Che ne sai tu di un campo di fave

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Nel mezzo del cammin di nostra vita,
mi ritrovai una mattina
a varcar la soglia di casa mia
dopo che il giusto sonno avevo smarrito
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Chi non si sveglia una mattina di primavera e approfittando di un tenue sole va per sgambettare un po’? Chi, mentre sgambetta, non s’accorge di un campo di fave e ne coglie qualcuna? Chi? Nessuno!! Io si invece…
Non so se siete soliti improvvisarvi podisti di una mattina di primavera alle sei, ma posso garantirvi che l’aria è ancora piuttosto frizzante. Così, dopo appena pochi metri, il mocciolo che normalmente comincia a pendere dal naso, si solidifica, le dita della mano assumono la tipica postura di mani affette da artrosi ed il relativo processo di degenerazione delle cartilagini avanza in modo repentino alle articolazioni del metacarpo, falangi delle dita, trapezio. Oltre a questo sinistro effetto, il rumore che si avverte all’inizio della corsa (cioè 50 metri prima) ai menischi non lo si sente più e quasi non ci si accorge che le ginocchia non si piegano più ma avanzano, come quelle di Rinaldo, figlio del duca Amone e di Beatrice, nonché fratello di Bradamante e cugino di Orlando… un pupo siciliano insomma!!! Le gambe diritte come tirate da fili invisibili dal cielo e le braccia oramai anch’esse solidificate, aperte e distanti dal corpicino che oramai aveva sintomi di assideramento. Infatti la rugiadina primaverile, bastarda, che solitamente bagna le piantine alla mattina, assume sulle sopracciglia, un velo arcato di colore bianco e trasformatisi dallo stato liquido a quello solido, diventano stalattiti con vari fenomeni di carsismo sparsi lungo il corpo. Per non parlare della vista che era stata già azzerata da circa 5 minuti buoni dato che lo sforzo aveva richiamato al dovere Santa Lucia che presentatasi con il piattino, vuole proporvi uno scambio di bulbi a cui chiunque oppone una vibrata resistenza, soprattutto dettata dall’affezione che naturalmente si nutre per le proprie cose.
Così anche per me quella mattina si è presentata in tutta la sua drammaticità. La vista di una pietra miliare a bordo strada mi invita alla seduta anche per far riscaldare i muscoletti intorpiditi dalla brina. Faccio appena in tempo a sedermi che scorgo dietro di me un vasto campo di fave già cariche e mature. Passare dall’idea all’azione è un attimo. Mi lancio allora nel campo e non avendo con me né sacchetti, ne contenitori vari, prendo il lembo davanti della maglietta e formando una sacca tra il ventre e la maglietta stessa, mi do da fare per riempire questo marsupio occasionale. La veemenza che mi spinge alla raccolta, è  dettata non solo dalla fretta di tornare a casa dove, rimembro, in frigo c’è un bel pezzo di guanciale (che ne sanno i vegetariani!), del pecorino romano, del pane fresco e una Nastro Azzurro ghiacciata, con relativo rutto libero fantozziano, ma anche dalla paura di essere scoperto dal padrone del campo che probabilmente non sarebbe stato molto contento alla vista della mia esile e snella, nonché atletica figura, intenta a rubargli le fave.
Sembra che tutto stia procedendo bene quando mi sento chiamare con tono imperioso. “Giancarlo…Giancarlo!!!”. Prima di alzare gli occhi, riconosco la voce: mio padre! Nell’attimo di rialzarmi penso già alla sua domanda: “che cacchio stai facendo nel campo di fave del vicino?”. Mi isso e scorgendolo in lontananza mi chiede se avessi fame già a quest’ora. Dopo un attimo di sbandamento, realizzo che non sono nel campo del vicino e che la famigerata corsettina era stata meno di 50 metri e mi trovavo praticamente lungo un lato del perimetro dell’orticello di mio padre che vedendomi nel suo “territorio” giustamente si preoccupa per la mia salute mentale e non tanto di quella fisica. Cerco di attaccarlo sul suo “terreno” di conoscenza agricola rimproverandolo che se non me ne fossi accorto della maturazione avanzata delle fave, si rischiava di perderle. Non so se per pietà o per misericordia, o proprio per la sordità che oramai gli ha fatto fuori le trombe di Eustachio, si volta e se ne va, ma lo scorgere nitido del gesto della mano destra che dal basso si alza verso l’alto, non lascia adito a nessun dubbio che mi manda paternamente a quel paese e fuga ogni titubanza, qualora ve ne fossero, che avesse perfettamente capito.
Torno lesto a casa, ma nella fretta di salire le scale, le chiavi, approfittando di un leggero buco nella tasca dei pantaloncini, si erano infilate e lo avevano trasformato in autostrada a cinque corsie da percorrere in tutta libertà e cadono. Cadendo si intersecano tra il gradino e la scarpa sinistra che in quel momento preciso stava raggiungendo il piano del gradino stesso. Risultato: la scarpa atterra sulle chiavi che per effetto del gradino liscio fanno da catalizzatore di velocità ed io con tutto il marsupio di fave volo con un triplo carpiato in aria per atterrare sul pianerottolo nella famosa posizione a X o a 4 di spade o a croce di Sant’Andrea. Il raccolto delle fave, volato a ventaglio durante il capriolone, sembra irrimediabilmente perduto, ma il muro della casa a cui le scale sono assicurate, salvano parzialmente il bottino e le fave, rimbalzando contro, atterrano di peso sul pianerottolo. Ma il grosso viene inesorabilmente schiacciato dal mio corpicino riducendo ciò che capita sotto, in un orribile poltiglia verde di dubbia e sinistra visione. Contestualmente riuscendo miracolosamente a conservare intatto il mento, la mandibola, la lingua e tutto l’apparato dentario appena rifatto alla modica cifra di 13 mila euro, parto con un bestemmione da competizione: 36 minuti!!! Di fronte casa mia, una signora zitella, nota bigotta della zona, sentendo il chiamare dei santi e non con toni simpatici ed amichevoli, ha un’extrasistole e va in crisi cardiocircolatoria. Dall’altro lato, dove c’è la casa dei miei zii, sentendomi urlare, anche non capendo cosa stessi dicendo e soprattutto pensando che fosse il loro vicino con il quale hanno una diatriba risalente al paleolitico e che molte volte hanno tentato di risolvere all’arma bianca, si producono in fantasiose ed edulcorate rappresentazioni delle immaginette tipiche della chiesa e cosi, la bigotta di cui sopra, che sembrava riprendersi dalla mitragliata bestemmiatoria, defunge definitivamente. L’armistizio, intanto, che reggeva già a fatica, da oramai tre giorni, viene definitivamente stracciato e riprendono, con più veemenza, gli attacchi ai mezzi agricoli dell’avversario con svariati atti di sabotaggio.
In lontananza, nel silenzio lugubre della contrada, si sente zappettare mio padre che ignaro di cosa sia appena successo attorno a lui, continua imperterrito a far saltare erbe e piante dannose per il raccolto dei piselli.
Raccolgo velocemente e furtivamente ciò che ho seminato e mi precipito, con ciò che resta delle mie gambe, infilandomi in casa, riversando sul tavolo quei 10-15 baccelli che sono riuscito a salvare dal pesto. Dopo essermi ripreso dalla successione dei colpi di scena, decido di riposarmi e di provvedere al rifocillamento delle stanche membra per le emozioni vissute. Così decido di avventurarmi in un tipico piatto romanesco: la gricia! Solo che la arricchirò con le fave superstiti. D’altronde, chi alle sei e mezza di mattina non si alza, provoca incidenti diplomatici con riattivazione della guerriglia tattica e si mette a cucinare una gricia? Nessuno! Solo io!
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Ingredienti per 4 persone:

