Due mondi nel bicchiere

A dire la verità, più sulle mensole dei supermercati che su quelle delle enoteche si assiste a uno spettacolare confronto tra le diverse enologie dei vari Paesi del mondo, data l’ampiezza dell’offerta. Dopo la svolta del millennio, è lì che si può cercare di provare a interpretare la situazione nel mercato dei vini. Grossomodo, possiamo riassumerla nello scontro fra due modi di affrontare la vitivinicoltura: Nuovo Mondo contro Vecchio Mondo. I produttori europei (Vecchio Mondo) credono ancora nella tradizione e nei regolamenti giuridici, si organizzano in Consorzi, si danno dei disciplinari. I produttori del Nuovo Mondo invece puntano soltanto su tecnologie, innovazioni, ricerche di mercato, libertà di fare ciò che si vuole con quello che si vuole soprattutto in cantina, ognuno per i fatti suoi.

Presso il consumatore quale dei due modi di fare il vino vincerà?

Mi viene ancora in mente un noto intervento in pubblico della baronessa Philippine de Rothschild, proprietaria del più famoso Château francese, che aveva detto ai suoi ospiti: “la produzione di vino è veramente una cosa molto facile… soltanto i primi duecento anni sono difficili”. A prescindere dal fatto che la famiglia Rothschild è in possesso delle sue vigne dal 1853, quindi i primi duecento anni non sono ancora passati, gli enocritici e i consumatore non possono non essere d’accordo sul fatto che per produrre magnifici vini non c’è bisogno di avere una così lunga tradizione di vinificazione e va tenuto presente, inoltre, che proprio la sua grande famiglia si è data da fare come poche altre a investire da qualche decennio enormi capitali nella viticoltura in Cile e in Argentina, nel Nuovo Mondo. Per verificare, per sperimentare, per capire se ha delle solide basi la teoria che i vini del Nuovo Mondo possono eguagliare e anche essere migliori di quelli europei a tutti i livelli, da quelli di largo consumo fino all’eccellenza.

Non è un’idea soltanto dei Rothschild e non è un’idea solo di oggi.

Prendiamo per esempio la Nuova Zelanda, la cui avventura col vino è cominciata sul serio negli anni ’70 del secolo scorso. Oggi, nonostante abbia sulle spalle appena cinquant’anni di tradizione vinicola, molti osservatori ritengono che proprio in questo Paese si produce il migliore Sauvignon Blanc del mondo.

Robert Parker, considerato dagli anglosassoni come il più influente critico mondiale di vini e sicuramente un grande estimatore dei vini di Bordeaux, aveva perfino scritto che Grange (il più rinomato vino australiano) ha sostituito Château Petrus come il più degno di attenzione e il più eccitante vino del mondo. Di più. Nel 1976 il più famoso mercante inglese di vino, Steven Spurrier, aveva riunito intorno a un tavolo quindici tra i più rispettabili esperti di vino francesi per una degustazione cieca (senza conoscere l’etichetta) di vini francesi e californiani che aveva premiato come migliori, con sorpresa di tutti, uno Chardonnay Chateau Montelena di Napa Valley del 1973 vinificato dall’americano di origine croata Miljenko Grgić e un Cabernet Sauvignon del 1973 di Stag’s Leap Wine Cellars vinificato dall’americano di origine polacca Warren Winiarski. L’esperimento provocò un tale scompiglio, che iniziarono a circolare chiacchiere su presunte falsità. E venne ripetuto due anni dopo, dando gli stessi risultati.

E come appare oggi la situazione? Meglio attenersi ai fatti, che sono meravigliosamente espressi dai numeri. La Gran Bretagna è un mercato perfetto per l’osservazione delle tendenze mondiali nel commercio dei vini. Questo per tutta una serie di motivi, ne cito solo qualcuno: non ha una significativa produzione propria, da lì viene la gran parte dei critici famosi, è da lungo tempo il mercato tradizionale di commercio dei vini europei e d’oltremare. Nel corso di appena pochi decenni i produttori europei hanno perso una enorme fetta di mercato a favore dei produttori di vino del Nuovo Mondo, i quali nello stesso periodo hanno quasi triplicato la vendita di vino sul mercato inglese. Alla caduta delle vendite dei vini europei hanno contribuito cause profonde.

