Vini ”tipici” da vitigni atipici: una contraddizione tutta italiana

vini

La coerenza non sempre alberga nella mente degli italiani.

Per esempio, nell’ottobre 2021, in occasione del primo Vinitaly Special Edition, i nostri produttori si erano tanto scaldati al punto da denunciare la ”stanza degli orrori” con tutte le etichette dei vini stranieri che sono state scovate a riportare illecitamente gli stessi termini delle più importanti denominazioni vinicole tipiche d’Italia.

Dal Bordolino argentino nella versione bianco e rosso con tanto di bandiera tricolore al Barbera bianco prodotto in Romania e al Chianti fatto in California, dal Marsala sudamericano e quello statunitense sono solo alcuni esempi delle contraffazioni e imitazioni dei nostri vini più prestigiosi e non mancano neppure i wine kit per ottenere improbabili liquidi da nomi inquietanti come Montecino.

Mentre il Prosecco è fra i prodotti più bersagliati con la Coldiretti che ha smascherato il Meer-secco, il Kressecco, il Semisecco, il Consecco e il Perisecco tedeschi, ma in commercio sono arrivati anche il Whitesecco austriaco, il Prosecco russo e il Crisecco della Moldova mentre in Brasile nella zona del Rio Grande diversi produttori rivendicano il diritto di continuare a usare la denominazione

Prosecco nell’ambito dell’accordo tra Unione Europea e Paesi del Mercosur.

vitigni atipici

Eppure quelli che protestano giustamente per queste sgraffignate in etichetta sono gli stessi che nei propri vigneti e nelle proprie cantine giocano in campo avverso con la riproposizione nel nostro Paese di vitigni, legni e tecnologie che sono letteralmente fotocopiati dall’estero.

Il rischio concreto è che fra qualche anno ciò renderà vana la battaglia nazionale per la difesa della tipicità semplicemente perché non esisterà più alcuna tipicità da difendere.

Gridare «al ladro, al ladro!» quando i buoi sono scappati è tipico dell’italiota e quello che leggo in molti dei quotidiani di provincia fra i più letti dai vitivinicoltori in questi ultimi tempi ci somiglia davvero!

La potente macchina elettorale degli occupanti di cadreghini più o meno importanti si è sentita in dovere di dar fiato alle trombe per dare un contentino ai propri elettori, sollevando un polverone per non combinare poi un bel cavolo di niente.

E una pletora di mosche cocchiere e di agit-prop coerenti come un coro di cornacchie si è aggregata alla caccia all’untore, usando parole roboanti e insurrezionali per fare imbufalire centinaia di migliaia di vignaioli a scopo chiaramente elettorale, ma ha volutamente dimenticato che a mangiare pane e volpe non sono soltanto gli stranieri.

Furbate reciproche della serie ”già visto”!

Guardiamoci bene negli occhi! Tanti anni fa anche i nostri produttori di spumanti rifermentati in bottiglia scrivevano in etichetta ”metodo champenoise” addirittura con quest’ultima parola in francese, dopo aver assunto in quel di Reims ed Épernay i loro enologi e cantinieri e dopo aver adottato i loro vitigni, i loro cloni, i loro portainnesti e attrezzato le cantine con la loro stessa tecnologia.

La ferma, ma con savoir vivre, protesta dei francesi ci aveva allora indotti a più miti consigli e i regolamenti europei ci avevano infatti obbligati a scrivere ”metodo classico”.

Visti gli ottimi risultati qualitativi di questo prodotto dell’eccellenza enologica italiana, non mi sembra proprio che questa sentenza abbia fatto un danno al settore vitivinicolo di casa nostra, anzi!

A quell’ottava meraviglia del mondo che è lo Champagne si era aggiunto un meraviglioso vino rifermentato in bottiglia dai profumi e dai sapori un po’ più mascolini e mediterranei di quelli francesi sulla tavola degli appassionati delle bollicine.

Direi anzi che una sana competizione ha migliorato semmai la qualità e calmierato un po’ i prezzi a tutto vantaggio del consumatore, che non è per niente tonto e sa ben distinguere ciò che cerca.

È più preoccupante, a mio parere, invece quanto sta avvenendo sottotraccia da tempo.

