Tra le tante domande che mi vengono rivolte forse la più’ frequente e’ quella sul significato della parola kosher o kasher.
Cominciamo con il dire che la pronuncia ebraica (e italiana) è kasher e che la trasformazione in kosher è dovuta alla pronuncia gutturale degli ebrei ashkenaziti.
In fuga dal nord est europeo (sappiamo perché…) gli ebrei tedeschi, polacchi, ungheresi, russi si sono trovati a popolare il nord america e da qui, in virtù della loro consistenza numerica e culturale hanno imposto il loro modello, per cui oggi è più’ facile veder scritto “kosher” che “kasher”.
Letteralmente la parola significa “permesso, adatto, idoneo” (per maggiori approfondimenti l’articolo di Jean Michel Carasso QUI) e comprende tutto ciò che la religione ebraica consente di mangiare e bere.
Mangiare kasher quindi si riferisce agli ingredienti e non alle ricette che infatti variano da paese a paese e da città a città dove, localmente, gli ebrei hanno sviluppato le loro tradizioni, specialmente quelle gastronomiche, frutto dell’adozione e della contaminazione di ricette locali filtrate attraverso la kasherut.
Ecco perché un ebreo del ghetto di Roma un vero ristorante giudaico-romanesco ti offre un carciofo alla giudia o gli aliciotti con l’indivia e non il gefilte fish o il hummus.
Uno dei piatti frutto di tale contaminazione (complici gli ebrei partenopei emigrati nel ghetto romano) è la concia.
Come descriverla? Proverò in base alle mie emozioni.
Sottili sottili, veloci veloci le romanesche dentellate si adagiano naturalmente sul fianco una sull’altra.
Leggermente obliquo è il riposo delle zucchine ad asciugare e, al risveglio, si tuffano nell’olio bollente per la frittura che le renderà croccanti e asciutte.
Poi l’olio extravergine d’oliva, l’aglio e il prezzemolo faranno festa intorno a loro delicatamente euforici a causa di una provvidenziale spruzzata d’aceto.
Ecco. Questa è la concia per me!