato per anni un simbolo della rivoluzione degli chef del nord Europa, alle prese con sperimentazione e nuove idee gastronomiche, che hanno davvero scardinato il sistema culinario basato sulla Francia prima e sulla Spagna poi. René Redzepi è stato per anni considerato un guru, chiamato a ragionare sui problemi mondiali proprio partendo dalla sua innata capacità di rifondare un modello, di reagire a un sistema completamente fermo, di coinvolgere la sua Nazione in una vera rivalutazione gastronomica, portando al suo settore soldi, attenzione, fama, e mettendo Copenhagen al centro delle rotte dei gourmet di tutto il mondo.

Come sottolinea Julia Moskin nel suo articolo: «Sin dalla sua apertura vent’anni fa, il Noma, il ristorante di Copenaghen che serve testa di oca, cuore di renna alla griglia su un letto di pino fresco e gelato allo zafferano in una ciotola di cera d’api, ha trasformato la cucina mondiale. Una nuova élite globale di gastroturisti pianifica voli di prima classe e intere vacanze per avere il privilegio di pagare almeno $ 500 a persona per il suo menu degustazione a più portate.

Il Noma è più volte in cima alle liste dei migliori ristoranti del mondo e il suo creatore, René Redzepi, è stato acclamato come lo chef più brillante e influente della sua epoca. Tuttavia, ha dichiarato Redzepi al New York Times, il ristorante chiuderà per servizio regolare alla fine del 2024. Noma diventerà un laboratorio alimentare a tempo pieno, sviluppando nuovi piatti e prodotti per la sua operazione di e-commerce, Noma Projects, e le sale da pranzo saranno aperte solo per pop-up periodici. Il suo ruolo diventerà qualcosa di più vicino al chief creative officer che allo chef».
Se siete interessati al settore da un po’ di anni, non potrete non collegare questa scelta con quella fatta da Ferran Adrià, che del passaggio necessario da ristorante a luogo di sperimentazione è stato un precursore.

Anche Redzepi, dunque, ha capito che l’alta cucina, così come l’abbiamo finora concepita, non ha futuro: «Dobbiamo ripensare completamente il settore». Gli fa eco anche David Kinch, lo chef californiano che la scorsa settimana ha chiuso il suo ristorante tre stelle Michelin Manresa: «L’alta cucina è a un bivio e devono esserci enormi cambiamenti. L’intero settore se ne rende conto, ma non sa come uscirne. Il fine dining, come i diamanti, il balletto e altre attività d’élite, spesso partono da abusi. Tutto ciò che è lusso è costruito sulla schiena di qualcuno: qualcuno deve pagare». E forse finalmente quel qualcuno non è più disposto a farsi sfruttare.

Dovremo mangiare solo in ristoranti semplici e familiari? Forse no, ma di sicuro tutto il sistema ha bisogno di una rivoluzione, e di una normalizzazione. Perché la creatività ha bisogno di sperimentazione, di alti costi, di grande professionalità e di dedizione assoluta. La tendenza alla perfezione che richiede turni massacranti, gli scarti delle materie prime, gli ingredienti stessi che prima erano lusso e oggi sono visti come un bene non etico ci portano a pensare che questo tipo di cucina non è ammissibile, socialmente accettabile, eticamente tollerabile. E quindi? Forse, serve anche in questo settore un po’ di misura.

Il lusso e con lui l’alta cucina, per definizione, non sono più sostenibili. Perché ci dobbiamo sforzare di farli diventare tali? Perché vogliamo snaturare questa sua caratteristica intrinseca? Per essere sostenibile, il lusso dovrebbe essere davvero inaccessibile, ma il lusso lo desideriamo tutti e per non sentirci in colpa lo vogliamo sostenibile.

Ma se così fosse, tornerebbe ad essere un vero lusso, e solo pochi potrebbero utilizzarlo. A questo punto sì che il suo impatto sarebbe minore. Ma non lo sarebbe comunque, perché sarebbe il vertice di una piramide alla cui base ci sono comportamenti non sostenibili.

E se ci limitassimo a rendere sostenibile quello che è possibile, e non ci ostinassimo ad essere politicamente corretti sempre e comunque, anche solo di facciata, anche quando è impossibile e non necessario esserlo?
Quello che è certo è che stiamo scrivendo una lingua completamente nuova, che ci sfida ad essere creativi e a imparare continuamente: e che il fine dining come l’abbiamo negli ultimi anni concepito ha probabilmente le ore contate.

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