Cina: i vini del dragone

Quando leggo oppure sento parlare di contrapposizione occidentale ai Paesi dell’Est mi vengono in mente Alessandro Magno e Marco Polo, che un’occhiata un po’ più in là del loro naso ivece l’avevano pur data nella loro avventurosa vita, forse per scoprire dove nasce davvero il sole. L’Est di oggi, ormai lo sanno tutti, stava facendo la parte del leone sui mercati internazionali e fino a un anno fa tutti fanno la corte alla Russia e alla Cina (dopo un periodo di grande apertura all’India e al Giappone), anche il mondo del vino. No, non parlo dei commercianti di vino, che la corte l’hanno sempre fatta a quei mercati difficili, misteriosi ma tanto promettenti almeno per quanto riguarda la loro indiscutibile ampiezza e l’enorme capacità potenziale di importazione. Parlo proprio dei produttori di vino che a Est hanno cominciato da alcuni decenni a investire, all’inizio con molta prudenza e nelle immediate vicinanze, come Antinori con Péter Zwack (quello dell’amaro Unicum) a Szekszárd in Ungheria, Montresor e Vinarte in Romania, ma anche i Baroncini in Georgia. Sono passati pochi anni da questi primi investimenti, all’inizio timidi e oggi in pieno sviluppo, e scopriamo che la vite non ha dato retta né alle barriere costituite dalle catene montagnose né a quelle della guerra fredda tra le superpotenze. Si fa vino in Kazachistan, in Kirghizistan, in Uzbekistan, in Cina! E lo si fa non certo da ieri, ma da secoli. Sono tutti vini che in Europa Occidentale non si sono mai visti, mai assaggiati, che derivano da vitigni dai nomi che non si riesce nemmeno a tradurre, a scrivere e a pronunciare bene.

La loro qualità media, almeno secondo il gusto europeo, non è certo all’altezza di quello che da noi si chiama buon vino, intendiamoci bene. In gran parte sono vini ancora grezzi, a volte perfino troppo, ma ce ne sono alcuni che hanno una personalità indiscussa e non sarebbero male se fossero fatti da uve ottenute con una maggior attenzione ai sistemi di allevamento e di conduzione delle vigne che vanno per la maggiore nella nostra Europa, nonché con tecnologie più moderne. Fra i pochi fortunati che sono riusciti ad assaggiarli in loco ci sono stati perlomeno due grandi imprenditori del settore: Antinori e Rothschild, che non ci hanno pensato due volte a metter mano al portafoglio e a investire anche laggiù. Il primo con sua figlia in Kirghizistan e il secondo in Cina.

Winery (Richard Haughton Architect Pierre-Yves Graffe – Barbara Kuckowska – FdL ).tif

Il Kirghizistan è grande nove volte l’Italia ma è abitato soltanto da una popolazione di appena un quarto della nostra. Tutta steppa, povera gente in gran parte nomade, sotto la Siberia, tra la Russia e la Cina. L’avventura degli Antinori laggiù è iniziata nel 1999. L’allora presidente della Volkswagen, Carl Hahn, era consulente del governo della Repubblica del Kirghizistan per lo sviluppo di un progetto umanitario che proponeva a quelle popolazioni in gran parte nomadi e povere di fermarsi da qualche parte e di coltivare qualcosa dal reddito più sicuro, per esempio la vite, producendo e vendendone il vino. Non era certo un investimento commerciale, ma prese comunque corpo e nel modo giusto in una tenuta di 8 ettari vitati a Pinot nero, Chardonnay e Riesling sulle rive del lago Issykul a 1.500 metri di altitudine con una piccola cantina bene attrezzata di macchinari provenienti dall’Italia. Le tre figlie di Piero hanno fatto spesso su e giù con l’aereo. Albiera, Alessia e Allegra volavano volentieri in Kirghizistan per seguire gli sviluppi di questa tenuta che non ha più soltanto quel valore umanitario alle origini del progetto. Chi lo sa se avrà avuto successo, sperduta com’è in un mondo tanto diverso dal nostro, ma intanto era sicuramente diventata un interessante punto di riferimento, di sperimentazione, là dove il mondo islamico convive con quello cristiano e nessuno dei due, almeno laggiù, ha mai avuto la benché minima intenzione di prevaricare l’altro.

