Brontolando con un calice di Chianti in mano

Sono sempre stato felice di pubblicare la corrispondenza con un lettore per proporre un argomento di discussione all’attenzione di tutti gli altri.

Un amico ricercatore universitario straniero, membro del Consiglio direttivo dell’Istituto del Vino e della Vite del suo Paese mi aveva scritto subito dopo il suo ritorno da una vacanza in Toscana, dov’era andato con tante belle speranze dopo alcuni anni dall’ultima volta in cui c’era stato e da cui era tornato, purtroppo, con i ”capelli rizzati sulla testa”, come mi ha letteralmente scritto. In Toscana non era andato al buio, anzi mi aveva scritto prima, chiedendomi qualche indirizzo di buoni produttori di Chianti da visitare e che, naturalmente, gli avevo dato. Ha girato molto, ha assaggiato con interesse, spendendo come ogni turista straniero un sacco di soldi per rivedere dei bei posti e per degustare dei gran bei vini, poi ha riflettuto in solitudine per qualche mese nella sua tana all’estero e… non ce l’ha fatta più a trattenersi il rospo in gola. Vediamo di che si tratta.

Caro Mario, sospetto che gli Italiani (pardon, in questo caso si parla di Toscani) si siano recentemente avviati sul facile sentiero della produzione di vini ”plastificati” di largo consumo di massa, privi d’individualità, fatti secondo la legge ma simili uno all’altro come due gocce di… (vino?). Naturalmente mi rendo conto della superficialità delle mie osservazioni, ma sono preoccupato perché nutro un certo affetto per la Toscana. Sicuramente in Toscana il vino lo vogliono soprattutto vendere, ma questo ha guastato l’antica arte degli enologi, che hanno già perso la propria tipica personalità. I loro vini cominciano a essere tutti simili a quelli che soddisfano il gusto anglosassone. Ma perché io sto brontolando? Mi viene in mente se non sia il caso di scrivere un paio di articoli proprio sull’argomento, però con molte precauzioni, perché un conto è leggere l’opinione di diversi autori che descrivono i piani alti della produzione e un’altra cosa è la mera realtà della grande base. Prima di scrivere qualcosa vorrei trattare approfonditamente la questione con te e assicurarmi se ho davvero ragione, perché è facile trarre delle conclusioni sommarie e ingiuste. La mia tesi che i Toscani siano passati alla produzione di un vino ”coca cola” mi fa molto male, ma purtroppo ho molte prove convincenti e dirette per poter sottovalutare la cosa. Mi rendo conto che il problema è complesso. Probabilmente al 70% è colpevole la legislazione vinicola. Può essere che questa abbia talmente limitato le possibilità di sperimentazione in campo che si è arrivati all’appiattimento delle possibilità di restituire particolarità e carattere al territorio, come avviene quando si dipinge un quadro usando soltanto due colori, senza le sfumature. Che sia un segno dei tempi? Una generale perdita d’individualità e di carattere locale? Una globalizzazione plastificata? Al solo pensarci mi si rizzano i capelli sulla testa. Cosa diresti di un articolo in forma di dialogo a tu per tu, tu e io? Ti saluto. Conosci nome e cognome…

Sinceramente mi sembrava che il dialogo non potesse rimanere limitato a lui e me, infatti gli avevo risposto che doveva prendere il coraggio a due mani per scrivere senza peli sulla lingua che cosa lui, sincero amante del buon vino, aveva trovato di cambiato in peggio in Toscana dopo tre decenni di assenza. Bisogna considerare che come lui, in estate, molti enoturisti vengono in ferie nel nostro Paese da tutto il mondo e li si può incontrare ormai in giro nelle città d’arte tutti intruppati con un cartello scritto nella loro lingua sollevato in cima ai cortei dalla guida. Vengono a godere della cultura e della buona tavola, ma anche per approfondire la conoscenza dei vini italiani tanto nominati all’estero, tanto propagandati attraverso Internet oppure degustati nel loro Paese grazie alle iniziative promozionali di qualche Consorzio o di qualche esportatore di buona volontà.

