Un sorso di… vodka?

Un sorso di... vodka?

E magari un sorso anche di troppo? L’abuso di alcool uccide, fa strage. Va combattuto attivamente, come si fa con il fumo. E se non ne parliamo noi, che amiamo il vino, che non usiamo l’alcool come un’arma, chi altri pensate che lo possa fare?

Ecco perché ho deciso di sottoporvi questo pezzo che riguarda qualcosa che non avrei mai pensato che esistesse all’inizio del terzo millennio. Vengo subito al dunque.

Interi popoli del profondo Nord del nostro pianeta sono ormai in estinzione. L’alcolismo lassù sta facendo una vera strage fra le centinaia di migliaia di sbandati nel grande freddo della Siberia e delle Russie più lontane da Mosca. Sono cifre da vera catastrofe e sono state nascoste per più di mezzo secolo dal giogo dei nuovi zar che, dopo l’imposizione a quelle genti dell’alfabeto cirillico che ha scavato un ulteriore abisso culturale con quei luoghi estremi, in conseguenza del ripudio del socialismo fin dalla morte di Stalin stanno operando una strage strisciante di cui non parla nessuno. “Scrivetene prima che scompaiano del tutto!” ho letto in un opuscolo distribuito su un moderno Intercity a Malbork, sulla tratta ferroviaria tra San Pietroburgo e Berlino. L’appello specifica esattamente come si sta attuando una vera e propria strage di quei piccoli popoli che hanno abitato da sempre quei territori da brivido sulle rive del Mar Glaciale Artico, sfidandone il clima bestiale. La caratteristica principale di questo mare è il fatto di avere, nella sua parte centrale attorno al polo nord, la superficie permanentemente ghiacciata che viene chiamata banchisa artica e subisce variazioni stagionali estendendosi verso sud durante i mesi invernali e viceversa ritirandosi verso nord nei mesi estivi.

Un sorso di... vodka?

Le condizioni di vita in inverno lassù sono agghiaccianti.

Nessuno riuscirebbe a immaginare anche soltanto che cosa vuol dire abitare in un fatiscente palazzo di edilizia popolare dove il ghiaccio impedisce all’acqua e perfino al gas di raggiungere gli appartamenti sui vari piani, per settimane intere assediati da temperature di diverse decine di gradi sotto zero. Sopravvivere praticamente esposti al gelo, senza medicine, senza poter mangiare niente di caldo, senza la carta per pulirsi il cosiddetto lato B e senza neppure l’acqua che la sciacqua poi via. Sovente al buio pesto e non soltanto di notte, spazzati via dalle strade spesso e volentieri da incontenibili raffiche di vento. Il tutto non per un paio di giornate turistiche soltanto, quelle che gonfiano la boria di qualche giovane baldo e aitante che s’è comprato magari qualche isba da ristrutturare in Jacuzia, ma per un tempo moltiplicato millanta volte e che non passa mai, stroncando inesorabilmente i più deboli, i bambini, i vecchi, i malati. Non vado oltre. Vi chiedo soltanto di provare anche per un solo attimo a immaginare cosa significhi, anno dopo anno, un perenne stato di black out invernale come quello che lassù si avvera sempre. Pazzesco.

Un sorso di... vodka?

Eppure si parla di circa 200.000 persone appartenenti a più di una trentina di popoli indigeni sparsi in un territorio di circa 10 milioni di chilometri quadrati in 5 enormi repubbliche della Federazione Russa, 4 estesi territori, 10 grandi regioni e 8 province. Si tratta, fra gli altri, di popolazioni antiche, tra cui Ainu, Aleutini, Ciukci, Ciuvani, Coriacchi, Cotso, Dolgani, Enci, Evenki, Ghiliaki, Goldi, Hanti, Inuit, Itelmeni, Jukaghiri, Karagassi, Keti, Koriaki, Kumandi, Lamuti, Mansi, Nanai, Negidal, Nganasani, Nienci, Nivci, Olci, Oroki, Ostiaki, Saami, Samoiedi, Selkupi, Snorzi, Teleuti, Tofalari, Tungusi, Udeke, Ulci, Voguli e… e… e… tanti altri popoli nomadi che vivevano e prosperavano da secoli nella taiga e nella tundra con la pesca e l’allevamento, in simbiosi con una natura certo folle, ma ancora vivibile. In quegli spazi infiniti si concentra però più del 60% delle riserve energetiche del mondo intero, tra carbone, gas e petrolio, alcune addirittura incalcolabili. Questa scoperta ha rivoluzionato fin dal 1600 dapprima la politica zarista, in seguito quella sovietica, e adesso quella degli oligarchi e dei rinnegati  che hanno fatto di tutto per soggiogare questi territori alla fornitura di materie prime e all’industria pesante di servizio, con un impatto tragicamente devastante.

Sono stati disboscati territori immensi, sono stati riversati milioni di tonnellate di scarichi industriali nei fiumi, si è sconvolto il ciclo dell’acqua, provocando massicci inquinamenti anche tossici, per non parlare di enormi incendi nelle foreste.