Una civiltà che si è rivelata tutto il contrario di quella dei Balcani, dove la pace va presidiata da truppe di altri Paesi sennò si scannerebbero per piantare o per distruggere le vigne a seconda della religione di appartenenza. Una civiltà a noi lontana, ma che confina sia con la Russia che con la Cina.

La Russia è sempre stato un mercato interessante per il vino, anche se contradditorio. Se chiedete a un esportatore di vino italiano in quel Paese (ma uno che abbia il polso della situazione come non ce l’hanno tutti e che se l’è fatto con un mazzo tanto nel girare da cima a fondo quel grande Paese), ebbene vi dirà che in Russia si sono sempre vendute le bottiglie del nostro vino tra 10 e 20 volte il prezzo che le avevano pagate franco cantina. Alla faccia della crisi! Ma gli importatori russi si aggrappavano comunque al pretesto della crisi per piangere miseria e si strappavano i bottoni della camicia per avere sconti da 10 centesimi di euro sulle stesse bottiglie. Poi sono arrivate le sanzioni e l’export di vino italiano in Russia ha subito la più grande débacle della Storia.

La Cina invece sta diventando da qualche anno un mercato interessante, ma non contradditorio come quello russo. La vite in Cina si coltiva da almeno 6.000 anni e il governo del PCC ha cominciato a promuovere il vino rinnovando quei vigneti che erano stati rovinati dalla Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, circa 65.000 ettari, per crearne poi anche degli altri. Nel 2009 si stimava che la superficie vitata in Cina fosse già di almeno 300.000 ettari coltivati con i rossi Beichum, Cabernet Sauvignon, Merlot e con i bianchi Long Yan, Baiyu, Jifeng. In una dozzina di anni sono stati addirittura triplicati e si parla oggi di circa 900.000 ettari. Vi si produce di certo più di dieci volte il vino che si fa a Bordeaux, quindi si parla già della quinta potenza vinicola mondiale con diverse centinaia di cantine. Già a un paio d’ore d’automobile da Pechino ci sono delle soleggiatissime colline con dei bei vigneti visitabili dai turisti e dagli operatori commerciali stranieri. Nel 2009 il consumo annuo di vino in Cina raggiungeva i 0,27 litri pro-capite e la produzione locale non bastava già più, tanto che si importavano vini da almeno 40 Paesi diversi.

La penisola di Penglai, dove era avvenuto il più grande investimento francese, aveva già allora più di 10.000 ettari vitati soprattutto a Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc, dunque i classici vitigni bordolesi (i 95% dei vini di questa penisola si chiama appunto ”Bordò cinese” e il barone Eric de Rothschild aveva appunto dichiarato che proprio qui aveva voluto fare il primo ”eccezionale cru cinese”, il primo icon wine della Cina. Non ha conquistato una popolarità anche qualsiasi in Europam, ma intanto altre ditte come Rémy Martin, Pernod Ricard e Miguel Torres, spesso nell’ambito di joint ventures con ditte cinesi, si erano impegnate a ristrutturare o piantare a ritmo accelerato dei vigneti con i soliti noti vitigni bordolesi. I cinesi hanno bisogno di know-how, quindi impiegano molti consulenti, enologi e consulenti stranieri. Durante il salone Vinisud di Montpellier, uno dei più famosi produttori del Languedoc, Château Auzias, ha invitato ad assaggiare la prima annata del vino della sua tenuta cinese di Château Reifeng-Auzias. Un prezzo che non scherzava affatto: da 18 a 80 euro per una bottiglia. Ed è andato a ruba. Il ritmo con cui fin d’allora i vigneti e gli investimenti nel vino in Cina è impressionante e se non cambia nulla in questa materia, dobbiamo tenere conto che nei prossimi decenni salirà in cima alle statistiche del vino. È un mercato molto dinamico.