Prendiamo per esempio la Francia, dove i vitivinicoltori sempre rimasti legati dai propri condizionamenti giuridici, quelli adottati per assicurare una opportuna qualità dei vini prodotti. Da una parte tutto bello e meraviglioso, ma osservando più precisamente le regole prescritte dai sistemi AOC (denominazione d’origine controllata) si nota che esiste un grande numero di casi nei quali i vitivinicoltori francesi non se la cavano al meglio. Basti ricordare che, per rimanere nei dettami della classificazione AOC, nelle annate più riuscite gli enologi sono stati anche costretti ad allungare i vini con l’acqua e in quelle meno riuscite a tagliarli con mosti o vini provenienti dall’Italia meridionale. Basti aggiungere a questo che negli ultimi anni si è tornati ad usare alla grande circa duecento categorie di Vin de Pays (simili ai nostri Igt, per i quali le regole giuridiche sono molto più liberali), e tutto va a comporsi in una logica d’insieme.

Ma è questo l’unico motivo? Sicuramente no. C’è ancora qualcos’altro. Come la maggioranza di noi con sicurezza sa, gran parte dei vini francesi di alta qualità, richiede lunghi anni di affinamento e grazie a questo ottiene quella pienezza e complessità per loro così caratteristica. Ma il consumatore medio aspetterà cinque o dieci anni che la bottiglia da lui comprata nel negozio all’angolo sotto casa raggiunga la sua maturità? Ma il consumatore medio comprerà per una cifra astronomica una bottiglia di vino già sufficientemente affinato ancora in enoteca? Con sicurezza no. A questo hanno prestato attenzione i produttori di vino del Nuovo Mondo e ne hanno approfittato.

Anche se la loro strategia è cominciata in California, oggi il migliore esempio della sua applicazione tattica è l’Australia. Cosa sarà mai quella caratteristica che attira sempre più larghe masse di consumatori verso i vini australiani? Niente altro che il carattere fruttato e l’immediata pronta beva. Cos’altro è anche importante? La qualità stabile, non c’è un’annata diversa dalle altre, grazie alle manipolazioni permesse in cantina. Ogni regione d’origine australiana è molte volte più grande di tutte quelle della Francia messe insieme, il che consente prezzi inferiori e ha permesso lo sviluppo di marchi di vino (in inglese: brand name) che sono sinonimi di buon rapporto tra qualità e prezzo. Basta conoscere il nome del produttore e già al buio si può comprare una bottiglia economica, mentre per la stessa cifra, con un vino francese non abbiamo nessuna garanzia di qualità.

Un’altra calamita che attira i consumatori di vino del Nuovo Mondo è l’onomastica, il nome del vitigno in etichetta. In Australia e in genere in tutto il Nuovo Mondo si utilizza sempre il nome dell’uva dai quali un certo vino deriva (per esempio Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay e così via), non quello della zona o del comune in cui viene prodotto (per esempio Chablis, Châteauneuf-du-pape, Meursault e così via). Il nome del vitigno ben evidenziato in etichetta si rivela come un’altra freccia andata a bersaglio. Per il consumatore medio, infatti, sapere che coltivazione delle uve avviene in una zona o in un comune è perlomeno superfluo, mentre conoscendo i propri gusti rispetto al vitigno che preferiscono può assaggiare il vino che ne deriva andando a paragonarlo, per esempio, con quello che arriva da altre parti del mondo per scegliere non in base al nome, ma al prezzo, al rapporto tra qualità e prezzo.

Credo che sia importante anche ricordare che in genere i vini secchi del Nuovo Mondo conservano quasi sempre un residuo zuccherino naturale maggiore di quelli del Vecchio Mondo, perfettamente mascherato dal carattere fruttato, perciò possono risultare abbinabili a un maggior numero di pietanze delle cucina casalinga quotidiana. E la pietanza senza vino, come sappiamo benissimo in Italia, è già in sé una punizione.

 

Rolando Marcodini

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