 

C’è forse qualcosa di meglio di un bicchiere di vino nel ristorante di un antico paese etrusco con una meravigliosa vista su Firenze? Al tavolino accanto, due Americane andavano in visibilio per un certo Chianti Classico, dunque con curiosità ho ordinato lo stesso vino. Con il Chianti, se ben ricordo, è sempre stato come con la roulette russa. Più di trent’anni fa si poteva comprare per poche lire sia un vino molto onesto sia una misera mistura che irritava la gola, ma erano pur sempre dei vini degni di attenzione entrambi.

Ero curioso di sapere cosa mi avrebbero servito adesso. Formalmente questo Chianti non aveva nessun difetto significativo. Purtroppo non si poteva nemmeno elogiarne qualcosa. Era un vino triste e afflosciato, privo di qualsiasi palpabile carattere o stile, un vino dall’acidità ridotta, dall’esiguo bouquet fruttato e dalla permanenza del gusto in bocca praticamente nulla. Aveva un sapore costruito, come se qualcuno ne avesse levigato gli spigoli e le vivacità per non offendere nessuno e accontentare possibilmente tutti. Purtroppo, in quel momento ho cominciato a invidiare l’ingenuità di quelle Americane. Erano venute qui probabilmente (per quanto conosco gli Americani) con un principio molto pratico, e cioè questo: ”in Toscana si produce uno dei vini migliori del mondo (così indicano le guide)… ergo… sto bevendo un vino eccellente”. Qui non serve nemmeno sprofondarsi in qualche analisi o valutazione di quello che si sta bevendo, l’hanno già fatto per noi le riviste specializzate, i famosi wine-writers d’oltreoceano. Rimane ”soltanto” la questione della piacevolezza. Ma sei sicuro, Mario, che in Italia continuate a ritenere che sia davvero necessaria?

E poi è andato tutto, purtroppo, sempre peggio. Avevo deciso di bere quei vini che sono accessibili al comune turista che visita Firenze e dintorni forse per la prima e l’ultima volta nella sua vita, che non s’intende di vino e che compra prodotti di largo consumo e alla portata di tutte le tasche. Ho provato così una sensazione violenta, come se da qualche parte a Firenze esistesse un enorme tino dove si mescolano tutti i vini del circondario per imbottigliarli ed etichettarli come vino DOCG per diversi produttori, unica differenza l’etichetta. Un miscuglio ovviamente privo di tutto ciò che è importante nel vino, cioè la personalità, il carattere, l’anima.

Ma che sicuramente si vende bene. Da questo viaggio ho portato a casa 18 bottiglie, principalmente di Chianti Classico DOCG. Tutte rientravano nella fascia di prezzo tra i 15 e i 30 euro alla bottiglia, dunque nella categoria più bassa (secondo le condizioni italiane) e in quella media per il comune turista. Avevano tutte il gusto del vino fatto però in gran fretta, da pigiare, imbottigliare e vendere subito. Soltanto una si distingueva lievemente in meglio dallo squallore di tutte le altre. E comunque rimane il fatto che a quel prezzo all’estero avrei potuto comprare dei vini del Cile, della Repubblica Sudafricana o dell’Australia di classe sicuramente doppia”.

Fine dello sfogo del mio amico.

Vorrei rivolgere una domandina semplice semplice, terra terra, agli amici toscani: ”Vi si sono mai rizzati i capelli sulla testa per ciò che da qualche anno trovate sul mercato come vino, per esempio DOCG, di Toscana?“.  A me sinceramente sì. Ci sono in giro troppi Chianti Classico con la fascetta rosa, cioè garantiti (per così dire) dalle commissioni di degustazione delle camere di Commercio, che escono dalla cantine minimo 3,66 € la bottiglia e si trovano in certi ipermercati in offerta 3,99 €, ma che sono soltanto un pallido ricordo di quello splendore di vino che si è conquistato i favori di tutto il mondo almeno fino a quarant’anni fa, lo stesso che oggi soltanto una minoranza di marche affidabili continua a produrre battendosi come un leone per rimanere ai vertici di quella qualità certa e competitiva che aveva ereditato dalla tradizione e sforzandosi di migliorare ancora.