I cinesi importano principalmente vini di qualità imbottigliati dalla Francia (sono completamente pazzi per il Bordeaux) e parecchi vini base anche dalla Spagna, però negli ultimi anni hanno cominciare a importare anche bottiglie e sfusi dall’Australia, dal Cile, dagli Stati Uniti e bottiglie dall’Italia. La conoscenza sta gradualmente migliorando, circolano molti più articoli e libri sul vino e sono diventati molto popolari i corsi WSET Wine & Spirit Education Trust. Ebbene, Bordeaux gode davvero di un prestigio unico tra quei cinesi favolosamente ricchi amanti del vino per via di una moda che va diffondendosi rapidamente. Questa regione francese ha beneficiato parecchio dei rapporti con la Cina, si è arricchita in fretta, ha approfittato del boom, ma il mercato ne ha risentito anche le conseguenze perché i vini più famosi comprati sempre più velocemente hanno cominciato a diventare delle rarità, i loro prezzi sono saliti così vertiginosamente che in certi casi hanno perso il contatto con la realtà del mercato internazionale. Tuttavia, vale la pena ricordare che dopo la pandemia esiste il rischio di un crollo di questo mercato: l’attività economica cinese, dopotutto, ha certamente rallentato molto. Nel 2022 il declino dei consumi della Cina è stato del 15% rispetto al 2020, per esempio.

Le analisi della crescita degli ultimi anni prevedono che molto presto la Cina diventerà il secondo consumatore di vino al mondo. Tuttavia, l’esportazione di vino in Cina dovrebbe ricordare che si tratta di un mercato enorme, assorbente, ma molto diversificato per le diverse origini culturali, religiose, linguistiche, sociali e soprattutto con preferenze alimentari fortemente divise. Le cucine regionali e le abitudini culinarie sono molto diverse. Per esempio, sulla costa è tutto a base di pesce e frutti di mare, intorno a Shanghai le pietanze mostrano molte note dolci, nell’est predominano i piatti salati, nel Nord quelli speziati e nel Sud quelli piccanti e per promuovere i vini da abbinare bisogna tenere a mente queste differenze.

In questo contesto va sottolineato che la popolarità del vino non è poi così visibile in Cina: il vino non è un prodotto di massa, non ha ancora trovato la sua strada verso la tavola quotidiana. Rimane nell’ambito dei cinesi più ricchi, essendo un segno di prestigio e di acquisita competenza culturale e di stile di vita occidentale. Il numero uno è ancora la birra, bene anche l’alcool tradizionale cinese Baijiu (distillato di cereali) o il vino di riso. Ma non c’è solo il mercato.

La follia bordolese, che dura dagli anni ’80 del secolo scorso, si manifesta non solo negli acquisti folli dei vini locali più costosi, ma anche nell’acquisto di vigneti e tenute locali vitate o vitabili (già centocinquanta di queste sono ormai in mano completamente cinese). I Cinesi ricchi investono in vigneti e costruiscono i propri ”chateaux” (senza accento proprio come quelli balcanici), cioè delle proprietà quasi letteralmente copiate da Bordeaux perfino nello stesso design di ”castelli” per mostrare lo slancio alla francese dei loro investimenti. Diciamo che stanno riallacciandosi a un passato che non aveva avuto fortuna.

