La nuova frontiera del vino è “tecno e nature”?

Come se fosse ieri, ricordo ancora la notizia del 5 dicembre 2008 che la giornalista francese Sophie Kevany aveva dato sul suo blog e che mi aveva fatto sobbalzare sulla sedia: la famosa tonnellerie Seguin Moreau si era impegnata nella sperimentazione di botti ”aromatizzate” in una versione speziata, tannica, fruttata in rosso. Pur dubitando della veridicità di questa notizia anche se non c’erano riscontri sul sito della tonnellerie Seguin Moreau (del gruppo Rémi Martin) in quanto si è sempre saputo della sua stretta collaborazione fin dal 1983 con la Facoltà di Enologia di Bordeaux, incoraggiata dai professori Denis Dubourdieu, Jean-Noël Boidron, Pascal Chatonnet, Valérie Lavigne-Cruège e Pascal Ribéreau-Gayon alla ricerca di vie ancora inesplorate nella comprensione delle interazioni tra il legno e il vino.

Gestione durevole delle foreste, selezione della quercia, maturazione chimica e organolettica del legno, naso elettronico per analizzare i composti volatili del bousinage, diversificazione dei profili delle tostature e quanto di meglio la tecnologia possa offrire, scoprire, inventare. Insomma la dimostrazione che si può accompagnare la maturazione delle uve con la padronanza della cessione di sostanze dal legno al vino. Si ottiene ormai ciò che si vuole, dai rimedi contro deviazioni aromatiche e gustative (sentori di segheria, di animale o di muffa) fino alla gestione delle tostature per conferire al vino apporti tannici, addolcimenti e aromi da scegliere fra vaniglia, pane tostato, caffè, boisé, cuoio, noce secca, mandorla tostata, fumé, eccetera.

Fin qui niente di nuovo, semmai una conferma che ormai la gran parte del vino in commercio non è più quello che ci descrivono gli abbecedari alle elementari, dalla folkloristica pigiatura a piedi nudi fino alla spillatura. No. La vita è brutale e se ne vogliamo parlare senza peli sulla lingua, ma senza formare anche dei partiti l’un contro l’altro aizzati (poiché non se ne sente proprio il bisogno), c’è sicuramente un problema nel definire il confine tra ammissibilità e inammissibilità dell’ingerenza dell’uomo durante la vinificazione.

Un problema comunque complesso che parte dall’accettazione o no dello zuccheraggio dei vini deboli o del loro taglio con mosti concentrati rettificati, oppure dell’addizione dei tannini, dei lieviti comprati in commercio, dei chips (trucioli di legno), eccetera. A fare il giro nelle cantine si rischia a volte di perdere tutta la poesia che nasce in un bel calice di ”quello buono” e qualcuno può rimanere anche turbato dalla quantità di mezzi ormai a disposizione per la correzione dei vini da rendere sempre più intriganti, muscolosi, scioccanti, ma costruiti, artefatti, non più sinceri. Possibile che si debba sempre associare l’innovazione all’addizione di qualcosa d’esterno, come se il vino fosse sempre e soltanto un malato che ha bisogno di pillole, di iniezioni, di supposte, di flebo? Additivi, cioè costi aggiunti. E chi ci guadagna? L’industria che li produce, non certo la natura.

La natura fa innovazione in modo opposto, cioè seleziona, elimina, toglie di mezzo quello che non le si adatta. Siamo proprio sicuri che non si debba aiutarla investendo piuttosto in ricerca per ridurre seriamente ed eliminare in prospettiva l’utilizzo di prodotti chimici tossici come gli antiparassitari e i diserbanti che sono spesso inutili e alterano gli equilibri e i cicli biologici, ma anche gli acidificanti, i demetallizzanti, la gomma arabica, le doghe aromatizzate e tutti gli altri idoli cui è sempre stata sacrificata la naturalità, come l’osmosi inversa, ma non solo?

L’ho visto fare con la più vicina facoltà di Enologia dal conte Alberto D’Attimis Maniago di Buttrio nei Colli Orientali del Friuli sul suo vino, secondo i suoi concetti che condensava così: «Io non faccio nulla, lo aiuto a nascere, come una levatrice, tutto qui: lui esiste già, è nella natura, nelle mie piante e nei miei vigneti. Io mi preoccupo di una cosa sola: di trattarlo con delicatezza, perché nasca forte e cresca solido».

E mi risuonano ancora in mente le parole dell’enologo Fabrizio Penna del purtroppo scomparso dal web Enotime.it a un convegno specializzato: ”«rimettersi in gioco e ripensare le regole, coniugare naturalità e scientificità, una lucida follia dove si può anche scoprire che alcune pratiche che oggi definiamo di ”progresso” domani potrebbero rivelarsi retrograde, obsolete e addirittura dannose».