Conosciamo i nostri polli: ci sono vignaioli che hanno estirpato vigne storiche per esempio di arneis, albana, canaiolo bianco, damaschino, trebbiano, ecc. ecc. nei territori più vocati per piantumarci chardonnay, viognier, mourvèdre, petit verdot, ecc. ecc. utilizzando tutte le uve con i nomi più fantasiosi tra quelle autorizzate negli elenchi ufficiali alla produzione di vino.

vitigni atipici

Pur di distinguersi in qualche maniera, di strizzare l’occhiolino ai guru delle guide e ai degustatori improvvisati e autoreferenziati, che nel nostro bel Paese ormai proliferano letteralmente, la scelta delle cosiddette ”uve migliorative” dall’eclatante nome esotico fa a pugni con il territorio e con le sue tradizioni e ha immesso sul nostro mercato vini rivolti soltanto a sgomitare per farsi largo sul mercato con gli specchietti per le allodole, le novità che sottraggono sempre più ai palati fini dell’italico suolo l’abituale ricchezza di offerta fra cui scegliere i vini locali più adatti alle gustose pietanze della cucina del posto.

Decine di vitigni autoctoni sono già scomparsi grazie a questa trovata d’indubbio sapore commerciale e con essi il senso della storia, il piacere della scoperta, l’orgoglio dell’Enotria scoperta a rubacchiare assemblaggi al bordolese e legni alla California.

Il vino ha un indissolubile legame con il territorio di cui è un ideale ambasciatore, è la carta da visita di un paesaggio, il tour operator degli agriturismi, infonde il senso della famiglia, restituisce la speranza della rinascita dei piccoli paesi alle giovani generazioni a cui viene la tentazione di emigrare.

Se andate a fare le ferie in qualsiasi altro posto del mondo, scoprirete degli ottimi vini locali dal fascino esotico.

In Dalmazia fanno stupendi Plavac Mali, in Ungheria dei favolosi Egri Bikavér, in Uruguay degli eccezionali Tannat eccezionale e in Argentina dei Malbec straordinari.

Ma volete mettere la delusione, durante una gita nell’Oltrepò Pavese, se vi scoprissimo delle distese di vigneti… di karmrahyut, merwah, albaranzeuli, garrut e sara-pandas? La stessa che si prova in un ristorante di lusso dove si paga un conto a tre cifre per un brodo fatto col dado, un pesce scongelato o un gelato industriale. Chi la fa, l’aspetti.

Le nostre autorità politiche sono anche state talmente spiazzate per inettitudine dalla diffusione di fatto delle viti OGM, cioè dall’introduzione di organismi geneticamente modificati in viticoltura, che sono dovute intervenire le associazioni di categoria per contrastarle, e in tutta fretta.

Come a suo tempo le Città del Vino e la Coldiretti, che avevano firmato un protocollo d’intesa al fine di tutelare almeno fra i propri associati la vitivinicoltura di qualità e i vitigni autoctoni, vietando anche di utilizzare certe tecnologie usate per i mosti nel correggere invece i vini.

Con tutti gli auguri possibili e immaginabili, quanto potrà ancora reggere questa importante presa di posizione di fronte al fatto che un ettaro di vigneto richiede in media 50 chili di fitofarmaci l’anno per proteggerlo dai parassiti?

Moltiplicandoli per i 677.549 ettari del vigneto Italia previsti dall’Osservatorio del Vino dell’Unione Italiana Vini a fine 2022 si toccherà quota significano più di 33.800 tonnellate di fitofarmaci immessi nell’ambiente, pari a circa 1.700 TIR tutti in fila uno dietro l’altro!

Bando alle ciance e veniamo al sodo. Ha ragione Hugh Johnson quando afferma che “i vini non possono diventare buoni per legge”. Ma l‘establishment continua a modificare i disciplinari senza alcuna progettualità, fotografando di volta in volta il cambiamento proposto dal marketing.

Tutto ciò in nome di un riscontro economico immediato e seguendo i capricci del mercato.