Gli operai venivano reclutati a forza in quei territori dallo Stato che espropriava loro le terre e li obbligava in massa al lavoro altrove. Anche più volte in pochi decenni da un posto all’altro, come è capitato nel caso degli esperimenti nucleari in Novaja Zemlja, a una distanza dai test che non è stata neanche sufficiente (cosa avvenuta anche per quelli americani nel deserto del Nevada), tanto che parecchi indigeni soffrono ancora di malattie genetiche provocate allora dalle radiazioni nucleari. Ultimamente sono arrivate qui le multinazionali di tutto il mondo. Le foreste boreali interessano alle compagnie di legname e di mobili, dall’Ikea ai giapponesi, il petrolio alle compagnie statunitensi e canadesi, il gas alle ditte “statali” dei magnati più ricchi del mondo intero. L’economia russa era talmente malata che aveva l’urgente bisogno di forzare l’estrazione di qualsiasi risorsa che poteva essere scambiata con valuta pregiata. Le vittime designate sono state l’ambiente e i suoi abitanti, in primis i popoli indigeni che avevano sempre opposto resistenza e che sono stati emarginati a forza, sulla strada di un suicidio perlomeno permesso, se non indotto, grazie all’abuso di alcool, come avvenne per i pellirosse nel Far West. Abuso di alcool, ma di quello forte, di quello che porta in ospedale più becchini che soccorritori senza suscitare troppo casino. Queste persone, infatti, vengono considerate vittime di se stesse, poveri ubriaconi con le loro improbabili miscele di veleni. Popoli interi scompaiono nel nulla a ogni censimento. Altri sono ormai ridotti a poche centinaia di famiglie.

Un sorso di... vodka?

Dopo lo scioglimento dell’URSS, però, l’eco di questo genocidio è riuscito a farsi sentire anche all’estero e tramite la glasnost e la perestrojka si è cominciato a sapere cosa stava capitando lassù e si è riusciti a capire che era in corso una vera politica di estinzione.

Anche senza averla apertamente dichiarata. In alcune regioni l’aspettativa di vita degli indigeni è scesa al massimo a 40 anni di media, il numero dei suicidi e dei morti per l’alcolismo è spaventosamente aumentato. E non è tutto: altri morti per queste due cause si nascondono nelle statistiche di quelli registrati ufficialmente come vittime del freddo (soltanto perché caduti per strada e sepolti dalla neve mentre tornavano a casa ubriachi) o di epidemie che si credevano dimenticate dal secolo scorso, come echinococcosi e tubercolosi, per via delle allucinanti condizioni igienico-sanitarie e dello scioglimento dei ghiacci che libera antichi virus e batteri rimasti surgelati per millenni. Nell’opuscolo che ho letto era un medico a parlarne, una donna che ha un contatto quotidiano con le vittime dell’alcolismo indotto, favorito dal degrado in cui sono costrette le comunità ancora sopravvissute. Descriveva problemi reali di depressione diffusa: dove pascolare le renne, dove cacciare gli animali selvatici, dove pescare, dove raccogliere bacche e funghi, di cosa si può vivere oltre a quella bottiglia di vodka che costa meno dell’acqua. Il tasso di mortalità di una dozzina di questi popoli è molto alto. Nel primo anno di vita supera 5, 6 o 7 volte i valori medi della Russia. Presso i maschi tra i 24 e i 34 anni è del 50% più alto. La mortalità sul lavoro è addirittura da 3 a 4 volte superiore rispetto a quella degli immigrati giunti da altre regioni della Federazione Russa a occupare gli stessi posti di lavoro. La maggioranza delle popolazioni indigene di quel profondo Nord vive molto al di sotto del limite di povertà di quel Paese, che è già povero di suo.

Anche negli ultimi dieci anni i sopravvissuti continuano a essere avvelenati con la vodka.

E nonostante che gli studiosi riconoscano ormai l’insopportabilità del degrado fisico e psicologico, anche se i risultati delle ricerche sono stati per troppo tempo mantenuti segreti, è stata nel frattempo smantellata l’assistenza medica precedente, quella socialista, e adesso sono tutti in balia soltanto delle proprie capacità contributive, vale a dire quasi zero. Le fattorie che erano collettive sono state privatizzate, lottizzate e vendute all’incanto, le renne e i terreni di caccia son finiti in mani estranee e questi popoli liberi sono stati umiliati e trasformati in greggi di beoni, sporchi, indecenti e bersagliati dalle barzellette che circolano appunto a Mosca per esempio sui Ciukci.

Possiamo fare qualcosa per loro anche da qui? Sì. Intanto cominciamo a parlarne, come hanno chiesto loro anche con quell’appello trovato per caso da me sui sedili di un un treno che arrivava da lassù. Mi risulta che i politicanti a tutti i livelli o non conoscono davvero questo grande problema o preferiscono ignorarlo completamente. Invece dovrebbero approfittare del negoziato per l’apertura del passaggio a Nord/Est e per il North Steam con la Russia che, anche se è stato interrotto a causa delle sanzioni adottate da USA ed Europa contro la Federazione Russa, riprenderà comunque dopo un trattato di pace che concluderà il conflitto armato, si possono allegare delle clausole alla collaborazione economica degli altri Stati per salvare dall’estinzione i popoli di quei territori. Che tutti gli accordi futuri con le repubbliche della Federazione Russa prevedano la salvaguardia effettiva, sotto controllo e tutela internazionale, dei popoli, degli ambienti e delle risorse dell’estremo Nord, che sono una ricchezza da considerare come un patrimonio indispensabile dell’umanità. Non bastano le campagne o le leggi speciali contro l’alcolismo. Ci vogliono infrastrutture resistenti al clima avverso, ci vogliono strutture scolastiche, sanitarie, urbanistiche e politiche dei trasporti pubblici che rendano effettivamente migliore la vita in quei luoghi dimenticati davvero dagli uomini.

 

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