Le prime scoperte archeologiche di vino d’uva in Cina indicano l’età neolitica (le prove provengono dalle scoperte a Jiahu, nella provincia di Henan), ma la vera e propria attività vitivinicola risale al periodo tra il 1046 e il 256 a.C. durante la dinastia Han, quando la vitis vinifera fu portata in Cina dall’Asia centrale nella provincia dello Shaanxi (vicino alla moderna Xi’an). Nonostante questa lunga storia, ricavabile da ”Overview of Wine in China” di Hua Li e Hua Wang (che si trova al link https://excerpts.numilog.com/books/9782759825165.pdf), il vino non è mai entrato nelle abitudini alimentari cinesi e i primi vigneti professionali si sono piantati nella provincia di Shandong soltanto intorno al 1892.

Gli ultimi decenni hanno portato molti cambiamenti. Attualmente, la Cina ha raggiunto la vetta delle statistiche sul vino. Gli 870.000 ettari di vigneti in produzione nel 2017 sono saliti sul podio delle aree vitivinicole per estensione e secondo i dati dell’OIV (Organisation Internationale de la Vigne et du Vin), la superficie vitata della Cina continua a crescere a ritmo crescente (per esempio in un solo anno come il 2016 si trattava di oltre 17.000 ettari). La Cina è già giunta a occupare il quinto posto nel mondo in termini di consumo di vino (seguita da Stati Uniti, Francia, Italia e Germania) ed è anche il quinto importatore di vino in termini di volume e il quarto in termini di valore del vino importato. I numeri sono impressionanti. Dove volerà ancora questo pallone cinese gonfiato così rapidamente?

Ci sono diverse regioni vitivinicole in Cina. Le aree più degne di nota sono la provincia di Shandong, la provincia di Hebei, Shascheng a Nord della Grande Muraglia, Pechino, le coste della baia di Bohai, Tianjin, la provincia di Shaanxi che è considerata la culla della civiltà cinese, il Ningxia che sta dimostrandosi la maggiore produttrice nonché la regione più promettente e la provincia di Jilin. Al momento, i vini venduti con i nomi geografici Shandong e Heibei rappresentano più della metà dei vini cinesi, sia in termini di quantità che di valore. I produttori chiave includono Chateau Nuage, Chateau Chanson, Chateau Silkroad, Great Wall, Dragon Seal, Dynasty, Suntime, Thongu, Weilong, Changyu, Domaine FrancoChinois e l’emergente Kanaan con il suo enologo giovane e talentuoso Zhao Desheng.

Il vino in Cina sta cominciando a diventare non solo un elemento interessante della gastronomia, ma anche un volano economico. Un buon esempio è Fangshan, un distretto situato alla periferia sud-occidentale di Pechino. Per salvare la regione dai problemi finanziari, si è concentrata sulla produzione di vino. Nel 2012 sono stati firmati i contratti di investimento per un progetto che punta molto sulla promozione del vino, dell’enoturismo, dell’organizzazione di sagre e degustazioni. Attualmente in questa nuova regione vitivinicola si coltivano già oltre 1.200 ettari di vigneto e ci sono già adesso diverse cantine che alla fine dell’opera saranno circa 30.

Ma bisogna ricordare che la maggior parte dei vigneti è destinata alla coltivazione dell’uva per il consumo fresco da tavola e per la produzione di succhi, concentrati, bevande, conserve e uva passa. Quando si tratta di vino, solo dai 15 al 20% viene utilizzato per fare il vino. Attualmente, la varietà rossa più popolare è il cabernet sauvignon, poi shiraz e merlot, invece la più comune tra quelle bianche è lo chardonnay. Più dell’80% di tutti i vini prodotti sono rossi.

In Cina però sono diversi i vitigni che vengono utilizzati nella produzione di vino. C’è il cabernet gernischt (a lungo considerato un clone del cabernet franc, ma studi recenti indicano chiaramente il carménère), ci sono anche gli ibridi tra vitigni cinesi e quelli europei o americani). In Cina ci sono diverse dozzine di varietà ”selvatiche” meno conosciute, come le autoctone locali longyan, shuanghong, beihong, beimei, beibinghong, gongzhubai, kyoho e hutai che sono usate per produrre ice wines nella provincia dello Shaanxi. È probabile che queste varietà verranno utilizzate in futuro nell’industria vinicola cinese, principalmente perché offrono una maggiore resistenza alle malattie e sono più adatte al clima e al suolo locali.

