Tre buone ragioni per andare (o tornare) a Pozzol Groppo e non dimenticarsene mai più
- diTestadiGola
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Certi luoghi sono diversi da altri perché quando ci capiti senti subito forte dentro il futuro desiderio di tornare, ed è una scintilla che si tiene viva finché la fantasia di ritorno non diventa realtà.
A me è successo a Pozzol Groppo, un fazzoletto di terra al confine della provincia di Alessandria, in Oltrepò, e per mia buona sorte non ho atteso una vita per rimetterci piede.
Ci ero andato qualche domenica fa, perdendomi con piacere tra i festeggiamenti per l’autunno, le api e il vino, fino a imbattermi in qualcosa, o meglio ‘qualcuno’ di straordinario.
Se repetita iuvant, ripetere l’esperienza e l’incontro con questo ‘qualcuno’ mi ha chiarito definitivamente le tre buone ragioni per andare – o tornare, nel mio caso – a Pozzol Groppo e capire che qualcosa è definitivamente cambiato.
Prima buona ragione: andare a trovare il casaro Marco Bernini
Per quanto mi riguarda, non si può andare in qualsiasi canto dell’Oltrepò senza fare una capatina da lui, ma addirittura arrivare a Pozzol Groppo e non visitare Marco Bernini, la sua casa e il suo diabolico micro-caseificio vuol dire davvero sprecare tempo.
Marco Bernini fa il casaro ma in realtà è un creativo; realizza formaggi, ma in verità materializza sogni; fa prodotti artigianali e genuini ma a dire il vero forgia vere e proprie pietre filosofali del gusto.
Quando Marco Bernini fa un formaggio siamo solo all’ultimo stadio di un processo creativo ispirato, come se avesse bisogno di una valida ragione per formare un cacio, e non solo per produrre qualcosa.
Ecco perché in passato si è tanto divertito a duplicare famosi formaggi da tutto il mondo, il che gli ha procurato l’epiteto di ‘ladro di muffe’, e tanta energia creativa si è espansa in altre strade sperimentali, come l’unione di formaggi e frutti, o le erborinature in bianco, o ancora l’invenzione di cagli ‘impossibili’.
Ogni formaggio, ogni idea, ogni produzione è un’avventura della mente prima ancora che delle mani che formano, ed è un processo così impetuoso che il nostro Marco – quando va bene – dorme due o tre ore al massimo, e investe tutto il resto nella sua arte.
Soprattutto, inventa e racconta facendoti sentire che cosa vuol dire incarnare contemporaneamente passione, competenza e coraggio.
Come accaduto nell’ultima forma inventata che, per materia prima e processo produttivo, mi permetto di battezzare provvisoriamente ‘caprozzarella’, in attesa che Marco crei un nome adeguato.
Quando Stravinskij presentò La sagra della primavera andò incontro a uno dei fiaschi più clamorosi della storia della musica e del balletto. Il pubblico, e anche buona parte della critica ufficiale, rimasero sconcertati da quella che a loro sembrò l’assurdità dei suoni di Stravinskij. Perché lui aveva usato delle scale alle quali aveva tolto delle note (scale esatonali e strutture ottatoniche n.d.r.), perciò all’orecchio sembrò che mancasse qualcosa, che ci fosse un buco, e questo diede fastidio all’orecchio dell’epoca. In realtà, da qualsiasi variazione si genera il nuovo. Un po’ come quando fai la stessa strada tutti i giorni, e dopo un po’ ti è indifferente, quasi non la vedi più. Se invece un giorno ne cambi un pezzo, vai dall’altra parte della strada, arrivi alla meta cambiando il percorso, lì ti si apre un mondo.
Questa la sua ‘spiegazione’ di come si accende l’idea per un formaggio nuovo, nuovo per lui perché non l’ha mai fatto prima, ma nuovo soprattutto per il mondo, quindi unico.
Dunque, la ‘caprozzarella’ – come si evince dal neologismo – parte dal latte di capra, lavorato a filatura come per fare una mozzarella, ma le sue caratteristiche purtroppo spingono la pasta rapidamente verso lo stadio di provola; allora Marco raffredda, ma senza immergere nell’acqua come si farebbe con un latticino, bensì calando il futuro formaggio in un cilindro nel quale del carbone vegetale dissiperà il calore senza abbatterlo, e quindi il processo di trasformazione all’interno proseguirà scemando lentamente.