A quel tempo mi ero permesso di rivolgermi alla marchesina Alessia Antinori, che era l’unico giurato italiano di Wine Innovation Awards (by Charlotte Hey, editore di The Drinks Business) e cioè di una serie di eventi dedicati allora a premiare le migliori produzione di vino, con annessi e connessi, produttori, commercianti e detentori di marchi, anche giovani o new entries e che sono stati consegnati durante il Vinexpo 2009 di Bordeaux.

Le avevo scritto pubblicamente che è vero che ”without change, there can be no progress” (senza cambiare non può esserci progresso), sperando in suo impegno in giuria proprio per dimostrare che innovare, investire nella ricerca e nella qualità, esplorare nuove tecniche e processi produttivi significa anche operare per la massima naturalità possibile, magari prendendo in mano per l’occasione quel bellissimo documento che suo nonno, il marchese Niccolò Antinori, scrisse qualche decina d’anni fa a proposito di un vino ”che frizza e zampilla”, in cui descriveva per filo e per segno anche la prima volta che tentò di produrre in Toscana uno spumante metodo classico con l’aiuto di un enologo francese e gli scoppiarono quasi tutte le bottiglie… mettendosi la mano sul cuore e premiando almeno un produttore innovativo di naturalità invece che di tecnologia.

L’appello è stato accolto e da allora l’attenzione ai vini innovativi di naturalità è cresciuta anche fra i grandi produttori della sua regione, come nel caso di Cecchi, preceduta da una sperimentazione attenta e approfondita e il rispetto per la tradizione, i cicli naturali delle stagioni con il minimo impatto ambientale di continui investimenti conservativi per operare a favore delle persone, del paesaggio e del territorio. Sempre più produttori sono passati al biologico, alla biodinamica e oggi c’è davvero da scegliere tra ottimi prodotti, all’inizio visti con diffidenza per via di alcuni difetti organolettici che oggi però non si presentano più grazie a un uso moderno e sano delle strumentazioni di cantina e dei processi enologici.

Non sono un talebano, per me la tecnologia e la scienza sono davvero importanti quando intervengono al servizio dell’uomo e della sua salute, in questo caso il consumatore di vino, perciò non vedo contraddizione tra ”tecno e nature“, invece di contrapporli con ”tecno o nature”. C’è una grande sensibilità fra gli artigiani del vino, quelli dei vini ”d’autore” e oggi anche da parte di altri grandi produttori che, sulle orme dei più famosi cru de Bourgogne, come Romanée-Conti, Vosne-Romanée, La Tâche, Richebourg, Romanée-Saint-Vivant, Vosne-Romanée e Grands Echézeaux, hanno compreso che la nuova frontiera del vino è proprio questa. La battaglia non è ancora vinta, ci sono ancora troppi prodotti manipolati a prescindere per ridurre i costi e aumentare i profitti invece che ridurre la chimica di sintesi e assicurare meglio la salute pubblica e la salubrità dell’ambiente.

Cercate di non accontentarvi di scegliere sulla base della fama della cantina o del prezzo, ma leggete le etichette e le retroetichette con attenzione, privilegiando gli sforzi dei vitivinicoltori impegnati in questa nuova frontiera quando sono dichiarati, anche se questo può non bastare perché molti vitivinicoltori che sono sicuramente impegnati in produzioni ecosostenibili non sono capaci di comunicarlo. Troppo impegnati nella sostanza, mancano di un addetto alle public relations con l’occhio sempre rivolto al marketing.

Marta Galli, erede della nota dinastia dell’Amarone della cantina Le Ragose e dottoranda presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, ha analizzato un campione di 23 interviste insieme con le professoresse Roberta Sebastiani e Alessia Anzivino dello stesso ateneo e in uno studio pubblicato su “Sustainability” nel 2021 ha concluso che per molti produttori (soprattutto produttrici) l’ecosostenibilità è un modo di vivere e di lavorare, non certo uno strumento di marketing, ed è perciò più diffusa di quanto sembri. Anche una ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore svolta da ALTIS, Progetto VIS e Osservatorio europeo per l’agricoltura sostenibile (OPERA), che ha analizzato pratiche e comunicazione di 70 cantine leader in Italia lo conferma, evidenziando che è la burocrazia il maggiore scoglio.

Troppe agenzie, sigle, sistemi di certificazione, ma soprattutto troppi moduli e troppo tempo per riempirli. Il risultato è che molte pratiche di sostenibilità non sono certificate e quindi non sono comunicabili al consumatore. C’è quindi chi lavora bene secondo questi criteri ma non lo dice, non lo scrive. II numero di quelli che presentano al pubblico le proprie scelte ecosostenibili è bassissimo: solo 18 cantine su 70. Perciò l’informazione preventiva, a mio modesto parere, è fondamentale, Ne guadagnerete senz’altro.

Rolando Marcodini

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