  • 400 gr. di rigatoni
  • Alcuni baccelli di fave
  • 200 gr di guanciale
  • Pecorino romano grattugiato o da grattugiare
  • Pepe nero macinato o da macinare
  • Rosmarino e semi di finocchietto

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Estraete le fave dai baccelli e liberatele dalla pellicina esterna. Mettete intanto sui fuochi due pentole. Una per bollire l’acqua per la cottura dei rigatoni e un saltapasta dove metterete il guanciale tagliato a listarelle. Non aggiungete nulla nel saltapasta. Lasciate che il guanciale sciolga la parte grassa. Aggiungete mano a mano che diventa trasparente, sia il finocchietto che il rosmarino. Poi aggiungete le fave e con un mestolo prendete dalla vicina pentola di bollitura, dove intanto starà cuocendo la pasta, dell’acqua di cottura, versatela nel saltapasta, aspettate che venga assorbita e che si evapori.
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Appena cotti i rigatoni scolateli alla men peggio lasciando che un po’ d’acqua vada nel saltapasta affinchè possano essere amalgamati con le fave ed il guanciale.
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Dopo quei 2-3 minuti di mantecatura, togliete il tutto e servite nel piatto. Coprite i rigatoni con del pepe (meglio se macinato al momento) e dell’abbondante pecorino romano. Io ho usato pochissimo sale e solo nell’acqua di cottura (non amo troppo il sale), anche perché la sapidità è data dal pecorino romano.
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Preparato il piatto, servitelo, trionfante, al vostro commensale e gli sussurrate all’orecchio di non fidarsi mai di un cuoco magro!
Giancarlo Aquino

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