Dopo cinque mesi di stagionatura, si presenta al taglio sodo come una provola al centro, più compatto verso la crosta, ma se si scalda appena o lo si assaggia in sfoglie sottili emerge la freschezza del latticino al palato.
Il parto creativo è così totale che quella forma assume addirittura le sembianze di un cervello attraversato da energia pura.
Come quello di Marco, che da solo costituisce la vera buona ragione per venire in questo angolo d’Oltrepò.
Seconda buona ragione: Marco di formaggi ne fa tanti
Si potrebbe credere che se per fare un formaggio c’è bisogno dietro di una tale mole di pensieri, associazioni d’idee, stimoli creativi, spunti, ispirazioni, non sarà poi così frequente per lui produrre caci.
E crederlo sarebbe un errore pregiudizievole: Marco ha all’attivo l’invenzione, la riproduzione e l’ibridazione di una tale quantità di formaggi che la definizione di micro-caseificio è piuttosto strettina.
Sempre restando al latte di capra, arriva una bella serie di cacioricotte, alcune speziate o aromatizzate con erbe, la cui realizzazione è sempre generata dalla voglia di far prendere forma alla propria immaginazione.
Questo formaggio nasce fresco, molle come una ricotta, poi viene ‘shockato’ nel forno ben oltre i cento gradi per indurre l’esterno a compattarsi, tolto dal calore e, quando la temperatura cala intorno agli ottanta gradi, rimesso a cuocere – ma in realtà si tratta più di una disidratazione che di una cottura – per due giorni interi.
In un altro gioco – tremendamente serio – Marco crea una ‘bomba’ di sapore – e infatti lo battezza bomba ’68 – rivestendo la sfera di miele e sigillando tutto con cera; in questo modo, la dolcezza infonde il formaggio, all’insegna di un abbinamento classico per ogni cacio.
Con il latte di vacca Marco sperimenta vari tipi di erborinature, come l’Erica Blu – lavorato come uno Stilton, ma non ditelo in giro! – in cui il punto più difficile è la salatura, di solito molto marcata in questa tipologia di formaggi, che invece a lui interessa tenere al limite senza farla prevalere, e ci riesce molto bene.
Altro esperimento, ormai celebre, lo zola in bianco, ottenuto inoculando nel formaggio la parte circostante – quindi bianca – di una vena d’erborinatura, trasferendo così il gusto senza colorare la pasta, secondo il più tipico dei motti dei prestigiatori, c’è, ma non si vede.
Terza buona ragione: Marco è uno scrigno di tesori dell’Oltrepò
Quello che Marco non fa deve prenderlo da qualcun altro.
Anche in questo, il felicemente insonne e irrefrenabile casaro dà il meglio di sé.
Marco conosce palmo a palmo il suo ambiente, come un animale ben radicato nel suo habitat, e sa esattamente chi fa le cose e come le fa.
Sa dove prendere il grano e il lievito per il pane, la birra, persino il vino; sa dove trovare la carne migliore, da chi prendere salumi fatti a regola d’arte, la frutta giusta per i suoi esperimenti fermentativi – a momenti realizzerà il suo innovativo sidro di pere – e naturalmente uno dei prodotti che caratterizzano, anche nel sentire comune, l’Oltrepò: il vino.
Nelle sue grotte, sono conservate bottiglie di metodo classico e rosé, a base pinot nero, fatte da Stefano Milanesi che si diverte a sua volta a scoprire come cambiano le caratteristiche dei suoi vini in base alle cantine in cui le lascia.
E se deve farti assaggiare un pezzo di formaggio, oltre al vino Marco ricorre alle sorprendenti birre di Montegioco, come la Rurale da 5,8 % di volume, caratterizzata da un equilibrio raro tra malto e luppolo che le danno un volto poliedrico, beverina al primo sorso e complessa e persistente man mano che si chiude.
Forse anche questo ci fa capire la dote fondamentale che anima Marco Bernini, ossia la capacità di guardarsi intorno e cogliere occasioni per imparare, migliorarsi, evolvere.
Tre moti dell’anima, imparare, migliorarsi, evolvere, che si trasferiranno anche in te, se solo ti convincerai che per andare a trovare Marco Bernini a Pozzol Groppo di ragioni ce ne sono ben più di tre.
Fattoria ‘La cavarchella’ di Marco Bernini
Via Ca’ d’Andrino 6
Pozzol Groppo (AL)
di Sergio Cima
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