Mi fa letteralmente ribrezzo vedere accomunate con la stessa fascetta ministeriale, con la stessa denominazione d’origine, sullo stesso scaffale del negozio, dei ”Chianti Classico DOCG” da quattro soldi e di pessimo livello qualitativo accanto a dei veri e propri gioielli dell’enologia del Chianti come Badia a Coltibuono, Badia a Passignano, Castello di Albola, Castello di Ama, Castello di Brolio, Castello di Meleto, Castello di Monsanto, Castello di Vicchiomaggio, Castello di Volpaia, Rocca delle Macie, Rocca di Castagnoli, Tenuta di Bibbiano, Tenuta di Lilliano, Tenuta di Valgiano, Fèlsina, Fontodi, Isole & Olena, Monteraponi, Montevertine, Riecine, San Felice … e via alla grande che ce n’è tanti ottimi davvero e scusatemi davvero se c’è poco spazio per continuare nell’elenco, ma hanno un prezzo medio di 38,7 € e massimo di 357!

E, tanto per non far torto a nessuno, perché non parlo mai a nuora affinché suocera intenda, la stessa cosa si ripete per altre ”verginelle”, come i Valpolicella, che con i Chianti sono i vini rossi italiani più conosciuti all’estero, oppure come i Barbera d’Asti, gli Oltrepò Pavese e i Prosecco di Valdobbiadene che, accanto a dei gioielli, in mezzo ai piedi si trovano le ciofeche con la stessa denominazione e la stessa fascetta.

Ovunque i disciplinari DOC e DOCG prevedono anche l’imbottigliamento lontano dall’origine e/o non sono abbastanza severi nei controlli, la ”plastificazione” dei vini assume un carattere sempre più endemico. Come si fa a permettere ancora ad autentiche porcherie di fregiarsi di una denominazione illustre in concorrenza perlomeno sleale nei confronti di quei produttori seri che fanno tanti sforzi per qualificarla? Se al 70% la colpa è della legislazione, il 30% è colpa dei relativi Consorzi che hanno lasciato fare e disfare a proprio piacimento tutta una serie di cantine con la “c” veramente minuscola per interi decenni, alla faccia della tutela che avrebbero dovuto garantire. Tutela d’immagine, di territorio, di credibilità, di trasparenza e di onestà che nel caso di questi grandi consorzi o carrozzoni è finita davvero sotto la suola delle scarpe. Che lorsignori, a partire dal Ministero delle Politiche Agricole, si diano dunque una benedetta regolata, che non se ne può più davvero…

Ora è tempo di domande.
– Come si è potuti arrivare a questa situazione in una delle regioni che producono vini che hanno dato e nei casi migliori danno un così grande contributo all’eredità culturale mondiale? Come si è potuto privare il vino, un componente di quest’eredità, di quel grande valore che gli deriva dalle particolarità di questa regione? Questo non è appunto nient’altro che un impoverimento in generale della cultura europea!
– Che parte di colpa ha nell’attuale situazione il disciplinare della denominazione d’origine?
– Che influsso hanno avuto in questi trent’anni i successi nell’esportazione del vino toscano sui visibili e negativi cambiamenti del suo stile? Ho prove sempre maggiori che le enologie nazionali, dopo aver ottenuto dei successi con le esportazioni, si arrendono con una velocità sorprendente ai gusti ordinari degli acquirenti d’oltreoceano e alle pretese dei grandi buyers di ridurre i prezzi o vanno a comprare altrove.

– Ma questa politica, calcolata per una globalizzazione plastificata e un guadagno veloce, sarà ancora redditizia in prospettiva?

Noi non possiamo deludere nessuno, tanto meno gli stranieri, offrendo dei cattivi modelli. Fino a qualche anno fa sono stati degli ottimi apprendisti, dovevano ancora formarsi il palato, ma adesso sono in grado perlomeno di individuare i nostri difetti e cominciano a chiederci conto di alcune scelte sciagurate che sono state fatte da certa nostra enologia. Cari produttori, è finita la pacchia, cominciano a distinguere il grano dal loglio, perciò smettiamola di spacciare specchietti per le allodole e vetri colorati come se fossero autentiche gemme!

Dulcis in fundo, ecco la sorpresina: a parte i prezzi, che sono aggiornati alla fine del 2021, questo è il testo di un articolo pubblicato il 26 luglio 2005, almeno 16 anni fa. Se c’è qualcuno che pensa che sia cambiato qualcosa alzi la mano…

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