Come avevano ben scritto il 3 giugno del 2008 Marco Arturi e Sandro Sangiorgi, è ”un grave errore dal punto di vista etico ma anche sotto il profilo economico: la standardizzazione dei nostri vini ha come diretta conseguenza, nel medio-lungo periodo, un calo delle vendite e dell’attrattiva turistica esercitata dalle zone di produzione.

Per restituire credibilità ai disciplinari e recuperare lo spirito che li ha generati, si dovrebbe condurre una campagna restrittiva, aggiornando e migliorando le regole e i controlli per adeguarli ai nuovi sistemi che l’establishment usa per aggirarli. In questo momento le aziende vinicole possono utilizzare prodotti sistemici che, progressivamente, tolgono vita alla terra e ai vigneti; nella realizzazione del vino non lesinano lieviti, batteri ed enzimi selezionati dalla biotecnologia; inoltre, sono autorizzate sostanze, giustificate da una supposta origine enologica, che dovrebbero aggiustare il liquido.

Tutte queste azioni rendono vano il concetto di territorialità.

Le ultime leggi hanno autorizzato i consorzi di tutela, formati dalle stesse aziende, a  fare delle verifiche sulla corrispondenza tra i vini e i rispettivi disciplinari ma la situazione non è migliorata, visto che in Italia la produzione non ha ancora assunto la maturità per procedere a un serio autocontrollo”.

vitigni atipici

Allora per mantenere i vini buoni, che è quello che conta davvero, che si adegui piuttosto la legge, dando il dovuto risalto a chi l’ha sempre osservata puntualmente secondo la tradizione ed evitando un’assurda via forcaiola a chi la vuole adeguare al giudizio del mercato.

Non dimentico mai che scrivendo di vino si scrive di aromi, profumi, sapori e colori di un prodotto vivo della coltura e cultura della vita di campagna, quindi non mi perdo mai nella poesia, ma penso piuttosto ai veri grandi sacrifici fatti dal vignaiolo.

Parlo dell’uomo che sfida le intemperie del clima andando in vigna anche imbottito di antibiotici perché ammalato e con la febbre, sia con un caldo da infarto sia con il gelo che taglia le mani e la faccia, che fatica a zappare a mano terreni molto scoscesi e rischia morte o mutilazioni se si ribalta il trattore, che prega Iddio di non far grandinare per non levare il pane dalla bocca dei propri figli dopo un anno intero di sacrifici quotidiani, perfino la Domenica e nei giorni di festa quando tutti riposano, quando gli altri fanno i ponti e invece deve fare le gallerie, con un occhio alle cambiali in scadenza e l’altro occhio alla qualità del vino, per provare a versarci nel bicchiere una parte, forse la migliore, di se stesso, della sua famiglia, della sua storia.

Una vita grama specie per chi lavora nel rispetto della tradizione e non segue le facili mode del vino di sicuro successo.

Quel suo vino nel calice non sarà mai lo stesso tutti gli anni, ogni annata risentirà di una vera miriade di varianti, nella buona o nella cattiva sorte. E quanto più riuscirà a corrispondere a questa naturalità, sincero in ciò che estrae dal sole, dalla terra, dalla pianta, dal genio e dal lavoro, tanto più potrà piacerci nella sostanza, almeno, che è quella che conta.

Riassumendo quanto ancora scritto da Marco e Sandro, con cui concordo in pieno, il vino è lavoro e socialità, la globalizzazione rappresenta un’opportunità quando permette di conoscere e confrontare prodotti che sono espressioni di territori e culture differenti ed è invece un pericolo quando impone l’appiattimento della varietà, lo svilimento della territorialità, la sostituzione del lavoro e della capacità contadina con la manipolazione industriale, con l’alchimia, con lo snaturamento delle denominazioni attraverso l’impiego di vitigni alloctoni e pratiche che abbiano la finalità di fare del nostro vino qualcosa di differente a mero scopo commerciale.

La forza del vino italiano risiede nella complessità e nella varietà che rappresentano risorse da valorizzare. Almeno i disciplinari DOCG si potrebbero modificare in questa direzione con la soddisfazione di tutti i soggetti in campo.

Non è che ci sia da stravolgere tutto, semmai basterebbe un paio di concetti con definizioni semplici, di buon senso, inserite fra le altre regole.

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