Anici e topi (col permesso di Steinbeck)
- diTestadiGola
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Collocato su quell’asse ideale che collega opulenti pranzi domenicali con la credenza della nonna, quella che odora di calzini bagnati e funghi pleurotus c’è l’anice. Liquoroso dopo pasto, felicemente compatibile con i palati femminili, suddetta bevanda deve la sua fortuna alla spezia super aromatica, già disinfettante intestinale, che per primi i monaci (gente che sa campare, ca va sans dire) hanno pestato, filtrato, miscelato, fino a raggiungere un risultato molto simile a quello che ancora oggi, a distanza di una manciata di secoli, incontrano le nostre papille.
Assai diffuso tra le popolazioni che abitano al di sotto della linea gotica, l’anice scandisce le controre dei giorni di festa, non di rado arricchito con la classica mosca (evidentemente un’ottima ragione per non berlo) cioè un chicco intero di caffè. In Campania, terra di amore e ragù, l’anice è prodotto e commercializzato dagli stabilimenti caivanesi de La Sorgente.
A tutti nella vita, almeno una volta, sarà capitato di imbattersi in quelle polverose bottiglie, dimenticate su una mensola di un bar dimenticato a sua volta, e dirsi: ‘Mamma mia, ma come l’hanno fatto brutto quel Topolino’.
Già. Perché sulle bottiglie che conservano lo stucchevolissimo liquore campeggia fiero dal 1920 quello che è decisamente un topo assai somigliante al protagonista del fumetto che tutti conosciamo. Ma agli intenditori di topi –o più semplicemente agli intenditori di fumetti- non sfuggirà il fatto che il Topolino di disneyana memoria fa la sua comparsa soltanto nel 1928 ostentando una faccia buffa, guanti ipertrofici e orrendi pantaloncini corti.
Diverse le ipotesi formulate a riguardo.
Una leggenda –non smentita dagli stabilimenti di Caivano- vuole che agli inizi del ‘900 un signore di nome Michele Sòrece (vaga autoreferenzialità o una semplice coincidenza?) in procinto di imbarcarsi per le Americhe abbia deciso di portare con sé un disegno a carboncino faticosamente buttato giù nelle settimane precedenti la sua partenza, e che arrivato nel paese dove tutti i sogni si avverano, abbia incontrato nientepopodimenoché Walter Elias Disney che lo avrebbe aiutato a sbarcare il lunario nei primi tempi dopo il suo arrivo, offrendogli anche una mano per sbrigare le pratiche per l’immigrazione. Infinitamente grato al suo benefattore, Sòrece avrebbe regalato a quello che di lì a qualche anno sarebbe diventato il papà di Mickey Mouse, una bella bottiglia di Anice Reale che recava, allora come oggi, proprio l’immagine del topo come lo vediamo in Plane Crazy (guarda qui il video), il primo cartone in cui il personaggio fa la sua comparsa.
Altrettanto accreditata l’ipotesi che a disegnare il topolino della discordia sia stato un celebre illustratore dell’epoca, tale Quirino Cristiani, designer italo-argentino che dalle Americhe veniva e tornava con grande disinvoltura al punto da rendere verosimile l’incontro, a Kansas City con Walt Disney.
Verità o mistificazione? Storia o leggenda? Analisi dei fatti o revisionismo storico? Piace cullarsi nell’idea che il vecchio caro Topolino parli in fondo un po’ di napoletano. Quello che è certo, al di là di ogni ragionevole dubbio però, è che l’intuizione di fare del ratto antropomorfo una star di caratura internazionale, è stata della moglie di Disney, la signora Lillian Bounds, che negli anni della grande depressione, tra un tacchino da imbuttunare e l’altro, decide di puntare tutto sul neonato topo, dimostrando di fatto una capacità di scouting che farebbe rabbrividire perfino Pippo Baudo.
Morale: le donne hanno sempre ragione.
Sarah Galmuzzi