Guadagneranno una popolarità più ampia e avranno del potenziale? Difficile dirlo. Lo stile dei vini non ha ancora conquistato i palati degli enoappassionati europei. Quale tipo di vino brillerà in Cina? Il cabernet sauvignon, il merlot e lo chardonnay dominano in questo momento i vigneti per la produzione di vino e la qualità è migliorata negli ultimi anni, ma questi vini potranno davvero sorprendere altri mercati del vino? Ricordo che il 6 ottobre 2020 a Monza si erano presentati due bianchi e due rossi di Château Changyu, l’azienda vitivinicola più antica in Cina fondata nel 1892 dal diplomatico Zhang Bishi con l’enologo austriaco Lenz Maria Moser.

Come ho già accennato nell’accenno alle regioni vitivinicole, in Cina ci sono dei luoghi con terreni considerati vocati alla vitivinicoltura, però, nonostante i suoli adatti, è il clima che non facilita la gestione della vite. È più facile coltivare riso e cereali (birra e vodka di riso sono le bevande più popolari). Ad esempio, nella regione di Bohai Bay, una delle più importanti per la vitivinicoltura, la temperatura può scendere sottozero fino a meno 21,7°C in inverno e può raggiungere e superare anche i 38°C in estate. C’è tutta una fascia climatica di questo immenso Paese da ovest a est dove in inverno, per proteggere le viti dalle temperature estremamente basse, le viti vengono ricoperte di terra soffice per essere poi dissotterrate in primavera. Con la coltivazione su larga scala, questa è una procedura che però richiede tempo e denaro. Nel famoso distretto vinicolo di Ningxia, le temperature invernali possono scendere sottozero fino a meno 38°C . A volte questo può essere considerato anche utile: nel Nord Est della Cina, dove i climi invernali sono altrettanto rigidi, vengono prodotti infatti molti ice wines. Ma non ci si può limitare a questi ultimi, poiché dal punto di vista culinario, la Cina è più diversificata di quanto pensiamo e vale perciò la pena impegnare meteorologi e scienziati per trovare luoghi più adatti, caldi e asciutti.

Vengono già fatte molte ricerche e analisi e vengono invitati in Cina enologi, scienziati e consulenti stranieri. I cambiamenti degli ultimi anni sono visibili. È certamente affascinante poterli notare a ogni visita, poiché sono sempre più dominati da una certa correttezza tecnologica, dall’uso di legni secondo manuale, da una promettente concentrazione e una diffusa morbidezza, ma ci sono ancora troppi vini simili, uniformi, anche un po’ noiosi e i consumatori cercano novità, uno stile un po’ più sorprendente, un lampo di originalità. La natura degli attuali vini cinesi è abbastanza chiara. Dominano i vini dallo stile internazionale, quindi: concentrazione, fruttato ”dolce”, netto, aromatico, gusto morbido e accessibile. I vini troppo acidi e tannici, quelli più osannati da Robert Parker, per intenderci, nonostante tutte le medaglie e i diplomi dei concorsi ottengono sempre meno successo perché non riescono ad abbinarsi bene alle cucine cinesi, che hanno abitudini culinarie molto diverse fra loro e prediligono

vini rossi corposi, più austeri e sani e con maggiori probabilità di essere bevuti dalle donne, che costituiscono la maggiore percentuale di consumatori nelle grandi città, quella ventina di metropoli con oltre 10 milioni di abitanti dove la popolarità degli spumanti sta lentamente crescendo. Grazie a quale vino? Sì… proprio il Prosecco!

Rolando Marcodini

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